Chi firma il conflitto in un contesto virale?
Durante la fase più radicale e frontale del suo impegno post-sessantottino, Jean-Luc Godard inaugura un manifesto dal titolo leninista – “Que faire?” (1970) – con una nota iniziale che stabilisce: “fare film politici”. Ma questa ingiunzione non era sufficiente, e nella nota successiva essa riceve un’aggiunta o correzione tramite un secondo imperativo: “fare film politicamente”. Sottolineando l’avverbio nella sua frase, Godard andava evidenziando l’importanza delle pratiche e dei modi di fare: il cinema non è semplicemente una questione di “testi” visivi, ma anche (e forse soprattutto) di “contesti” attraverso i quali le immagini vengono realizzate. Nonché attraverso i quali tali immagini circolano! In effetti, in un’ottica di politiche audiovisive, i modi in cui le opere vengono pubblicate e ricevute contano tanto quanto i modi in cui vengono create. In tal senso, il manifesto godardiano richiederebbe una terza annotazione che proponiamo in una chiave postuma: qualcosa come “diffondere i film politicamente”. Ciò è particolarmente vero nell’ambito contemporaneo della distribuzione delle immagini, riconfigurata dai nuovi media e dalle reti. Quale politica di diffusione dell’audiovisivo richiede tal contesto? Come possiamo mobilizzare quelle immagini che ci nutrono affettivamente e cognitivamente negli ambienti mediatici contemporanei? Come prolungare fino, in un certo senso, a spiazzare la traiettoria di Godard che ci troviamo proprio in questi giorni a ereditare? Una risposta a tali domande può essere abbozzata all’ombra del monumento godardiano e immergendosi in quell’evento a prima vista aneddotico che chiameremo “il caso Vent d’Ouest”, dal nome di un cortometraggio pubblicato nel 2018 e attribuito a Godard per firma e stile[1].
1.
Per tracciare la storia del caso Vent d’Ouest, è importante innanzitutto risalire a poco più di cinquant’anni fa. Un buon punto di partenza per iniziare a ricomporla è la costa mediterranea, più precisamente Cannes, nel maggio 1968. La ventiquattresima edizione del festival, nato nel secondo dopoguerra e già diventato un crocevia fondamentale per il cinema internazionale, iniziò il 10 maggio 1968 in un periodo per nulla banale. L’evento si apre, in effetti, nel bel mezzo dello sconvolgimento generale che le rivolte studentesche e operaie hanno scatenato a Parigi e dintorni. Generate dalla nuova società industrializzata e urbanizzata, le masse operaie e studentesche si ritrovavano a contestare questa medesima realtà in modo tanto improvviso quanto perentorio. Dopo alcuni giorni di ostinata routine festivaliera, la strada irruppe anche nell’estremo rifugio delle sale. La rivolta vi penetra grazie a un gruppo di cineasti, tra cui Jean-Luc Godard e François Truffaut (che si erano precedentemente riuniti a Parigi per gli Etats généraux du cinéma), che fecero irruzione in una proiezione ufficiale per – hackerandola – domandare la sospensione del festival. In tono polemico, Godard dichiarava in quel frangente:
Non c’è un solo film che mostri i problemi dei lavoratori o degli studenti così come si presentano oggi. Non ce n’è uno fatto da Forman, da me, da Polanski, da François (Truffaut), non ce n’è uno. Siamo indietro. […] Si tratta di mostrare la solidarietà del cinema agli studenti e ai lavoratori, con una settimana e mezzo di ritardo. […] Noi vi parliamo di solidarietà con gli studenti e gli operai e voi mi parlate di riprese con il carrello e di primi piani! Siete degli idioti!
L’intervento “corsaro” genera una discussione molto agitata e uno scontro che fu seguito dal ritiro di molte opere in concorso da parte dei loro autori nonché dalle dimissioni di diversi membri della giuria, tra cui Monica Vitti. Questo “sciopero artistico” spinge immediatamente il consiglio di amministrazione del festival a interrompere il festival – fatto inaudito. Il blocco delle infrastrutture produttive e intellettuali (fabbriche e scuole) non risparmiò questa famosa infrastruttura artistica, che fu a sua volta e a suo malgrado immobilizzata.

Nel 2018, a cinquant’anni da questi memorabili eventi, il Festival di Cannes ha il volto di un manifesto che celebra sornione uno dei film più popolari della Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard, Pierrot le Fou. Per mezzo di questa scelta iconica, Cannes rinnovava in quel frangente il rapporto ambivalente, tanto d’amore quanto di scontro, che il festival ha storicamente mantenuto con questo cineasta, invitato per quella stessa occasione a presentare il suo ultimo film, Le livre d’image. Ci si potrebbe soffermare su un’analisi formale di questo film che, proseguendo una rigorosa ricerca iniziata da Godard molto prima, elabora un’estetica del montaggio irriducibile agli automatismi egemonici della comunicazione e della narrazione audiovisiva (senza rifiutarsi di immergersi negli strumenti e materiali di questi universi). Ma preferisco prestare attenzione a qualcos’altro, qualcosa che accade alla periferia di questo evento, pur attingendo all’enorme bolla attenzionale che il più importante festival cinematografico del mondo genera ogni anno. È qui, nel contempo aderendo allo spettacolo di Cannes e prendendovi le distanze, che si verifica il caso Vent d’ouest: un chiaro esempio di “tattica mediatica”[2].
Poche settimane prima dell’apertura di Cannes 2018 (il 23 aprile), il sito web Lundi Matin – settimanale online che si colloca nettamente a sinistra dell’ecosistema informativo francofono – pubblica una lettera aperta a Jean-Luc Godard. È un appello virulento a reiterare un’azione di protesta radicale mettendo un bastone nelle ruote della grande macchina da festival a cinquant’anni dai leggendari eventi del 1968. Questo gesto ipotetico andrebbe a sostegno di altre rivolte che agitano la società francese e che sono duramente represse dallo Stato, in particolare le ZAD (Zones à defendre)[3]:
Il cinema francese puzza di naftalina e di borghesia, nonostante tutte le epopee. Quindi rendetegli giustizia e conciatelo per le feste. Le brecce sono molteplici, che siano davanti a uno schermo, su di un fronte, a una fila di carabinieri, in una nuvola di lacrimogeni, nel mezzo di un’occupazione universitaria o in una testa di corteo, siamo lì pronti a far tremare questo vecchio mondo, insieme. Quindi dacci dentro Jean-Luc, come un’ultima battaglia, come la più bella ripresa, come una poesia che sai fare, con la tua lingua ma che riecheggerebbe in tutti noi: fanculo tutto. ZAD A CANNES E BLOCCO DEL PALAIS![4]
A mo’ di risposta fatalmente pervenuta, una ventina di giorni dopo il regista mette online un cortometraggio firmato “JLG “e intitolato Vent d’ouest, annunciandolo pubblicamente sulla rivista il 10 maggio[5]. Lo stile del cortometraggio corrisponde sorprendentemente alla scrittura filmica basata su assemblaggi di immagini eterogenee scandite dalla voce fuori campo che Godard ha sperimentato almeno a partire dalle sue Histoires du cinéma (1988-1998). Il contenuto politicamente impegnato si riferisce soprattutto alla lotta della ZAD di Notre Dame Des Landes, che all’inizio del 2018 non solo ottenne una vittoria storica (nel momento in cui il governo annunciò l’abbandono della costruzione dell’aeroporto), ma fu anche violentemente schiacciata dalle forze armate in aprile, poiché alcuni dei suoi componenti si rifiutavano di accettare i compromessi dello Stato. Tra gli archivi cinematografici e pittorici utilizzati vi sono immagini aeree scattate durante le operazioni di sgombero e smantellamento – un genere di immagini la cui fondamentale e inquietante attualità è testimoniata dal numero di film suggestivi che ha ispirato nell’ambito del documentario francese contemporaneo (da Antilopes di M. Martinot a Il n’y aura plus de nuit di E. Weber). Nel frattempo, con l’aiuto di parole impresse sulle inquadrature, una voce godardiana abbozza un saggio ellittico sulla tecnica e sul potere.

Dal nord-ovest atlantico di Notre Dames De Landes, il vento inizia a soffiare forte verso il sud-est di Cannes. La pubblicazione del nuovo cortometraggio di Godard diventa rapidamente virale: cinefili e giornalisti annunciano l’evento condividendo e commentando le immagini. Un dibattito contagioso si genera intorno all’attribuzione di questo film, il cui titolo riecheggia un’altra opera di Godard, Vent d’est – un film sperimentale realizzato dal collettivo Dziga Vertov nel 1970 durante il suo periodo più militante. Lo stesso regista non smentisce ufficialmente, anzi lascia il dubbio in sospeso nel fare riferimento ai temi del corto durante la conferenza stampa che ha tenuto a distanza, via Face Time, sul suo Le livre d’image. In questa occasione, rispondendo alla domanda di un giornalista sul famoso cinquantenario, traccia un ponte tra le lotte accese dal Mai Rouge e quelle degli zadisti:
Mi sono accorto che a un certo punto i miei film facevano, molto tempo fa, 100.000 presenze e poi improvvisamente ne hanno fatte meno. E poi mi sono detto: ma forse in tutto il mondo dopo 50 o 100 anni arriveranno a farne 100.000 e questo 100.000 derivava dal numero di giovani e anziani che erano presenti alla morte, alla morte di Pierre Overney e questo è ciò che ricordo del ’68. E anche Gilles Tautin. E oggi degli zadisti, questo è tutto. Grazie…[6]
Sarà l’addetto stampa del suo film in concorso a negare la firma di quello diffuso sulle reti.

Nel mentre, la paternità del film era stata indagata sul sito Mediapart da Emmanuel Burdeau (ex direttore dei Cahiers du cinéma), responsabile di un’operazione che oggi si potrebbe definire di fact-checking, volta a inchiodare questo falso giudicato “manierista”, non senza umorismo[7]. E, sempre nel frattempo, la storia si ripete e gli ultimi occupanti di Notre Dame Des Landes che rifiutano le trattative statali subiscono un secondo sgombero militare verso la metà di maggio.
2.
A questo punto, Lundi Matin prende di nuovo la parola posizionandosi. Tale posizione assunta dal sito attraverso la rivisitazione dei fatti delle settimane precedenti costituisce un interessante trampolino di lancio per approfondire alcune riflessioni teoriche sulla conflittualità visiva all’interno dei nostri mass media e sugli effetti della viralità della comunicazione digitale. Tale forma di conflittualità ci sfugge completamente se ci smarriamo nella battaglia indetta dall’attribuzione oggettiva delle immagini a una persona (identificazione tanto filologica quanto poliziesca), dimenticando il piano cruciale di un’efficacia sociale e affettiva delle immagini che va ben oltre questo tipo di controversia. Rifiutando esplicitamente il livello di attribuzione personale e giocando con il rapporto ambiguo di Godard all’autorialità (membro dei Cahiers all’origine della “politica dell’autore” e grande iconoclasta), l’articolo su Lundi Matin rivendica un altro orizzonte di “verifica” e afferma:
Ciò che rende un ‘grande autore’ è una certa capacità di rendere sensibili le verità informali del suo tempo; tanto che il nome dell’autore, la gloria che circonda il suo titolo, deriva sempre da un’indebita appropriazione di queste verità. Ciò che lo rende grande è che tutti gli altri intorno a lui mentono, ed è questo ambiente di menzogne che rende l'”autore” così raro. Se Vent d’ouest è stato giudicato un buon Godard, è perché è saturo di una verità che basta a se stessa e non può essere semplicemente ridotta alla finzione di un nome o di una firma.[8]
Fino a qui, nulla di nuovo sotto il sole: da mezzo secolo, pensatori come Roland Barthes (1968), Michel Foucault (1969-1970) o Friedrich Kittler (1986) ci insegnano a diffidare dell’evidenza reale e assoluta dell’autore, in quanto produzione socio-culturale storicamente connotata e in un certo senso “fittiva” . Tuttavia, questa finzione non significa che l’autore e la sua firma “non esistano” tout court, cioè che non abbiano alcun peso nella realtà che abitiamo[9]. Al contrario, come tutte le finzioni in cui crediamo, questi parametri agiscono nel nostro mondo e scrivono i nostri giudizi, i nostri desideri e le nostre scelte: hanno una dignità ontologica. Facciamo cose attraverso queste finzioni, che a loro volta ci fanno fare cose: in breve, hanno un’“agentività”, per dirla con un termine in voga.
Lo status personale dell’autore e la funzione della firma, che del primo è l’operatore “documentale”[10], costituiscono due dispositivi cruciali nei nostri ecosistemi di valorizzazione delle produzioni culturali (contribuendo ad alcune loro dinamiche di competizione, gerarchia, individualità…). Si tratta di due attrattori fondamentali dell’attenzione collettiva e del valore che essa genera. Il loro funzionamento avviene in simbiosi con “vettori” (giornali, canali YouTube, festival…) che organizzano e spostano la visibilità e il riconoscimento[11]. L’autore e la sua firma svolgono un ruolo di aggregatore in un’economia dell’attenzione in cui l’attrazione e la concentrazione del pubblico equivalgono all’accumulo di ricchezza e potere. Come sostiene il sociologo tedesco Georg Franck, viviamo in un universo mediatico e percettivo capitalista che riproduce una divisione tra una classe ristretta con un grande capitale attenzionale (e i mezzi per accumularlo) e una classe massiccia, relativamente priva di attenzione, che tende a dare più che a ricevere attenzione[12]. Sia nell’ambiente artistico che in quello intellettuale, la condizione di autore e la sua firma permettono di catturare personalmente l’attenzione collettiva in un regime di “capitalismo mentale” in cui si riproduce la cattura e lo sfruttamento dell’attività sociale da parte di attori privati tipica di ogni sistema capitalistico.
In quanto espressione personale e originale, lo “stile” si pone al centro di questa dinamica complessa e contribuisce a identificare l’autore e a incarnare la sua firma, giustificando un certo valore. Ma esso indica anche una falla nel sistema. Come ci ricorda Marielle Macé, la natura modale e non sostanziale dello stile non è una proprietà rara, naturale o requisibile. Al contrario, costituisce una qualifica che, nella sua singolarità, è trasmissibile, contagiosa e riproducibile:
Uno stile, non è una cosa o una persona, ma il modo caratteristico di questa cosa, il suo modo singolare di stagliarsi, che la supera: è l’individuo (il “tale”) che si apre alla condivisione, al comune, e quindi anche all’espropriazione […]. L’individuo costituisce una potenza disponibile, mobile, “mediale”; non è più rinchiuso nella prigione dell’unicità ma diventa possibile, restituito alla sua vibrazione, che altri potranno assumere, investire, ampliare, deformare. [13]
Comprendendo la dimensione dello stile in questo modo, diventa possibile cogliere la dinamica in cui, metabolizzato e riutilizzato, questa diviene la breccia sfruttata dall’operazione di hacking denominata chiama Vent d’ouest.
3.
In passato, il conflitto può aver significato ostacolare e bloccare le infrastrutture attraverso azioni di sciopero, comprese quelle legate alla produzione e alla diffusione intellettuale e creativa, come nel caso di Cannes 1968. Ma ha anche portato alla creazione di mezzi alternativi (di produzione e pubblicazione), come gli esperimenti dei gruppi Dziga Vertov o Medvekine. Tuttavia, su un piano ulteriore e complementare, la necessità di intervenire all’interno delle infrastrutture esistenti attraverso tattiche di contaminazione e deviazione è diventata sempre più importante all’interno della conflittualità visiva contemporanea. Come lo indica anche l’esperienza nostrana di Luther Blisset, che ha generato in seguito il fenomeno Wu Ming.
Quest’ultimo approccio può essere riassunto con il termine “hacking”, preferibile a “pirateria” o “parassitismo” per le sue connotazioni positive e creative: “L’hacker crea qualcosa di nuovo da una proprietà che appartiene a tutti fin dall’inizio”[14]. Il presupposto dell’“hacking” non è attaccare gli “avversari” come “nemici” frontali (hostes), ma trovare una faglia nel loro stesso modo di funzionamento per penetrare al loro interno e far circolare immagini e messaggi estranei alle logiche che solitamente li governano (exploit). Si tratta di una prospettiva virale che vede l’avversario come un “ospite” (hospes) e che, annidandosi dentro quest’ultimo, induce trasformazioni nonostante l’avversario stesso (a volte portando alla sua scomparsa). Yves Citton fornisce una descrizione efficace di questa condizione:
La viralità consiste nel fatto che un pezzo di codice (che non ha nulla di vivente in sé) penetra in una cellula ospite la cui vita alimenta la riproduzione di questo pezzo di codice (in questo momento cruciale di passaggio attraverso la vita). Per la persistenza del virus è essenziale non uccidere (troppo rapidamente) gli organismi che lo ospitano, poiché ne ha bisogno per la sua riproduzione.[15]
In una logica di viralità, il contagio (cioè la capacità di circolare e di influenzare) rappresenta il criterio d’esistenza fondamentale per le immagini e prevale su altri principi come ad esempio quello della verifica fattuale e referenziale. Da un punto di vista virale, l’argomentazione sulla verità o meno di un’immagine o di un discorso ha importanza solo nella misura in cui contribuisce a diffondere ulteriormente e fatalmente l’immagine o il discorso.
È una situazione che si può facilmente osservare all’opera in fenomeni cosiddetti “complottisti” come QAnon, studiati di recente da Wu Ming 1 Già membro del citato gruppo mediattivista Luther Blisset, Wu Ming 1 dimostra come il “raziosuprematismo” che mira a verificare la realtà oggettiva o meno di un’affermazione (ad esempio, legata a una fantasia cospirativa), non afferra né disinnesca il processo con cui essa viene riprodotta. La guerra del debunking, in fin dei conti, tende ad alimentare il fuoco che pretende di spegnere. Non riesce a cogliere il “nocciolo di verità” (la radice dell’ingiustizia o della minaccia percepita) che ispira tale fantasia cospirativa, tendendo a ristabilire un rapporto verticale ed esclusivo basato su un principio trascendente di oggettività. Tuttavia, se la viralità genera fenomeni temibili – socialmente e ecologicamente temibili, come Trump o Qanon – è anche in grado di ispirare movimenti emancipatori e militanti come Black Lives Matters, Fridays for Future o MeToo. Inoltre, permette di diffondere messaggi critici come l’appello a disertare le professioni (tossiche) delle élites promosso dai laureati della prestigiosa scuola AgroParisTech[16]. In ognuno di questi esempi si tratta, come scrive Yves Citton a proposito dell’informazione, di “imparare a impiantarsi nei corpi viventi approfittando della loro vitalità per riprodurre, in essi e attraverso di essi, un messaggio e una forma favorevoli al miglioramento delle nostre condizioni di vita”[17].

4.
Un buon modo d’interpretare Vent d’ouest è quello di considerarlo un esempio della diffusione-per-contaminazione-dei-circuiti-mediatici di immagini e discorsi che di solito quest’ultimi sono restii a far circolare. Il dibattito sulla veridicità della firma JLG non coglie un aspetto importante di questa operazione, mentre contribuisce al suo successo nella misura in cui ne alimenta la diffusione. Qui la firma e lo status autoriale – e con essi un certo “stile” che produce un’autenticazione di entrambi – sono investiti da un “hacking” da intendersi ancora una volta come uso di una comune potenza piuttosto che come “furto” di una proprietà personale. Per esistere, questo film (le sue parole, le sue immagini) si impossessa di dispositivi di concentrazione attenzionale – come la fama dell’autore Jean-Luc Godard o l’importanza di Cannes – il cui potere deriva principalmente della convergenza di sguardi collettivi. In questo senso, l’autorialità e la firma, non essendo affatto una proprietà privata e inalienabile, ma piuttosto una funzione socialmente configurata, possono essere liberamente attivate e modulate attraverso il corpo sociale.
L’autore non è morto, ma piuttosto morto-vivente – si potrebbe dire. E così, come lo zombie nel vodou tropicale, diventa un avatar postumo che viene risvegliato e guidato dalla volontà di altri che lo fanno lavorare. Questo è comprensibile solo nel quadro di una politica non identitaria della creazione e della comunicazione, cioè di una comprensione del gesto creativo come attività sociale e collaborativa. In tal senso, Vent d’Ouest tratteggia una “desidentificazione” della firma e dell’autore, opponendosi alle logiche di individualismo, profilazione e competizione che governano il nostro universo sociale e più precisamente queste istanze della sfera culturale[18]. Ciò non significa la loro scomparsa, come si diceva, ma il loro passaggio a un’esistenza fluttuante, incerta e plurale che assomiglia a quella di una maschera. Prendendo le distanze da una rappresentazione referenziale, la politica della maschera – incarnata da tutti gli pseudonimi utilizzati online e dalle firme collettive dei circoli di attivisti – rientra nel perimetro della “proxy politics” descritta da Hito Steyerl[19]. Questa lezione l’hanno capita a perfezione i militanti ecologisti che hanno sottratto la firma della nazionale di calcio francese (pezzo grosso dell’attenzione mediatica) per effettuare sulla rivista Terrestres un annuncio sorprendente e provocante: quello della rinuncia a partecipare al Mondiale 2022 nel mezzo del deserto, delirio indecente dell’intrattenimento sportivo in tempi di riscaldamento climatico aggravato[20].
Questo tipo di processo non riguarda solo il mondo dell’arte, dello sport o del cinema, ma anche più in generale quello della produzione intellettuale, che funziona secondo analoghi regimi di capitalizzazione attenzionale individualistica e competitiva. Da questa constatazione piuttosto agevole proviene l’astuta iniziativa di (co)firmare gli scritti accademici con uno pseudonimo collettivo (Camille Noûs) lanciata dal gruppo RogueESR per segnalare la natura collegiale e collaborativa di ogni indagine scientifica. Questa firma, liberamente utilizzabile, circola in modo contagioso tra le discipline da diversi anni: è una “maschera” o, per dirla con Marco Deseriis, un “nome improprio”, accessibile a tutti e in grado di raggirare la valutazione statistica delle produzioni personali[21].
5.
Vorrei concludere con una nota che ci riconduce ai modi di pubblicare, di mobilitare il pubblico e le sue attenzioni – la nostra tematica iniziale. Se la viralità costituisce un campo inevitabile della conflittualità visiva contemporanea nella diffusione, essa non rappresenta l’unica opzione. A tal proposito, le modalità di diffusione particolari scelte da Godard per il suo Livre d’image costituiscono una strategia che sostituisce l’hacking tattico dei mass media con la generazione di situazioni micromediali e una scala di attenzione condivisa e conviviale[22]. Oltre alla trasmissione televisiva su ARTE, Godard ha voluto che il suo film fosse installato in modo itinerante in piccole sale improvvisate a seconda delle opportunità, in un dispositivo quasi domestico (una sorta di sala cinematografica nomade) destinato ad andare incontro al pubblico nei luoghi in cui esso abita, lasciandosi alle spalle la frenesia e la saturazione dei nuovi media on demand. Anche questo è un modo per ingaggiare un conflitto nell’universo audiovisivo a partire da un lavoro sulle circostanze di ricezione e trasmissione delle immagini.
Questo testo è stato inizialmente formulato sotto forma di intervento per il convegno « L’image comme brèche. La conflictualité dans les pratiques contemporaines » coordinato da Marie Kaya et Carole nello spazio d’arte e ricerca « Les limbes » (Saint Etienne, 16 giugno 2022). Tale origine giustifica le fonti francofone che sono privilegiate nel corso dell’argomentazione.
[1] Il film è accessibile a questo link .
[2] Si fa riferimento alla nozione di “tactial media” sviluppata da teorici come David Garcia e Geert Lovink, incarnata in italia da entità come Luther Blisset.
[3] Il neologismo francese « zona da difendere” indica delle lotte sociali contro grandi progetti inutili che implica spesso azioni di occupazione dei territori interessati. Il movimento delle ZAD assomiglia per diversi aspetti a mobilitazioni italiane come il NO TAV. Sull’esperienza di Notre Dame Des Landes si veda ad esempio l’articolo di Marino Nicco, “L’orto di Zad sulla pista di Nantes”, Il Manifesto, 11 maggio 2016.
[4] Un collectif de régisseurs enragés, « Cher Jean-luc », Lundi Matin, 23 aprile 2018.
[5] Lundi Matin, « Festival de Cannes : Vent d’Ouest », 10 mai 2018.
[6] La conferenza stampa di Godard è accessibile a questo link.
[7] Emmanuel Burdeau, « Vent d’ouest : Godard, la ZAD et le pastiche », Mediapart, 11 maggio 2018.
[8] Lundi Matin, « Du vrai Godard », 25 mai 2018.
[9] Vedi: Yves Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario della sinistra, Roma, Alegre, 2013.
[10] Sulla questione della documentalità e della firma come attestazione documentale dell’individualità, si veda: Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce, Roma/Bari, Laterza, 2009.
[11] Si riprende la nozione di vettori e dell’élite vettoriale ai lavori di McKenzie Wark, nello specifico ci riferiamo a : McKenzie Wark, « Nouvelles stratégies de la classe vectorialiste », Multitudes, 2013/3 (n° 54), p. 191-198.
[12] Georg Franck, « Capitalisme mental », Multitudes, 2013, n° 54, p. 199-213
[13] Marielle Macé, Styles. Critique de nos formes de vie, Gallimard, Parigi, 2016, p. 23.
[14] McKenzie Wark, « Nouvelles stratégies de la classe vectorialiste », art. cit., p. 196.
[15] Yves Citton, Faire avec. Conflits, coalitions, contagions, Parigi, LLL, 2021, p. 105.
[16] Il discorso della cerimonia di laurea e il suo “appel à diserter” è disponibile on line a questo link.
[17]Yves Citton, Faire avec, op. cit., p. 107-108.
[18] Sulla nozione di “desidentificazione” mi riferisco al dossier eponimo coordinato da Emma Biget per la rivista Multitudes (n° 82, 2021).
[19] Hito Steyerl, « Proxy Politics », E-Flux, n° 60, 2014.
[20] Equipe de France de football, « Communiqué officiel de l’équipe de France de football », Terrestres, 31 maggio 2022.
[21] Marco Deseriis, Improper names. Collective Pseudonyms from the Luddites to Anonymous, Minneapolis, Minnesota University Press, 2015.
[22] L’esperienza è raccontata e commentata nel numero 759 dei Cahiers du cinéma.
In copertina: un frame tratto dal cortometraggio Vent d’Ouest di Jean-Luc Godard