Per ciascun individuo vale una considerazione: nessuno è in grado di cogliere visivamente nella sua interezza ciò che gli consente di entrare in relazione con il mondo circostante. La concezione che ognuno ha di se stesso è il risultato del continuo scambio di informazioni che, attraverso i sensi e la percezione, concorrono a determinare l’identità, poliedrica e in continua ridefinizione, che ciascuno identifica come io.
A tal proposito è facile confermare che, a meno di rivolgere il proprio sguardo in una superficie riflettente, non è possibile fare altro che un ritratto frammentario del proprio corpo. Ma è bene ricordare che sebbene uno specchio consenta una visione d’insieme, quella che ci viene rimandata è un’immagine al contrario che impone una doppia presa di coscienza: di sé, come individuo, e dell’immagine che ci sta di fronte.
L’atto di riflettere, nelle diverse declinazioni, costituisce una delle componenti fondamentali delle esposizioni presentate negli spazi della Galleria Raffaella Cortese; qui le opere di Mirosław Bałka (Varsavia, 1958) e di Helen Mirra (Rochester, 1970) invitano i visitatori a compiere un’esperienza di conoscenza degli artisti, tra mitologie tradizionali e personali.

Scendere i gradini che conducono allo spazio dedicato alle opere dell’artista polacco, al civico numero 7 di via Stradella, è un po’ come ritrovarsi nel mezzo di una narrazione mitologica. Come il racconto del mito ripercorre il viaggio dell’eroe tra scelte da compiere e turbamenti che scuotono il suo animo, così osservare gli emblemi delle divinità della tradizione classica occidentale che si fronteggiano è un po’ come trovarsi sul campo di una battaglia combattuta a colpi di ardenti e dirompenti passioni.
I ritratti a matita e carboncino delle rappresentazioni classiche di Niobe e Afrodite e le sculture rappresentative di Gea e Urano trasformano quello che esteticamente è uno spazio minimale, dominato da pochi colori, nel teatro delle emozioni più tragiche e violente.
Sottrarsi al furore divino è possibile: un lieve suono di campanelle d’ottone (237 x 23 x 23 / NowHereWe, 2022) richiama una tregua, la tranquillità e la pace necessarie alla riflessione. Bałka realizza una delicata e scintillante scultura che, sebbene sia appesa al soffitto, resta libera di muoversi: una serie di campanelle rituali collegate una all’altra. Appartenenti a tradizioni religiose di ogni angolo del mondo, rispondono in armonia alla sollecitazione esterna.
La quiete originata dal tintinnare contribuisce a definire una soglia, una sorta di iconòstasi: una zona di passaggio dove avviene un rito di purificazione che consente di raggiungere lo stato di serenità necessario per accedere alla zona più intima del sancta sanctorum. Qui, è presente un’icona aurea, stropicciata ma ricca di memoria personale e di gesti d’amore (Heaven / Jerzy), l’involucro che ha accolto un dono. “JERZY” è l’unico segno presente sul rettangolo dorato, un nome, una persona, il ricordo dell’ultimo Natale trascorso dall’artista con il padre.

Mirosław Bałka nasce nella Polonia segnata dalle profonde cicatrici della Seconda guerra mondiale, studia da fisico nucleare e solo in seguito si diploma in scultura presso l’Accademia di Varsavia. Il corpo dell’uomo, con il suo esistere e nel suo sentire, costituisce il fulcro della sua pratica artistica: inizialmente presente in modo concreto e figurativo all’interno dei suoi lavori, in un secondo momento si astrae: il corpo diviene quello del visitatore che, con la propria percezione e muovendosi nello spazio, interagisce con l’opera attivandola. A questo punto della sua carriera anche i titoli dei lavori subiscono un cambiamento, le opere vengono identificate attraverso le rispettive misure, dimensionate a loro volta su quelle del corpo dello stesso artista.
Anche nell’allestimento di nehtyM il corpo umano è il fulcro attorno al quale si costituisce lo spazio, un’individualità a cui è richiesto un coinvolgimento intellettuale, emotivo ed empatico.

Il movimento di un corpo nello spazio determina la relazione che tale corpo instaura con l’ambiente nel quale si trova immerso. Helen Mirra, come Bałka, dimostra una particolare attenzione all’individuo e al suo essere presente nello spazio, al punto di assumere il camminare come atto sovversivo di conoscenza e consapevolezza, tanto di se stessi quanto dell’ambiente circostante, a cui si è intimamente connessi.
L’artista stessa racconta che, nel 2008, durante una residenza artistica a Basilea, iniziò ad alternare pratica in studio e lunghe passeggiate. Questa routine assunse un’importanza tale da indurre Mirra a stringere una promessa con se stessa: «se continuo come artista sarà attraverso il camminare». Da quel momento, le opere di Helen Mirra hanno inteso riportare negli spazi espositivi il movimento – quell’azione propriocettiva che collega ogni individuo all’ambiente che lo circonda –, oltre a stabilire un rapporto diretto tra i luoghi evocati dalle sue opere e lo spazio nel quale vengono esposte. Residente in California, da allora l’artista non ha più smesso di “fare arte” camminando.
Negli spazi al civico 1 e 4 di via Stradella, Amaro in Ebraico (Hebrew for Bitter) suggerisce sin dal titolo il gioco semantico di rimandi indicali proprio dei lavori dell’artista. Mirra, donna, ebrea, intende riflettere sul fatto che la parola che identifica il suo cognome, proprio come quella riferita alla resina gommosa usata sin dall’antichità nei rituali religiosi, deriva dalla radice semitica “mrr” il cui significato è, per l’appunto, dal sapore amaro: Mirra è la parola ebraica che sta per amaro.
Entrando negli ambienti della galleria ci si trova di fronte a una parete completamente bianca. Spostando lo sguardo e muovendosi all’interno dello spazio si notano, allineate all’altezza degli occhi, alcune tele di lino, materiale che Mirra utilizza di frequente nella propria pratica, impiegandolo in diversi modi. Su di queste sembrano essere impresse, in negativo, delle indicazioni toponimiche, riproduzione di quella segnaletica che lei stessa incontra percorrendo i sentieri della Sierra nel nord della California. Le parole sono però scritte al contrario. Si ha l’impressione di qualcosa di perturbante, come se l’artista stesse cercando di comunicare un messaggio ma questo ci sfuggisse, come se ci mancasse un tassello per comprenderlo.
Un brano sul foglio di sala ci fornisce un appiglio, riportando un mito della tradizione cinese. Una pittrice, perché è così che Mirra interpreta il soggetto che in lingua cinese non ha genere, è stata incaricata dall’imperatore di dipingere i “muri bianchi e vuoti” del Palazzo. In particolare su una parete prenderà letteralmente vita, grazie ai gesti sapienti dell’artista, un rigoglioso paesaggio con boschi, valli e specchi d’acqua, una natura abitata da meravigliosi animali, un altrove incantato nel quale la donna scompare una volta concluso il lavoro. L’imperatore si ritrova così da solo, in piedi di fronte a un muro bianco, senza riuscire a spiegarsi cosa sia successo, come il visitatore della galleria. Con questo brano, Helen Mirra stabilisce una relazione di similitudine ma, la “nostra pittrice”, inserendo nello spazio delle indicazioni speculari, sembra volerci suggerire che, forse, non è il dipinto murale a essere sparito, forse non lo vediamo perché siamo noi ad averlo attraversato, entrando in un mondo alla rovescia nel quale solo perdendosi ci si può ritrovare, dove solo i controsensi hanno senso e credere all’impossibile è l’unica regola.
Tra simboli, slittamenti semantici, corrispondenze indicali tra opere e realtà, queste esposizioni definiscono degli ambienti che coinvolgono l’individuo in prima persona. In assenza del corpo, del sentire e di fondamentali momenti di riflessione le opere non racconterebbero di viaggi lontani, che avvengono in ognuno di noi.
Mirosław Bałka – nehtyM / Helen Mirra – amaro in ebraico (hebrew for bitter)
Galleria Raffaella Cortese, Milano
fino al 12 novembre 2022
In copertina: Helen Mirra, Not O P, 2021, inchiostro su lino, 13 × 20,5 × 1,8 cm, Credits: Galleria Raffaella Cortese, Ph. Lele Buonerba