Immagine, linguaggio: l’altra dialettica

Caro Jacques Rancière,

Tra poco saranno trascorsi tre anni da quando ha avuto la generosità di prendere sul serio la «politica delle immagini» –  come lei diceva – insita nel mio recente lavoro[1]. Detto da lei, autore di  Destin des images nel 2003 e Politique de la littérature nel 2006, ciò non poteva far altro che far presagire delle problematizzazioni di un certo calibro. Mi sembra che abbia ammesso che, partendo dalla sua stessa elaborazione filosofica, io avanzi la formula, apparentemente provocatoria,  secondo la quale «le immagini prendono posizione» in quanto tali, o piuttosto che esse diventino tali attraverso un montaggio che conferisca loro quella efficacia stessa, che è sia politica (la posizione come apertura delle differenze se non proprio dei conflitti) che strutturale (la posizione come gioco dei posti se non proprio delle funzioni).

Questo supponeva, tra le varie implicazioni, che la relazione dell’immagine con il linguaggio fosse ben diversa da una relazione di illustrazione più o meno adeguata; presumeva inoltre che la relazione tra il linguaggio e l’immagine fosse ben altro che una relazione di pura decifrazione. Quale relazione, quale «altra dialettica», formula che riprendo da lei, occorrerebbe quindi mettere in atto? Non le è sfuggito allora che questa «altra dialettica» presupponeva di per sé un doppio lavoro o, in altre parole, il dover concedere una doppia fiducia ai due quadri allo stesso tempo, all’immagine e al linguaggio: alla consistenza visiva dell’immagine andando oltre la sua funzione strettamente rappresentativa tanto quanto alla potenza immaginativa del linguaggio, al di-là della sua funzione strettamente argomentativa. Certamente è sempre utile –  e spesso necessario – sapere ciò che una figura visiva rappresenta: è senza dubbio proficuo scrivere o «leggere» un’immagine costruendo la sua «lettura» in modo rigoroso e argomentativo, così come ha dato prova Erwin Panofsky in alcuni suoi testi magistrali. Ma operare in questo senso significa percorrere  solo metà della strada. E saremmo completamente in preda all’illusione se credessimo di «risolvere» un’immagine attraverso un’operazione del linguaggio che gli dovrebbe far «rendere ragione». Si può far «rendere ragione» solo alle persone o alle cose sospette, quelle di cui si è deciso, a priori, di diffidare. Così agisce la diffidenza secolare delle persone ragionevoli nei confronti di tutti i tipi di illusione, o quella che nutrono i poliziotti verso tutti gli individui passa-frontiere.

Contro tutto questo, lei dice, io avrei «sposato il partito delle immagini». Ma che genere di rischi comporta questa decisione? Lei rispose, concludendo il suo discorso del 2013, con le due parole «eccesso» e «poesia». Li ho presi come i complimenti più belli che mi si potessero fare – e, allo stesso tempo, ho sentito subito che c’era, per lei, qualcosa che stonava. Me lo conferma la lettura del saggio che ha appena proposto per il catalogo della mostra Soulèvements, il cui vernissage sarà tra qualche mese al Jeu de Paume. Considerato che molto si gioca attorno al potere immaginifico del linguaggio, sin dall’inizio lei insinua un sospetto che riguarda l’aura semantica della parola «soulèvement», sollevamento: «Cosa esiste al mondo che non si sollevi? È per questo aspetto che la vita si lascia riconoscere: i palpiti sotto la pelle, il respiro che solleva impercettibilmente il lenzuolo, il vento che muove la polvere e che è simbolo del nulla e, ancora, l’onda che funge da simbolo a tutto […] Allora come non includere nel grande respiro della vita che si solleva anche il momento in cui vibranti maree di persone […] si riversano con fragore nelle strade con i loro pugni alzati o le bandiere che sibilano nel vento?».

Tali afflati lirici, frutto della sua penna,  in realtà non sono altro che parodie: un preludio – ironico – alla materia, per la critica che intendete muovere contro tutta questa «poesia dell’eccesso» che, in effetti, chiama a sé la parola «sollevamento». Lei evoca Flaubert e lo fa probabilmente per poter revocare meglio il romanticismo del tumulto-tempesta di Victor Hugo che imperversa  in  numerose pagine dei Miserabili. Così mentre reitera la formula «come non…» mi sembra di capire che per lei si tratta di riconoscere tale potere immaginifico del linguaggio e di posizionarlo a una certa distanza, come una specie di pendio fatale che starà al filosofo criticare ad ogni costo.

«Come non…» diventa allora la formula del suo imperativo categorico: quello che si priva di tutta la fascinazione – associativa, visiva, fantasmagorica – insito nella «poesia» di certe parole e di certe immagini.

Ma non accade forse che per evitare di essere trascinato lontano da queste parole troppo veggenti – troppo cangianti, troppo kitsch o troppo sature di serie armoniche, dunque di ambiguità – rischia di cadere nello schema che lei stesso ha accettato di denunciare, quello di un linguaggio univoco o, quanto meno, di una dialettica standard? Il linguaggio univoco fa la sua comparsa quando, per finire, nell’onda lei non vede niente di più di quel che un iconografo «legge» senza troppo rifletterci, ossia un molto generico «simbolo di libertà». La dialettica standard sopraggiunge quando, nel suo discorso del 2013, si industria a «s-dramatizzare» la mia interpretazione del montaggio brechtiano in cui si vedeva il maresciallo Rommel chino su una cartina da stato maggiore, donne ucraine che piangevano i loro cari morti e papa Pio XII immortalato nell’atto di benedire i fedeli. Giustamente, lei ci ricorda che un montaggio di questo tipo deve molto ai disegni-caricatura dell’iconografia politica in cui i potenti che comandano si ritrovano di fronte alla povera gente che soffre: Rommel versus le donne ucraine, quindi. È il male incarnato contro la bontà stessa, lo sfruttatore contro lo sfruttato.

«Il montaggio delle tre immagini», sostiene nella sua conclusione,  «non dice nulla di più di questi disegni-caricatura». Eppure c’è qualcosa di più rispetto a questo semplice dualismo, perché siamo di fronte a tre immagini, non a due. Lei vede una struttura di tipo A/B (un faccia a faccia, partito contro partito) laddove, invece, Brecht visivamente ha bisogno di fare appello a un’altra posizione che esige un supplemento, questo terzo termine, per formare un ABC di comprensione più dialettica e più profonda. Una comprensione che è anche più aperta poiché, essa stessa, richiama una miriade di associazioni, quindi anche di occasioni per pensare ciò che lega tra loro le tre immagini. Per esempio la doppia faccia del potere (militare e religioso, «tecnico» e «spirituale»); l’ambivalenza contenuta nel gesto di benedizione papale (gesto, al contempo, di pace e di lassismo politico); le numerose somiglianze e i molteplici contrasti  dei corpi deputati ad uccidere (Rommel), a piangere i morti (donne) e a pretendere di perdonare, se non addirittura giustificare, adottando in  tutto ciò il punto di vista del Buon Pastore (Pio XII);  i paradossi di un’antichità dei gesti leggibile in queste immagini, che si tratti di gesti per catturare una preda o abbracciare un’assenza….Come avrebbe potuto, tutto questo, non far mettere al lavoro, proprio come diceva lo stesso Bertolt Brecht- un maestro nel mettere  in scena- o nel mettere in gesti- come lui?

Lungi da considerare questa risorsa, tuttavia, lei finisce col vedere nelle immagini visive solo  delle povere tautologie.  « L’immagine di un soldato che nuota verso riva» per riprendere le sue parole  «non è altro che l’immagine di un soldato che nuota verso riva» e, secondo lei, solo il linguaggio avrebbe la capacità di costruire un rapporto autenticamente dialettico. In queste condizioni l’espressione immagine dialettica – che in effetti deriva da colui che esercitò la dialettica nel modo meno ortodosso che sia mai esistito, Walter Benjamin – può ancora avere un senso per lei? Da un lato lei si irrigidisce in una forma di sfiducia quando legge un testo in cui le immagini letterarie le sembrano  «già compiere ciò che [esse] designano» attraverso il loro movimento d’enfasi, di lirismo o di drammatizzazione (poesia dell’eccesso o eccesso  di poesia).  D’altro canto, gira le spalle alle immagini visive quando postula troppo semplicemente – in un altro brano sull’ABC della guerra di Brecht  – che esse «non dicono  niente» (linguaggio del nulla o nulla del linguaggio).

Ebbene quel che lei nega al potere immaginifico del linguaggio – per lo meno negli esempi tratti dai miei oggetti di studio o dalle mie modalità di lavoro – lei li nega ancor più alla consistenza visiva delle immagini in quanto tali. Si tratta di un paradosso se si considera che lei, differenziandosi da tutta una tradizione della filosofia accademica che aveva visto nelle immagini dell’arte solo un’eventuale ciliegina (estetica) sulla torta del pensiero (ontologico), ha coraggiosamente preso sul serio le immagini nella loro immanenza, fino a sviluppare uno straordinario approccio  alla  politica, all’insegna della  condivisione del sensibile  (che definisce Partage du sensible)[2]. Tutto il suo percorso filologico (l’ingresso nella dimensione materiale, quella dell’archivio nel caso dei suoi lavori sulla parola operaia) la predisponeva a investigare i meandri, se non addirittura le stravaganze e gli eccessi di tale immanenza delle immagini: ma la sua posizione filosofica sembra, per contrasto, segnata da una battuta di arresto, se non proprio da un movimento a ritroso, di fronte all’immanenza stessa.

Condivisione del sensibile (Partage du sensible): la sua pratica filologica spesso orientata allo studio del contro-discorso come le sue prese di posizione filosofiche che sfociano quasi sempre nella produzione di tali contro-discorsi, sono tracce che danno prova della sua passione per la condivisione, da intendersi in tutte le serie armoniche che questo termine emana, partendo da ciò che esso vuole troncare (disaccordo, dissenso) fino a ciò che può ridistribuire (democrazia, uguaglianza). Ma il sensibile? Cosa ne fa, non solo del senso, ma anche dei sensi? E delle sensazioni e dei sentimenti? In diverse circostanze, sia in occasioni pubbliche che in privato, le ho chiesto di esprimersi sull’incredibile assenza, nel suo lavoro di Maurice Merleau-Ponty, questo grande pensatore del sensibile, proprio alla luce del fatto che i punti di contatto teorici, storici e anche biografici tra voi sono evidenti (le posizioni anti-staliniane, la mediazione di Claude Lefort, il vostro comune agire nel campo estetico…).  Ogni volta le sue risposte mi sono sembrate deludenti, difensive, non argomentate.  Rispondeva semplicemente  «non è pane per i miei denti».

Ecco dove si rivela, forse, il punto in cui, in lei, la passione per la condivisione entra in conflitto con il suo interesse per il sensibile. Una cosa è – cosa significativa, per altro, oltre che uno dei suoi più grandi contributi teorici – portare la problematica della «condivisione del sensibile» nella storia delle pratiche artistiche concepita nel suo aspetto politico; ma è ben altra cosa voler, davanti a ogni oggetto estetico, «con-dividere il sensibile» tra ciò che vi può esser « letto » e  ciò che in esso non «dice niente». Se, considerando questo punto di vista, dovessi esplicitare quale sia la differenza tra i nostri due comportamenti rispetto al sensibile, direi che lei cerca costantemente di districarne i componenti – alcuni profondi, altri più superficiali, altri ancora emancipatori ed diversi regressivi, taluni accettabili e tal altri criticabili – mentre io cerco piuttosto di «leggere», «rileggere» o «riallacciare» l’intrico stesso nella sua essenza. Non è un mistero che questo secondo comportamento sia, dal punto di vista psicanalitico, figlio dei principi freudiani  della  «non omissione», della «Nachträglichkeit» (in francese l’après-coup, la tardività[3]) o del « ritorno del rimosso» o, ancora, della «sovradeterminazione». Dal punto di vista filosofico discende, invece, dalle riflessioni di Merleau-Ponty sul visibile o dalla sua postura impegnata relativa al metodo quando affermava che «l’idea [è ]resa inintelligibile da ogni analisi che dipana»[4]. Dal punto di vista della storia dell’arte è un approccio che è debitore dello sforzo quasi tragico di Aby Warburg, teso spasmodicamente verso il «leggere» e «rileggere» dei significati dietro ad altri significati, secondo un’etica della conoscenza che si rifiutava di operare la benché minima limitazione delle potenze immaginative e di cui solo una «scienza della cultura» (Kulturwissenschaft) potrebbe ritracciare le storie come territori multipli.

Il problema che l’immagine suscita a fronte di qualsiasi tentativo di «lettura discriminante» è dato dal fatto che ogni qual volta che si tira anche solo un filo, il gomitolo intero vi viene incontro col rischio di saltarvi in faccia. L’immagine chiama il sensibile, ma il sensibile implica il corpo, il corpo si agita dando vita ai gesti, i gesti veicolano delle emozioni, le emozioni non procedono mai  senza l’inconscio, e l’inconscio stesso presuppone un nodo di tempi psichici tale che una sola immagine può rimettere in gioco e in causa l’intera modellizzazione del tempo e della storia stessa. Lei considera l’introduzione della «survivance» – la Nachleben, ossiala sopravvivenza, di Warburg e come la faccio lavorare – quale un «principio attivo di divisione del tempo». Anche se, così facendo, stiamo dando qui troppo peso al paradigma della condivisione, poiché la survivance designa piuttosto ciò che, in un’immagine o un gesto, non consente più di «dividere il tempo», di separare , per esempio, quello che è successo (rammemorato), quello che è presente (agito) o ciò che deve ancora venire (desiderato).

Un’immagine si condivide, fortunatamente: è, anzi, un mezzo esemplare per la costituzione sociale – tanto protensiva quanto attiva e memoriale – delle nostre storie comuni. Tuttavia un’immagine non si lascia dividere in parti senza che si registrino danni, a meno che non si consideri la «lettura delle immagini» come un’autopsia, un’operazione nel corso della quale l’atto di conoscere e quello di mettere a morte – per isolare meglio gli organi sani dagli organi malati, per esempio – vanno di pari passo, secondo un fantasma epistemico che risale quasi sicuramente alla metafisica aristotelica stessa (quando si esige che Socrate sia morto affinché si possa dire di lui, filosoficamente e definitivamente, che è abile). Certamente, la critica delle immagini è  necessaria, ma solo a condizione che essa sappia non trascurare nessun aspetto delle loro complessità o, meglio ancora, delle loro implessità. Quando nell’Estetica Hegel si riferisce al colorito dell’incarnato – che mescola profondità e superficie, il colore blu delle vene, il rosso delle arterie e il giallo della pelle – utilizza la magnifica espressione ein Ineinander:  « uno uno nell’altro» (non è un caso che proprio  da questa «implessità» del colore io abbia cominciato in La Peinture incarnée[5] a riflettere su queste problematiche). Ecco che siamo di fronte a qualcosa che, molto probabilmente, ha una struttura dialettica, ma che non si lascerà mai «suddividere» in tre parti distinte – vene,  arterie e pelle oppure tesi, antitesi e sintesi – a meno di non scomparire del tutto e per sempre.

Le immagini sono esempi di tali «implessità». Ma come si «legge una implessità»?Esattamente come non si può separare l’olio dalla pittura in un quadro ad olio – una volta che il pittore ha fatto l’amalgama e lo ha trasformato in immagine dell’arte – nelle opere visive non si potrà separare ciò che esse implicano su un piano che è, al contempo e indissolubilmente, materiale e psichico, semiotico e fenomenologico. È una questione di medium, per l’appunto, di mezzo: l’olio è necessario ed inseparabile dal pigmento in polvere affinché quest’ultimo si costituisca in immagine. Ebbene quel che appare da Eisenstein a Warburg così come da Freud a Merleau-Ponty, fino a concretizzarsi in antropologia del visivo, è che il pathos – per lo meno in Occidente – è uno dei mezzi privilegiati del funzionamento delle immagini. Lei afferma con grande buon senso, caro Jacques, che l’emozione non è «nell’» immagine, che si tratta molto semplicemente di una questione di ricezione spettatoriale e che, esattamente per questo motivo, non è proprio alla costituzione dell’immagine in quanto tale. In un suo testo scrive «L’artista sa bene che sugli schermi cinematografici così come alle pareti dei musei, non ci sono emozioni. Non ci sono che immagini».

Qui viene messa in scena, per poi confutarla facilmente, una relazione di inclusione logica (l’emozione « non è nell’» immagine, si tratta di due classi distinte) contro la relazione  completamente diversa che invece sembra essere quella in atto: una relazione d’implessità fenomenologica (l’emozione « è implicata nell’» immagine in quanto entrambe sono fatte in modo tale che una sia il mezzo dell’altra e affinché, fin dal primo istante in cui fanno la loro comparsa,  siano inseparabili). Mi suggerisce che avrei dovuto « rinquadrare la lettura delle immagini» di Harun Farocki per «render giustizia all’identità dell’attivo e del patetico». Tuttavia il mio proposito non era né di  «rinquadrare» (nel senso di ricentrarsi su uno dei  significati essenziali dell’immagine) né di affermare «un’identità»  (nozione che le immagini non fanno che malmenare in tutti i modi possibili): era invece capire la  «la vita nelle più piccole pieghe» dell’immagine, se posso osare parlare in questo modo  – con un poeta –, per tenare di descrivere la sovradeterminazione di tutto ciò che vi si agita, di tutto ciò che, in realtà, vi è fortemente implicato.

Nel  «leggere»  nella sommossa del Potëmkin «il contrario della deplorazione mattutina delle signore anziane e non solo la sua trasformazione», in un qualche modo, non fa che replicare questo tipo di rigidità concettuale,  privilegiando in modo unilaterale un rapporto logico rispetto a un processo fenomenologico. Infatti, dal punto di vista fenomenologico, la «trasformazione» non è in nulla e in nessun caso il contrario della «contrarietà»… Ormai è passato un bel pezzo da quando Aby Warburg ha studiato le «formule di pathos» nei termini di metamorfosi «polarizzanti» o «depolarizzanti», e che Sigmund Freud – che si tratti di pulsioni, fantasmi o sintomi, in altre parole, di energie psichiche, o ancora d’immagini o di gesti – ha parlato della «trasformazione nel contrario» (Verwandlung ins Gegenteil). Di fatto, questo è esattamente quel che avviene nella drammaturgia del Potëmkin, senza che il pathos delle donne intorno al cadavere di Vakulinchuk sia gettato in pasto all’oblio, catalogato quale mero «momento debole» dell’insurrezione stessa. La collera che provoca in noi è, forse,  il contrario del tormento che ci opprime; ma quello che racconta Eisenstein è esattamente il modo in cui un lamento (non ancora politico) può far nascere una collera (già politica).

Sembra contrariato, caro Jacques, quando qualcosa che potremmo sommariamente designare come «l’irrazionale» le si presenta innanzi o si affaccia sull’orlo di argomenti che le stanno a cuore. A fronte della mia lettura benjaminiana dei montaggi brechtiani, ci tiene a ricordare che lo stesso Brecht «in pectore si diceva “spaventato” dalla “mistica” benjaminiana dell’aura»… Quindi per lei il pathos è alla stessa stregua dell’aura? Questo non sfiora l’archetipo o i gesti umani «venuti dalla profondità dei secoli passati» proprio come lei scrive per diffidenza verso la nozione di Nachleben, della sopravvivenza? A meno che tutto questo non finisca in qualche «sublime postmoderno » da lei legittimamente criticato con fervore? Eppure non si tratta né di Jung né di Lyotard. Non si tratta dei prestigi della pulsione intemporale, bensì della storia culturale delle immagini e delle «formule di pathos» che vi sono connesse nella lunga vita della cultura occidentale. Allora come «leggere» tutto ciò? Il metodo deduttivo ereditato da Panofsky ha dato i suoi frutti sul piano di una leggibilità estesa nei termini di una decifrazione. Al contempo ha però anche mostrato i suoi limiti, quelli legati alle aporie di una ragione che, davanti alle immagini, non faceva che cercare di «spiegare» attraverso «temi e concetti» indietreggiando di fronte a qualsiasi tipo di immaginazione dialettica e ad ogni  forma di ascolto dell’inconscio.

Contro tale modello assiomatico e deduttivo, Walter Benjamin – nella stessa epoca di Panofsky e in relazione ad oggetti molto simili come la Melancolia di Dürer – ha tracciato tutt’altra direzione per la leggibilità delle immagini: una via euristica e «costellativa». Una via che non era affatto mistica e, al contrario, era attenta all’immanenza, vale a dire ai corpi, ai desideri, alle associazioni di idee e ai loro «segni», preesistenti ad ogni tipo di scrittura: «Leggere ciò che non è mai stato scritto» (“Was nie geschrieben wurde, lesen”). Questa lettura è la più antica: quella anteriore a ogni lingua – dalle viscere, dalle stelle o dalle danze. Più tardi, si affermarono anelli intermedi di una nuova lettura, rune e geroglifici. È logico supporre che furono queste le fasi attraverso le quali quella facoltà mimetica (mimetische Begabung) che era stata il fondamento della prassi occulta fece il suo ingresso nella scrittura e nel linguaggio»[6]. Le viscere (o il viscerale), le stelle (o il siderale) e le danze (o il gestuale) non hanno mai smesso di muovere o commuovere la nostra costituzione antropologica: innervano ancora tutte le nostre immagini presenti. Non si riuscirà però a « leggerle» se si cerca esclusivamente di spiegarle o di decifrarle come un linguaggio standard: questo atteggiamento si configura come una controspinta della ragione di fronte alle immagini. Si potrà leggerle solo innescando – a nostro rischio e pericolo, lo so bene – un lavoro dell’immaginazione suscettibile di trovare questa «altra dialettica» nata dal montaggio che un atlante di fotografie o un film avranno saputo creare. Nutro questo dissenso, caro Jacques, e le riconfermo la mia amicizia.

Traduzione di Emanuela Nanni

Si ringraziano Les presses du réel per aver concesso i diritti di traduzione di questo saggio, contenuto in Penser l’image, a cura di E. Alloa, Paris 2010.

[Jacques Rancière, Le Destin des images, Paris, La Fabrique Éditions, 2003. Id., Politique de la littérature, Paris, Galilé, 2006, Id., «Georges Didi- Huberman, La Politique des images», Intervento al convegno Images, passions, langages. Autour de l’œuvre de Georges Didi-Huberman, dir. E. Alloa, A. Beyer, P. Geimer, L. Schwarteet e S. Weigel, Paris, Bibliothèque nationale de France-Musée d’Art et d’Histoire du judaisme, 2013 [ripreso sopra ****]. Id., «Un soulèvement peut en cacher un autre», Soulèvements, dir. G. Didi-Huberman, Paris, Jeu de Paume-Gallimard, 2016, Id., Le Partage du sensible. Esthétique et politique, Paris, La Fabrique Éditions, 2000. Maurice Merleau-Ponty, Le Visible et l’Invisible, [1959-1961], éd. C. Lefort, Paris, Gallimard, 1964, p. 322. Georges Didi-Huberman, La Peinture incarnée, Paris, Les Éditions de Minuit, 1985, p. 20-28. Walter Benjamin, « Sur le pouvoir d’imitation» [1933], trad. M. de Gandillac revue par P. Rusch, Œuvres II, Paris, Gallimard, 2000, p. 363.  Georges Didi- Huberman, Atlas ou le gai savoir inquiet. L’œil de l’histoire, 3, Paris, Les  Éditions de Minuit, 2011, p. 9-79. Id, Peuples en larmes, peuples en armesL’œil de l’histoire, 6, Paris, Les  Éditions de Minuit, 2016]


[1]    Nota dell’editore del volume Penser les images III (da cui è tratto questo testo): si fa qui riferimento all’intervento che Jacques Rancière ha fatto in occasione del convegno Images, passions,  langages. Autour de l’œuvre de Georges Didi Huberman, tenutosi a Parigi l’11, il 12 e il 13 giugno 2013. (BNF/ Musée d’Art et d’HIstoire du Judaïsme/ Centre allemand d’histoire de l’art). Il fulcro degli argomenti trattati in questo intervento sono ripresi nel presente volume nel testo di Jacques Rancière dal titolo «Images relues» («Immagini rilette»)

[2]    Georges Didi-Huberman allude al titolo del volume pubblicato da Jacques Rancière, Le Partage du sensible.  Esthétique et politique. La versione italiana è stata pubblicata in italiano diversi anni dopo con il titolo La partizione del sensibile. Estetica e politica, Roma, Derive Approdi, 2016.

[3]    Sulla traduzione italiana del principio freudiano  Nachträglichkeit  vige ancora un dibattito intenso, mentre Georges Didi-Huberman utilizza la versione francese ormai stabilizzata, che fa l’unanimità, après-coup. Questa versione francese è spesso recuperata anche nei testi italiani.

[4]    Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, ed. it. a cura di M. Carbone, Milano, Bompiani, 2007, p. 279.

[5]    La versione italiana tradotta da Sara Guindani ha per titolo La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, Milano, Il Saggiatore, 2008.

[6]    W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in ID., Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione  italiana di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 71-74.

In copertina: Nicolas Poussin, Le Printemps (ou le Paradis Terrestre), 1660-1664 @Musée du Louvre, Paris

Leggi anche: Jacques Rancière, Immagini rilette. Il metodo di Georges Didi-Huberman

Georges Didi-Huberman

(Saint-Étienne 1953), è uno dei maggiori filosofi e storici dell’arte francesi. Dal 1990 insegna all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Tra le sue opere tradotte in italiano, ricordiamo "Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà" (Einaudi, 2001), "L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte" (Bollati Boringhieri, 2006), "Ninfa moderna" (2004), "La pittura incarnata" (2008) tutte pubblicate da il Saggiatore e "La conoscenza accidentale" (Bollati Boringhieri, 2011).

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