Butoh is an ineffable kind of behavior produced
by the body itself, possessing neither name nor form.
Masaki Iwana
Tokyo 1945, Reveillon 2020. Tra queste due date si inscrive il percorso terreno di Masaki Iwana, danzatore butoh, performer, regista cinematografico, autore, scomparso l’11 novembre – di ormai due anni fa – in un rapido evolversi di fatti.
Dal Giappone alla Francia passando per oltre quaranta paesi, un numero incalcolabile di performances, cinque lungometraggi e due libri, la sua azione irriducibile, unita a un’esistenza mai addomesticata, ha fondato modi e mondi e di fatto costituito un innesco per generazioni di danzatori, attori, performer, persone di diversi ambiti e provenienze.
Riconoscere oggi l’ampiezza e l’attualità di un cammino tanto singolare è il giusto tributo a una figura senza tempo e l’opportunità per tematizzare, di una impressionante spinta creatrice, alcuni generativi nuclei. Come una immagine a lunga esposizione che mostri alcuni tratti nitidamente incisi e molti perdersi in scie, le riflessioni che seguono non possono che essere uno schivo rimbalzo personale, l’impronta di una destinazione.
“You can’t have it easy” aveva urlato una volta a uno spettatore che rumoreggiava in platea durante una performance. Si riferiva al ruolo cruciale dell’esperienza, quell’insostituibile attraversamento che lascia infine trasformati, di fronte al quale le parole possono accompagnare fino a un certo punto o arrivare molto dopo, restituendo il centro al muto accadere.
Le parole di Masaki erano rari remoti attrezzi, venivano da lontano, tagliavano inaspettatamente il dicibile, aprendo risonanze segrete e sentieri tra luoghi inavvicinabili. Vibravano fin dove il vuoto diveniva maestro e l’esperienza, inevitabilmente individuale, il compimento necessario. La solitudine del performer era drasticamente sottesa nell’invito a cercare la propria via: “your own method”.
Si era forgiato da autodidatta Masaki al di fuori della “genealogia del butoh”, condividendo con il fondatore, Tatsumi Hjikata, il monito a non nutrirsi dell’eredità altrui.[1] All’uomo che a trent’anni aveva lasciato le sue precedenti vite per la danza era apparso presto chiaro che nessun insegnamento come nessuna tecnica presa in prestito avrebbero potuto garantire quel dischiudimento d’essere che è la danza. Aveva scelto allora la via solitaria volgendosi senza esitazione al fondamento: l’incontro frontale con la concretezza del corpo.
“Il butoh non esiste” Masaki rispondeva a uno spettatore che chiedeva in cosa si differenziasse il suo butoh da altre forme di butoh. “Per precisione direi che questa è la danza di Iwana Masaki…” “Se ci fosse qualcosa chiamato butoh, vorrei (poterlo) vedere nel palmo della mano…” Era il novembre 2019, durante un incontro pubblico che seguiva una performance presentata nell’ambito del Danae Festival, alla Fondazione Mudima a Milano[2], probabilmente la sua ultima apparizione in Italia. Solo al termine dell’incontro Masaki tornava su quella prima domanda che aveva inizialmente e in modo paradossale destituito di senso. La traduzione inevitabilmente lacunosa riferiva: Masaki parla del butoh come di un’esperienza corporea, come la possibilità di “fare esperienza sul proprio corpo e trovare qualcosa di concreto… L’esperienza di conoscere qualcosa del corpo, di sé.”
Una definizione sterminata della danza, un campo concreto di esperienza senza nome e senza debiti, un atto radicale di riduzione al corpo. Il corpo spogliato delle sue molte vesti, dei condizionamenti e delle convenzioni legate alla tradizione, all’educazione, alle gerarchie, alle genealogie, a qualsiasi normatività legittimata a informare pratiche e linguaggi. Non il corpo canonico virtuoso, che si specchia in celebrazioni e simmetrie. Non il corpo cartesiano, corpo cadavere, estensione, ma il corpo-vita, corpo di carne, corruttibile sedimento di un tempo non solo personale, corpo-memoria, corpo-spirito, corpo generativo che precede e prescinde il verbo e il suo ordine. Paesaggio originario, immanenza, in giapponese nikutai.
Difficile posizionare il senso di queste parole inservibili all’intelletto in assenza dell’esperienza diretta: l’incontro – potenzialmente sconvolgente – con il sé materia e daimon, con l’autonomia e l’intensità di una vita tanto indomita quanto ignota. Esattamente questo incontro dagli esiti formali imprevedibili costituisce l’esperienza non codificabile della danza e – nelle parole di Masaki – il focus del suo dinamico e mutevole lavoro, incentrato nel riconoscere ed estrarre la vita stessa dal (del) corpo. E’ questa vita originaria, universale e individuata, latente e ignorata, a tratti intuita, indelebilmente manifesta in alcuni epifanici episodi che innumerevoli persone da tutto il mondo hanno cercato in un arco temporale di circa quarantacinque anni nella dura pratica laboratoriale di Masaki, nella sua danza, nel suo sguardo assoluto, nel silenzio.
Era un tempo fuori dal tempo, un luogo fuori dai luoghi quel concreto stato di ascolto che chi si avvicinava al lavoro si trovava a esperire. Avveniva nell’esercizio della danza, nelle intuizioni improvvise come nelle notti guidate da sogni trasformativi, in un continuum di esperienza definibile, al tempo stesso e senza contraddittorietà, come perdita e individuazione o con una parola: connessione.
La pratica consegnava chiaramente – la chiarezza è un tratto specifico dell’esperienza sensoriale – la percezione del sé fenomenico non disgiunto dal molteplice visibile e invisibile delle forze e delle presenze in atto, la percezione del carattere plurale e dinamico dell’unità di tempo, del carattere plurale e dinamico dell’identità stessa. Aprirsi a questo livello di lettura equivaleva a ricevere istante per istante la partitura degli accadimenti, ai quali in inesauribile dialogo il corpo performativo appartiene, significava partecipare corporeamente alla ritmica del farsi del tempo. La danza non era riproduzione mimetica di forme, ma attuazione di stati, che come evento emergente può declinarsi in articolazioni e forme. Era una pratica concreta la sua, l’accendersi evidente e mai uguale di un fuoco.
Nei primi anni di laboratori in Europa Masaki si soffermava, nell’osservazione dell’azione in scena, sul rapporto tra la disposizione a esporsi e quella a rinunciare (exposer/renoncer). L’assoluta assunzione di responsabilità di fronte al compito performativo, l’oggettività dell’attraversamento, l’offerta di sé che fonda ogni teatro, trovava effettiva definizione solo nel rapporto insolubile con il proprio rovescio: la rinuncia come condizione di apertura in grado di sospendere la volontà e fare dell’agire un non agire, potenziale, informe, intuitivo riconoscimento di un farsi altrove, altro da sé. L’enorme portata di questa visione che rende l’identità pluralità era assolutamente estranea all’esercizio, sempre libero da implicazioni e speculazioni ideali, morali, personali ed esattamente trattenuto nella concretezza sensoriale, unico terreno possibile di trasformazione.
Potrei altrimenti descrivere – con un linguaggio che solo la sedimentazione dell’esperienza a posteriori ha depositato – lo stato della danza come un esseretempo in grado di abbattere i confini dell’identità risultato di un’immagine mentale, di una volontà di rappresentazione e di autorappresentazione, per aprirsi a un istante sconfinato, desoggettivato, dove tutto è dynamis, il silenzio come il suono, il vuoto come il pieno, l’inanimato, l’animato, gli enti, la natura, le cose, dove immergersi nel segreto accordo con la materia.
La nudità era esercizio e segno di questa alleanza. Nella serie Invisible dei primi esperimentiil corpo nudo immobile, esposto ai cambiamenti della luce naturale questionava la possibilità che una trasformazione oggettiva avesse effettivamente luogo nel corso delle lunghe durate performative, che la pelle (human skin) mutasse in pelle della danza (dance skin), che il “corpo totalmente esposto” divenisse “invisibile”[3], che cioè la condizione di protratta consegna al fatto destituisse la maschera sociale originando una nuova soglia percettiva. In seguito Masaki aveva sperimentato la possibilità del costume come via per mettere in crisi l’univocità di senso, come tradimento dell’identità. La sua visione si era articolata, ma l’esposizione di sé come condizione di possibilità dell’affiorare epifanico dell’intero cangiante spettro dell’essere restava un fondamento della pratica che chiamò: Butoh Blanc (White Butoh).
Come una pelle lacerata e fantasmatica che copriva in parte e in trasparenza il corpo, l’invenzione dello skin costume era una sorta di labile strato, fatto di lattiginosi pezzi di collant cuciti insieme. Negli anni, nelle decadi, sotto il suo sguardo custode, in tanti con innumerevoli varianti lo hanno indossato. Quanti poi abbiano saputo mutare la propria pelle nella pelle della danza, accogliere l’invito ad “andare all’essenza ultima del butoh che precede forma e movimento per cercare la realtà della vita”[4] resta una questione.
Al figlio, il bambino che ha lasciato, aveva dato un nome che sta per Porta del Vento Forte.[5] La sua vita, rivolta all’essenziale come la danza, aveva una specie di aura originaria e selvaggia. Era una figura soglia, avvicinarla implicava un attraversamento. Jusq’au bout.
Non è infrequente per me tuttora imbattermi nelle sue parole evidenti come le cose.
Ho salutato Masaki nel suo penultimo autunno. Aveva lo stesso cappotto tra il malva, il beige e il grigio, le stesse scarpe, gli stessi occhi. Talvolta, raramente, accade che una persona raccolga in sé tutto il tempo del mondo, senza inizio, senza fine, che una vertigine, allontanandoti nel suo remoto cerchio, per quelle vie conduca a te, Natura.

Solitary Body è il titolo dell’ultimo libro di Masaki Iwana in corso di pubblicazione nell’edizione giapponese.
In copertina: Masaki Iwana. Danae Festival, Milano 2019 (frame dal video realizzato da Filippo Michelangelo Ceredi)
[1] “..In dance in general and in butoh in particular, one must dance from one’s own motivation, to develop one’s own individual method by oneself. Hijikata was famous for his admonition not to feed on another’s legacy (to dance with another’s methods)…” (New York dance fax, 1998 in http://www.moeno.com/iwanabutoh/butoh.php)
[2] La presenza di Masaki Iwana al Danae Festival, diretto da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, è stata realizzata con la collaborazione di Cristina Negro. La videodocumentazione è di Filippo Michelangelo Ceredi.
[3] “To him, this was akin to changing his ‘human skin’ to ‘the skin of dance’; from becoming totally exposed to completely invisible.”(New York dance fax, 1998 in http://www.moeno.com/iwanabutoh/butoh.php)
[4] White Butoh’s thrust, however, is to go to the very bottom of the essence of butoh which is prior to forms and movements; namely, to pursue the realities of life. It goes without saying that it is not an easy task.” (Butoh blanc, 1989 in http://www.moeno.com/iwanabutoh/butoh.php)
[5] The Door of/to Strong Wind. Porte de Vent Fort in https://www.facebook.com/masaki.iwana.3