Giuseppe Capogrossi, il segno

“Al primo che ha colto nel segno” è l’unica frase scritta nella cartolina inviata dal Grand Hotel Bellevue di Milano Marittima nel 1963 da Palma Bucarelli, Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio e Getulio Alviani a Giuseppe Capogrossi (Roma, 7 marzo 1900-9 ottobre 1972), protagonista della puntuale antologica curata da Francesca Romana Morelli alla Galleria Nazionale in occasione del cinquantesimo anniversario dalla morte dell’artista. Un segno inconfondibile, spesso descritto come una sorta di “forchetta”, con il quale il pittore ha riempito decine e decine di tele, da lui battezzate Superfici e rigorosamente numerate, che lo ha avvicinato ad analoghe ricerche condotte in ambito europeo e americano all’alba del dopoguerra. La mostra, realizzata in collaborazione con la Fondazione Archivio Capogrossi e sostenuta da Ghella e Unicredit, riunisce cinquanta opere – trenta dipinti e una ventina di opere su carta – e si pone l’obiettivo, ampiamente raggiunto, di raccontare l’avventura artistica del pittore, prima dedita alla figurazione e poi a quella astrazione segnica che lo proietta subito sulla scena internazionale.

Una svolta decisiva, che Capogrossi compie nel gennaio 1950 con una mostra personale alla Galleria del Secolo, abbandonando per sempre quella figurazione che aveva perseguito con ottimi esiti fin dagli anni Venti, vicina alle ricerche di illustri colleghi come Giorgio Morandi, Corrado Cagli, Felice Carena e soprattutto Emanuele Cavalli, con il quale condivide l’interesse per quella “pittura tonale” giocata su armonie di colori tenui e soffusi. Un’arte coltivata dal giovane Capogrossi in primis a Roma, dove apre il primo studio in via Pompeo Magno con l’aiuto dello zio materno Pietro Tacchi Venturi, frequenta lo stabilimento Tofini sul Tevere e la terza saletta del caffè Aragno, mentre passa l’estate con gli amici pittori ad Anticoli Corrado. I primi successi non tardano ad arrivare: dopo alcune collettive a Roma, Parigi e Pittsburgh, nel 1946 la Galleria San Marco ospita la sua prima personale, dove Guglielmo presenta i suoi dipinti più significativi, ancora figurativi, prima di compiere, in uno stretto giro di anni, il passaggio all’astrazione segnica.

È proprio questa sorta di conversione il punto di partenza della rassegna alla Galleria Nazionale, che prende avvio da una quadreria di venti opere su carta allestita su un’unica parete, che tracciano “l’itinerario dell’artista dal figurativo al segno”, come puntualizza la curatrice. Da questo utile confronto si evince che il passaggio avviene attraverso un processo di essenzializzazione del corpo femminile, che si frantuma e si dissolve fino a stabilizzarsi come un unico segno simbolico, punto di partenza per un nuovo percorso. Un giro di boa chiarito in modo convincente grazie al confronto tra alcune opere figurative, come il Ritratto muliebre (1932), dove la modella indossa un abito con una texture astratta, o Nudo disteso (1940), e alcune opere astratte di grande impatto, tra le quali spiccano Superficie 274 (1958), presente nella bipersonale Capogrossi-Fontana a Osaka nel 1964, e Superficie 68 (1954), appartenente alla famiglia dell’imprenditore Gianfranco Moglia, che l’acquistò alla Biennale di quell’anno.

Assai accurata la selezione dei dipinti del primo Capogrossi, tra i quali si segnalano il raro Autoritratto (1927), dove l’artista si raffigura insieme all’amico Cavalli, la misteriosa e surreale natura morta Sogno d’acquario (1936-1937), esposto alla III Quadriennale accanto alle opere di Giorgio Morandi, e Il vestibolo (Donna bendata, lo spogliatoio degli uomini) (1932), dove appare una donna bendata (che alcuni vorrebbero identificare con l’amica Elsa Morante) introdotta in uno spogliatoio maschile di uno dei barconi sul Tevere. Una scena misteriosa simile a una sorta di rito iniziatico, dove si ravvisano riferimenti ad alcune opere del periodo rosa di Picasso. Senza dimenticare Dietro le Quinte (1938 circa), una tela ritenuta dispersa per anni e ritrovata di recente sul retro di un altro dipinto, Le due chitarre (1948).

Il principale merito di questa mostra è la restituzione del profilo a tutto tondo di Capogrossi “che si rivela – puntualizza la curatrice – non un Giano bifronte, non un artista schizoide o sdoppiato, che all’improvviso nega trent’anni della sua storia ma un artista coerente e ben centrato rispetto alla sua ricerca”. Interessante il catalogo, edito da Artemide, che comprende un puntuale regesto delle opere di Capogrossi presenti nei musei e nelle istituzioni italiane.

Capogrossi. Dietro le quinte
a cura di Francesca Romana Morelli
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Fino al 6 novembre 2022

In copertina: Giuseppe Capogrossi, Superficie 209, 1957

è nato a Roma nel 1961. Collabora con il quotidiano La Repubblica , con Artribune ed Exibart. È direttore artistico di Spazio Taverna. È professore di Didattica dell’arte all’Università IULM e direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. È stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro fino al 2017 Ha pubblicato una serie di saggi editi da Castelvecchi tra i quali “Arte come Identità”, “Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea” e “L’arte di collezionare arte contemporanea nel mondo globale”.

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