Architettura forense, o le crepe della verità

Per tutta la vita, Leonardo Da Vinci non ha fatto altro che riempire taccuini. Avere sempre un taccuino pronto per accogliere le sue intuizioni e riflessioni più disparate era parte fondamentale del suo metodo, e della sua grandezza. In molte di quelle pagine si trovano studi sulle crepe degli edifici. Era sua convinzione che una crepa strutturale di un edificio avesse il potere di rivelare informazioni altrimenti nascoste sui modi in cui quell’edificio era stato pensato, progettato e realizzato. Le crepe s’incuneano nelle zone materiali dove il livello di coesione è minimo e più esposto alla contrapposizione di forze. È una metafora calzante, e non a caso lo stesso Leonardo raccomandava di osservare attentamente le crepe per allenare la propria immaginazione. E non è un caso che quella stessa metafora sia stata chiamata in causa dall’architetto Eyal Weizman per raccontare il lavoro di Forensic Architecture attraverso il libro Architettura forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee (uscito originariamente nel 2017 e ora pubblicato in Italia da Meltemi, nella traduzione di Stefano Stoja).

Forensic Architecture è un’agenzia di ricerca che Weizman ha fondato nel 2010 insieme a un folto gruppo di collaboratrici e collaboratori, stabili o meno. La pratica al centro del lavoro dell’agenzia – l’architettura forense – consiste principalmente nella raccolta di elementi probatori di natura architettonica e del loro impiego in sede giudiziaria o politico-istituzionale. L’obiettivo principale di Forensic Architecture è far luce su casi di violenza perpetrata, in particolare dagli stati, in contesti di guerra e guerra civile, insurrezione e controinsurrezione, resistenza e terrorismo, ma anche in contesti segnati da pratiche industriali inquinanti e tossiche o siti di violenze passate ma coperte da segreto o rimozione forzata. Ma non è nella sola prospettiva architettonica, o quantomeno non in un’accezione ristretta in termini di semplici periti edili, che il gruppo opera: ne fanno parte infatti artisti, avvocati, cineasti, web designer, giornalisti e scienziati. Le loro sono inchieste magistralmente condotte attraverso il ricorso a perizie multidisciplinari, modellini, complesse analisi delle immagini video, fotografiche e satellitari, video o foto postate online dai testimoni o dai perpetratori di violenza, con cartografia interattive sviluppate insieme a video, ricostruzioni, installazioni, siti web interattivi, database scientifici online.

La maggior parte dei lavori prodotti da Forensic Architecture è nata in risposta alle richieste di collaborazione da parte di organizzazioni non governative, pubblici ministeri di tribunali internazionali, associazioni, comitati, famiglie in lutto. Per quello che riguarda invece i destinatari, i report e i vari prodotti multimediali prodotti dall’agenzia sono finiti tanto in tribunali civili e internazionali, commissioni d’inchiesta, rapporti pubblici e privati quanto in musei, mostre, biennali d’arte e, più in generale, contesti artistici. In tutto questo, il lavoro di Forensic Architecture, affascinante e accattivante, ha conosciuto un notevole successo, con un effetto, potremmo quasi dire, di moda, e questo a più livelli: tanto negli ambienti dell’arte contemporanea quanto in quelli dell’attivismo internazionale, fra gli altri.

Di fronte a tutto questo, il libro di Eyal Weizman si presenta allo stesso tempo come una summa delle principali indagini condotte dall’agenzia Forensic Architecture, con preponderanza dei casi palestinesi; come una riflessione teorica sulla propria metodologia; e, infine, come una sorta di manuale, di guida pratica al ricorso agli strumenti e approcci d’indagine sviluppati dal gruppo, in una sorta di ottica open source.

Nella prima sezione del libro, per esempio, Weizman si propone, oltre che di presentare il modus operandi del team di ricerca da lui diretto, di “discutere restrizioni, possibili problemi e dilemmi insolubili” delle metodologie, dei presupposti e del lessico adoperati da Forensic Architecture. È seguendo questo invito alla discussione di possibili problemi o dilemmi che presento brevemente tre punti di riflessione sulla trattazione di Weizman in questo suo libro e, più in generale, sui metodi portati avanti da Forensic Architecture nelle sue diverse indagini e incarnazioni.

Sorvegliare la sorveglianza

Il primo punto riguarda la questione della sorveglianza. Qual è la linea che separa le diverse forme e concezioni di sorveglianza a cui fanno ricorso le Forensic Architecture e le entità, per lo più statali, responsabili dei casi indagati dall’agenzia stessa? Per le sue indagini, Forensic Architecture fa ricorso, il più delle volte con una certa efficacia, alle stesse fonti probatorie disponibili per lo – o create dallo – stato, ovvero l’insieme delle tecniche – e tecnologie governamentali – attraverso le quali lo stato controlla e disciplina la popolazione, attraverso il mantenimento dell’ordine pubblico e il monopolio della violenza. In questo, il potere dello stato sta nella disponibilità di risorse di questo tipo, ma anche nell’accesso alle informazioni e alla capacita di diffonderle, nasconderle, manipolarle, spingere verso una loro interpretazione piuttosto che un’altra, e così via.

Da questo punto di vista, e nonostante l’ovvia e gigantesca disparità di risorse e possibilità, Forensic Architecture, per dirla con James C. Scott e la sua analisi del panopticismo, vede come uno stato. Da una parte, questo significa per certi versi ritorcere quegli strumenti di controllo e di potere contro chi ne detiene il monopolio e ne fa un uso restrittivo e oppressivo, quando non letale (in questo senso, Weizman parla di “controinvestigazioni” e indagini “contro-egemoniche”); dall’altra parte, ciò significa invece confermare e rafforzare la centralità di quegli stessi sistemi di sorveglianza e controllo, assecondando e stabilizzando la loro pervasività contemporanea, in un paradosso dagli effetti imprevedibili.

Potremmo obiettare che, in fondo, si tratta di una valutazione in termini di costi e benefici, nel senso che, una volta concordi sul fatto che l’obiettivo prioritario è “fare giustizia” riguardo un dato caso, diventa politicamente legittimo e moralmente giustificabile fare ricorso a quell’approccio, metodi e dati. Ma cosa diversa è riproporre, rivendicare e teorizzare quelle stesse metodologie, proponendole come “guida pratica”, manuale d’istruzioni o perfino buona pratica. In questo senso, l’auspicio di Weizman secondo cui “sia l’attivismo legale sia quello umanitario debbano osteggiare e limitare il potere militare e statale, e non diventare guide pratiche per il loro esercizio” diventa paradossalmente un avvertimento contro qualcosa che rischia di avvenire, o che sta già avvenendo.

Le soglie della verità

Il secondo punto riguarda la questione della verità. La metafora della ground truth (espressione centrale che nel libro si sceglie di tradurre con “dati reali”, mettendo in secondo piano l’elemento teorico della “verità”) deriva dalla procedura – adottata dai meteorologi o dagli esperti di rilevamento a distanza – attraverso cui le analisi delle immagini vengono calibrate per stabilire una corrispondenza quanto più precisa possibile fra le fotografie dall’alto e le realtà che esse ritraggono a terra. Si tratta del passaggio virtuoso da una valutazione tecnico-materiale – quanto dev’essere grande un elemento reale perché possa essere distinguibile e identificabile in una foto – a una riflessione teorica sul concetto di soglia di rilevabilità e distinguibilità, ovvero quello spazio intermedio in cui gli elementi oscillano fra loro identificabilità e lo sfuggire invece fra le maglie dei pixel o di altre misure tecniche (un concetto ben espresso dal sottotitolo originale del libro: Violence at the Threshold of Detectability).

Eppure, da lettori e lettrici, la questione della verità ci interpella invece in un senso che va al di là di quello – pur cruciale e magistralmente gestito dai membri di Forensic Architecture – della verità materiale e delle dinamiche degli eventi indagati. Si tratta invece della dimensione riflessiva della produzione di verità. Ovvero della parziale mancanza di un interrogativo dinamico e persistente riguardante il rapporto fra verità, verifica, veracità e veridizione, ovvero dei diversi modi in cui le istanze prodotte dalle indagini vengono convalidate o invalidate in processi che, in diversi contesti e con diversi interessi o costrizioni, costringono a un’incessante rinegoziazione dei processi di produzione, flessione, convalida o contestazione di quella stessa verità.

Tenendo presente il rapporto fra processo scientifico e verità scientifica, e partendo dal presupposto che il concetto di fatto non è sinonimo di verità, la mancanza o l’insufficienza della riflessione sulle pratiche di veridizione e sui modi in cui i fatti entrano sempre in relazione con ipotesi e condizioni di riflessività fa sì che non appaia un confine chiaro fra un fatto evenemenziale e una verità politica, fra un evento verificato nel suo accadere e un quadro politico e critico più ampio e contestuale. E questo peraltro potrebbe diventare in effetti la vera differenza fra un’inchiesta che vede come uno stato e, al contrario, un reale atto di parresia, cioè di critica articolata “in una posizione in cui colui che parla o che confessa è in una condizione di inferiorità rispetto all’interlocutore”, per riprendere le parole di Michel Foucault (ne Il coraggio della verità: il governo di sé e degli altri II). Tutto ciò diventa anche più urgente nel momento in cui si constatano gli effetti di un approccio in termini di “estetica forense”, come definita da Weizman: ovvero, la necessità che la verità sia prodotta e, come vedremo nel prossimo punto, messa in scena.

Forme di esposizione

Il terzo e ultimo punto riguarda invece la questione del rapporto fra estetica, indagine e critica. Si tratta peraltro di un tema che Eyal Weizman, insieme a Matthew Fuller, ha ulteriormente esplorato (giustificato?) in un libro recente: Investigative Aesthetics. Conflicts and Commons in the Politics of Truth (Verso, 2021).

Riflettendo su alcuni aspetti dell’operato di Forensic Architecture e sulle argomentazioni presentate da Weizman in Architettura forense, la questione estetica può essere affrontata secondo due prospettive principali. La prima è quella dell’estetizzazione, ovvero del modo in cui i dati raccolti e le indagini condotte vengono tradotte in un risultato di pubblico accesso: un report, un sito interattivo, un video, un dossier per il tribunale, un’installazione per una mostra, e così via – ovvero nelle operazioni di “iper-estetizzazione”, cioè di intensificazione dei processi attraverso cui la percezione sensoriale e la produzione di senso vengono generati ed esposti. La seconda è invece quella dell’estetizzazione come costruzione delle prove e delle narrazioni secondo gli elementi, le costrizioni e i formati proposti da quella stessa necessità e scelta di estetizzazione – ovvero i modi in cui un’indagine è sia costruttiva nel dare forma alla propria relazione con ciò su cui essa si concentra, sia costitutiva nel proporre nuove forme di conoscenza, un nuovo sguardo e nuove prospettive, nuove forme di azione e di sperimentazione.

Ad accomunare questa duplice prospettiva c’è la ricerca di una convergenza: quella fra l’indagine estetica nel senso di indagine sul mondo e di ricerca dei modi per cogliere i caratteri e le dinamiche di quello stesso mondo. In questo senso, il tentativo fondamentale è far sì che il risultato di “indagine” più “estetica” sia più della somma delle due parti. Tale postura pare però incepparsi nel momento in cui le restrizioni materiali dell’estetica in senso di restituzione sensoriale costringono in una certa forma i dati presentati.

Sotto questa luce, è significativo quello che scrive Weizman a proposito del rapporto con la forma del romanzo poliziesco: “I resoconti dei casi presentati in questo libro rispettano in un certo senso le convenzioni narrative del romanzo poliziesco, fino al punto, almeno, di seguire due trame intrecciate: l’una che narra al passato il crimine commesso e l’altra che narra al presente l’indagine”. È proprio questo accostamento metaforico con il romanzo poliziesco a tradire, per così dire, una tensione irrisolta dell’approccio architettonico-forense in questione: così come il romanzo giallo funziona secondo strutture, consuetudini e tropi narrativi entro l’autore o l’autrice narra la storia in questione, così un approccio in termini di poliziesco mostra la tendenza a costringere le realtà osservate in griglie narrative tendenzialmente precostituite, per rendere riconoscibili e intelligibili le sequenze di avvenimenti. Ci si guadagna in comprensibilità e comunicabilità, ma ci si perde in termini di rappresentazione della realtà e di semplificazione degli eventi per una loro facile narrabilità o trasformazione in oggetti espositivi, museali o installativi.

Se pensiamo, appunto, al caso di Forensic Architetture, ad apparire rilevante sotto questa luce è la forte presenza in contesti museali – si veda qui il lungo elenco di mostre, per esempio – e dunque la scelta di dare alle proprie indagini la forma di un oggetto museizzabile, con il rischio che, viceversa, la forma di oggetto mediale da museo finisca per decidere i contorni dell’indagine, imponendo cosa vi rientra e cosa ne rimane fuori. L’intelligibilità museale non corrisponde mai univocamente e pienamente all’intelligibilità del mondo, tantomeno in casi complessi come quelli trattati nelle indagini di Forensic Architecture. È la linea che passa fra l’essere esposto in una mostra e l’essere esposto al fuoco.

Se torniamo al duplice significato primigenio di estetica – percepire qualcosa a livello sensoriale e rendere quel qualcosa produttore di senso –, il rischio che emerge allora è che il contrario di “estetica” – ovvero anestesia, in senso di inibizione dei sensi – porti, in questo caso, a un’anestesia politica. Il confine fra il rendere intelligibile e il rendere digeribile qualcosa è molto labile, e di questo Forensic Architecture offre un’illustrazione perturbante. Nell’argomentare lo sviluppo, da parte sua e dei suoi collaboratori e collaboratrici, di “una sensibilità più marcata alla prassi politica e alle sue conseguenze materiali”, e nel raccontare di aver gradualmente “maturato qualcosa in comune con gli oggetti delle nostre indagini”, Weizman scrive (corsivo mio): “Non importa essere un edificio, un territorio, una fotografia, un pixel o una persona”. Importa eccome, invece. Altrimenti i rischi sono almeno due. Il primo è di vedere e rappresentare i sistemi di sorveglianza, militari e polizieschi come sistemi perfetti, coerenti e altamente sofisticati: ovvero esattamente come li vedono e rappresentano i loro apologeti, in una perturbante sovrapposizione. Il secondo è quello di svuotare quei sistemi – e i relativi modi di guardarli e indagarli – dei corpi, delle esperienze incorporate e delle soggettività dei loro attori e attrici, e in particolare delle loro vittime.

In definitiva, torna allora in mente la raccomandazione di Leonardo, evocata da Weizman in Architettura forense: quella di concentrarsi sulle crepe di un edificio per imparare molto su di questo, perché “sono le crepe, piuttosto che gli edifici, a registrare in maniera più precisa gli effetti dell’ambiente circostante e dei suoi cambiamenti”. E vale la pena allora approfittare di quella suggestione metaforica e rivolgerla verso il lavoro di Forensic Architecture – cruciale nei suoi effetti, di grande e positiva ispirazione per molti, qualcosa di cui essere solo grati – e verso il metodo portato avanti dai suoi membri: osservarlo attraverso le sue crepe, concentrarsi su quelle, traendone riflessione attiva e insegnamento per l’azione. Prima che sia qualcuno di sbagliato a farlo. Lo stato, per esempio.

Eyal Weizman
Architettura forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee
Meltemi, 2022
pp. 452, € 25

Leggi anche: L’immagine (in)fedele, di Eyal Weizman e Monica Biancardi

(1983) antropologo, è attualmente Member all’Institute for Advanced Study di Princeton. Sta portando avanti una ricerca su corpi e frontiere nel Mediterraneo contemporaneo. È l’autore del romanzo "Nel nome del diavolo" (il Saggiatore, 2020) e del saggio "La cura e lo sgombero" (Argo, 2017). Gli ultimi libri che ha tradotto sono "Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia", di Didier Eribon (Feltrinelli, 2021) e, con Francesco Targhetta, le poesie di Mathias Énard (edizioni E/O, 2020).

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