Abbiamo conosciuto un tempo in cui la politica imponeva di leggere le immagini per scoprire ciò che esse nascondevano, per quali occultamenti erano state create. Roland Barthes ci insegnava in questo modo a riportare alla luce ogni mitologia, ogni forma di naturalizzazione della dominazione borghese che potevano celare le immagini pubblicitarie di un nuovo detersivo o di una marca di pasta. Jean-Luc Godard ci insegnò a trasformare le immagini dei film, viste fin troppo rapidamente, in una lavagna, un quadro nero, in cui si lasciavano percepire tutti gli inganni di un’ideologia. Successivamente abbiamo conosciuto la sfiducia verso tutte queste letture. Alla piattezza dello studium che riallacciava le immagini al loro senso o alla storia che esse illustravano, imparammo a opporre il punctum di ciò che poteva esser trasmesso da un lenzuolo che ricopriva un corpo, o da un dito fasciato di una ragazzina o, ancora, dal ricordo incontaminato di un bicchiere di latte, o di una bottiglia, che cade in un film di Hitchcock. Pare che oggi stiamo vivendo una terza fase, un terzo tempo, in cui ci s’interessa di nuovo ma anche in modo diverso a queste immagini in cui, solo l’altro ieri, leggevamo le menzogne delle ideologie e, ieri, vedevamo la vanità dei significati: un tempo per compiere una rilettura delle immagini in cui si stabilisce un nuovo equilibrio tra le virtù dialettiche della loro decifrazione e la forza del loro semplice esistere, oltre che del loro pathos silenzioso.
L’indagine di Georges Didi-Huberman illustra perfettamente questo terzo tempo. Da qualche anno il suo lavoro sulle immagini ha rivelato delle implicazioni politiche che, in un primo momento, non erano mai state così evidenti. Lo abbiamo visto ripensare alcune figure catalogandole sotto l’etichetta dell’esposizione dei popoli, riferendosi a delle forme che, in precedenza, aveva visto sotto l’aspetto meno compromettente dell’evoluzione del panneggio caduto. Analogamente, si è distinto per l’impegno che ha profuso in territori in cui non era atteso, ritornando su alcune letture politiche paradigmatiche: quelle della dialettica brechtiana o del più brechtiano degli artisti contemporanei, Harun Farocki.
Questa rilettura delle immagini e delle loro letture antecedenti si fonda su una certa fede nella politica delle immagini. Con questa espressione occorre intendere due cose: una politica condotta nei confronti delle immagini e una politica affidata alle immagini. Il primo punto sensibile, ancor più radicalizzato forse a seguito della cattiva querelle che gli è stata scatenata contro in relazione alle quattro fotografie d’Auschwitz, è un’affermazione del potere delle immagini in quanto tali. Contro i gradassi che animano l’idolatria cristiana delle immagini, contro i critici abili a mostrarne il contrario ben celato oppure contro i detrattori dello spettacolo, Georges Didi-Huberman sposa il partito delle immagini. Gli attribuisce addirittura il privilegio rispetto a una forza che spesso e volentieri viene deputata quale responsabile della loro redenzione, vale a dire l’arte. In questo senso si può prendere come esempio la dimostrazione che imbastisce a proposito dell’opera di Steve McQueen dedicata ai soldati inglesi caduti in Irak. Non c’è alcun problema, dice Georges Didi-Huberman, se i muri di una galleria si ritrovano tappezzati da tavole di francobolli raffiguranti l’effigie di questi soldati. Quel che l’autorità rifiuta, invece, è proprio quello che causerebbe una catastrofe nel mondo ordinario delle immagini, ossia la circolazione di queste effigi sotto forma di veri e propri francobolli, emessi dalla Posta e incollati su delle buste[1]. Se esiste un potere dell’arte, questo potere è dato, in primo luogo, dalle immagini che essa mette o rimette in circolazione. Esse non sono affatto quelle che la doxa illuminata descrive: la luce omologante del mondo commerciale in cui l’attività umana si è trasformata in spettacolo e in cui tutte le differenze svaniscono. Sono invece le piccole luci che trafiggono e bucano quest’orizzonte d’indifferenza. Non sono copie passive delle cose e degli esseri umani, sono i gesti che portano quest’ultimi all’esistenza. La politica delle immagini non è quella che si può dedurre e formulare dalla loro interpretazione, è invece ciò che è inerente alla loro stessa disposizione. Ecco perché questo titolo provocatore: Quand les images prennent position (Quando le immagini prendono posizione). Quello che ci deve trattenere dall’effettuare l’opposizione forse fin troppo semplicistica che fa l’autore tra prendere posizione e prendere partito è il cortocircuito politico che tale opposizione crea a vantaggio delle immagini[2]. L’opposizione, in realtà, è una finta finestra, una finestra cieca. Degli individui si può dire, indifferentemente, che prendono, ossia scelgono, un partito o che prendono posizione. Questo perché, in entrambi i casi, con queste espressioni si indica semplicemente una tendenza dello spirito, una predisposizione positiva che non produce in sé alcuna alterazione dell’ordine del sensibile. Non è assolutamente così se si afferma che le immagini prendono posizione. Un’immagine è sempre una certa disposizione del visibile. Essa dispone in un certo modo i corpi che rappresenta, occupa un determinato posto e, di quest’ultimo, espone qualcosa. In altre parole, l’immagine è, sempre, una posizione, ed è sempre già sul campo che la politica deve occupare. La sua «presa di posizione» politica può allora essere pensata come una semplice modifica della posizione che assume, sempre in ragione del suo stesso essere. Questo è ancor più vero se si pensa la politica in base a un paradigma fondamentale che è quello dell’apparizione. In questo senso Georges Didi-Huberman resta vicinissimo al pensiero di Hannah Arendt: un popolo è in primo luogo un’apparizione, un assurgere alla visibilità. La posizione delle immagini diventa allora, immediatamente, una cosa sola con l’esposizione dei popoli.

Tuttavia anche questa esposizione segue una modalità molo particolare che una nuova tipologia di lettura deve imporre. Infatti, ci sono molti modi per pensare il manifestarsi visivo del popolo. Si può concepire come sovversione di un ordine sensibile. Questo è ciò che, per esempio, offre allo sguardo l’incisione di una barricata del 1848 pubblicata da un giornale conservatore inglese e trattata come una scena teatrale[fig. 1]. È un’immagine di disordine e di parodia, è evidente, ma è anche un’immagine che possiamo vedere, in senso positivo, come un’immagine di apparizione del popolo. Il popolo degli incalcolabili che si lascia quantificare. Crea lo scenario della sua apparizione sovvertendo la distribuzione canonica degli spazi: gli operai che dovrebbero essere in fabbrica, infatti, non si limitano a stare semplicemente in strada. Bloccano le strade e, per farlo, utilizzano le pietre del selciato, così come i carri utilizzati per la circolazione e i mobili destinati al comfort di casa. L’apparizione del popolo si manifesta come un gran disordine di tempi e di spazi. Ora, l’apparizione privilegiata di cui parla Georges Didi-Huberman nel suo Peuples exposés, peuples figurants[3] è ben altro. L’apparire improvviso non è tanto posto sotto il segno della sovversione quanto piuttosto quale effetto della precarietà: precarietà del numero, innanzitutto. Il plurale non è dato in quanto modifica del paesaggio sensibile ad opera di un collettivo agglomerato, è semplicemente un accostamento di singolarità prodotto da un’operazione: l’operazione militare che ha generato l’allineamento dei cadaveri dei comunardi, durante la Comune di Parigi, o l’operazione artistica che ha riunito le fotografie di neonati di Philippe Bazin. L’apparizione stessa, in questi casi, non è tanto la violazione di un divieto posto allo sguardo e alla visibilità, quanto piuttosto un prelevamento effettuato ai margini del non-essere: fotografie di neonati che faticano a sopportare la luce di un nuovo giorno o di anziani in un ospizio prossimi al momento del loro trapasso o, ancora, immagini dei comunardi illuminati brutalmente come cadaveri [fig. 2].

L’immagine e il popolo s’intrecciano solo sulla soglia della sparizione, costantemente esposti al duplice rischio della sottoesposizione che tutto livella e della sovraesposizione che ogni cosa abbacina. S’intrecciano li, come superstiti, sopravvivendo nonostante tutto, e aggirando i due pericoli della dissoluzione nel buio e dell’accecamento nella luce. È tutto questo ciò che divide questa umanità esposta – nel senso in cui si esponeva un tempo Edipo bambino o il corpo morto di Polinice – da quella della «famiglia dell’uomo» di Steichen la cui ombra sembra levigarsi e aleggiare in Peuples exposés, peuples figurants. In questo caso i bambini sono senza madre e quegli anziani senza famiglia. Anche questo separa i morti fotografati da Disdéri dal popolo che veniva rappresentato, qualche giorno prima, in posa sulle barricate. Ciò che crea una rottura nell’immagine, quindi, non è il conflitto sulla distribuzione del sensibile. È invece la sopravvivenza, il modo in cui la famosa «nuda vita» si sdoppia e diventa sopravvivenza, diventando il pulsare di un tempo opposto a quello che conduce alla scomparsa. La sopravvivenza come principio attivo della divisione del tempo: è questo ciò che attribuisce alla politica delle immagini di Didi-Huberman la sua singolare dinamica. Le immagini quali forme visive e le immagini come operazioni figurali vi sono concepite nel prisma di un’«immagine» che in sé non ha nulla di visivo, sebbene gli sia da emblema un angelo (l’immagine dialettica di Benjamin). Quest’immagine, nella sua essenza, non è altro che un rapporto tra varie temporalità: interruzione, inversione e sovrapposizione dei tempi. L’immagine superstite, l’immagine come divisione attiva del tempo, elemento che caratterizza ogni corpo esposto, è ciò che soggiace alle tensioni presenti nella «lettura» delle immagini operata da Georges Didi-Huberman, al suo modo di parlare delle forme visive che mostra e commenta. Il principio più evidente di tale lettura consiste nel mettere in discussione il quadro concettuale all’interno del quale, di norma, le immagini vengono «lette», ossia il paradigma dato dall’opposizione tra attività e passività. Dire che le immagini «prendono posizione», equivale prima di tutto al rifiuto che a esse venga attribuita una sua caratteristica tradizionale: la passività. Le immagini sono attive. Sono dei gesti. La dimostrazione condotta riferendosi alle quattro immagini di Auschwitz è valida, in questo senso, per qualsiasi immagine. Questi scatti sfuocati non mostrano lo sterminio, affermano i detrattori e, in ogni caso, avrebbero torto se volessero mostrarlo. Quel che invece tali immagini palesano prima di ogni altra cosa, controbatte Georges Didi-Huberman, è il gesto di coloro che l’hanno scattata, il gesto di radicale umanità che consiste nel fare foto nonostante tutto, rischiando la vita, nella flebile speranza che queste immagini della vita umana sull’orlo dell’annientamento arrivino a destinazione, che giungano a un destinatario che si preoccupi del genere umano in quanto tale. A costituire, in primissimo luogo, il sostrato della politica dell’immagine è la passione che anima chi va a caccia delle immagini, passione anch’essa indissociabile dal pericolo vissuto dal soggetto che le «cattura». Georges Didi-Huberman propone di pensare la politica delle immagini partendo da una triade che riprende da Erich Auerbach: realismo mimetico, operatività figurale e passione. Ma su ognuno di questi piani opera un’equivalenza fondamentale: quella del pathos e dell’attività. La passione è proprio la passività tramutata in attività, la sofferenza che si trasforma in energia. Tuttavia, tale capovolgimento è da intendersi considerando il suo duplice versante: la passività non è eliminata a vantaggio dell’attività. Poiché il contrario «normale» dell’immagine registrata passivamente è l’immagine manipolata attivamente. Ed è ben noto come le stesse critiche che definiscono ‘irrappresentabili’ le vittime, immancabilmente accusino di manipolazione l’immagine di quelle stesse vittime che non vogliono conoscere. Ciò che sa opporre resistenza a questo gioco dei rovesciamenti è quindi l’identità viva dei contrari, è questa la singolarità delle varie letture d’immagini operate da Georges Didi-Huberman. L’attività delle immagini è anche l’attività di una sofferenza, di una vita in pericolo, di una testimonianza sempre minacciata dal mutismo che cala su esistenze a loro volta minacciate dalla scomparsa.
A questo proposito è significativa l’analisi dell’installazione d’Esther Shalev-Gerz dal titolo « Entre l’écoute et la parole» ( Tra l’ascolto e la parola)[4]. Il titolo esprime perfettamente il principio di complementarietà che caratterizza la maggior parte delle installazioni di Esther Shalev-Gerz: nei suoi lavori c’è qualcuno che parla e qualcuno che ascolta e, a volte, è lo stesso soggetto che si ascolta; oppure c’è qualcuno che guarda o ascolta e un’immagine che segue sul suo volto l’effetto di ciò che lui o lei vede o ascolta; o, ancora, entra in gioco un oggetto testimone, una mano che lo regge, una voce che ne parla. Nelle sue installazioni agisce sempre una forma d’inquietudine che comunica con un’attenzione. Lo stesso avviene in questa installazione in cui, mentre i visitatori guardano i video che riportano le testimonianze dei sopravvissuti di Auschwitz, uno schermo gigante isola dei momenti muti estrapolati da tali testimonianze. Sono i momenti in cui i testimoni si fermano, pensano a quello che diranno e al modo in cui lo formuleranno. Ebbene, l’analisi di Georges Didi-Huberman presenta questi attimi di attenzione come attimi in cui avviene il blocco, l’attimo di crisi della parola che non esita ad accomunare al silenzio di Abraham Bomba in Shoah[5]. Tuttavia, non per questo, abbraccia la tesi dei detrattori dell’immagine e anzi, per confutarla, per mostrare che l’immagine è attiva, ha bisogno di applicare su questa attività il suo coefficiente di sofferenza. L’immagine che prende posizione è l’immagine che sopravvive alla sua stessa impossibilità, in altre parole è l’immagine che espone al contempo un’impossibilità e la vittoria che, malgrado tutto, trionfa su questa impossibilità.
È questa dialettica del pathos o dell’attività patica che Georges Didi-Huberman cerca di far agire in relazione ad artisti formati all’interno di tutt’altra comprensione della dialettica, quella della tradizione marxista della critica delle immagini: secondo quest’ultima non si tratta tanto di ciò che l’immagine fa sopravvivere in una sovrapposizione di piani temporali ma, in modo più classico, del rapporto tra ciò che mostra e ciò che occulta. Nelle opere di Brecht agisce una dialettica relativamente semplice tra la «naturalità» del visibile e la storia che nasconde. In Farocki tale dialettica si complica passando attraverso la messa in discussione adorniana della storia stessa, vista quale storia della ragione tecnica. Tuttavia, in entrambi i casi, questa dialettica è condotta all’interno di una forma canonica: sono le parole che devono dire ciò che le immagini realizzano, sotto la maschera della loro apparente passività o, al contrario, ciò che esse non riescono a vedere anche se proprio loro pretendono di avere una padronanza assoluta del visibile. Sia nel primo che nel secondo caso, Georges Didi-Huberman deve riposizionare la «lettura delle immagini» prodotta da questi attivisti della dialettica per rendere giustizia all’identità dell’attivo e del patico e al suo centro: l’immagine come sopravvivenza. Sia nel primo che nel secondo caso, deve quindi ri-configurare il rapporto tra la forma visiva, le parole e il tempo. Per mostrarlo mi concentrerò da un lato sull’analisi del film di Farocki Bilder der Welt und Inschrift des Krieges (Images of the World and Inscription of War) e, dall’altro, sulla sua analisi delle immagini dell’opera Kriegsfiebel di Brecht.
La dialettica di Farocki, in realtà, mette in gioco due opposizioni. Prima di tutto la duplice operazione che è propria dell’immagine attiva, l’immagine operatoria, che consiste nel conservare e distruggere allo stesso tempo. È la caratteristica precipua dell’immagine militare che prende di mira il suo bersaglio, ma anche di quelle che custodiscono fedelmente i dettagli architettonici delle case destinate a esser rase al suolo e, ancora, delle immagini dei carnefici dei campi che non possono fare a meno di filmare l’atto della loro selezione che diventa condanna a morte immediata. La seconda opposizione è quella tra ciò che l’immagine è destinata a vedere – come gli stabilimenti industriali della IG Farben nella fotografia aerea di Auschwitz scattata dall’esercito americano il 6 aprile 1944 – e quel che mostrano senza che sia visto – le strutture dei campi e, in particolare, la camera a gas che sorgeva a fianco, costruzioni che però gli operatori non vedono perché non le cercano. Per poterle vederle, in concreto, occorrono due cose: prima di tutto è necessario detenere il sapere circa quel che accadeva nei campi, sapere apportato da due prigionieri scappati da Auschwitz e, in secondo luogo, è necessario che un ingrandimento dell’immagine permetta di mostrare, a coloro che ormai lo sanno, che queste macchie bianche sono le aperture nel tetto attraverso il quale veniva introdotto il gas e che quella serpentina nera è la fila di coloro che aspettavano davanti all’ufficio delle registrazioni. Mostrarlo vuol dire però far leggere qualcosa che, in fin dei conti, nessuna ha visto: né gli americani che hanno scattato la foto né i guardiani del campo, né le vittime, né noi stessi poiché, anche qualora capissimo che quella serpentina è una coda, con i nostri occhi non vediamo assolutamente quello che ci dice il cineasta: «Li vediamo aspettare che li tatuino, che si rasi loro la testa, che gli si attribuisca un lavoro». La lettura dell’immagine operativa/cieca passa quindi attraverso un’operatività della dimostrazione che consiste nell’aggiungere il sapere e l’ingrandimento dell’immagine, affinché ci mostri quale sia l’oggetto di tale sapere. Ora, rispetto a questa inflazione «operativa», è significativo che l’analisi di Georges Didi-Huberman consista nel inserire ulteriore contenuto patico in questa operazione. Ecco che, ci dice Georges Didi-Huberman, nella dimostrazione di Harun Farocki le immagini di Auschwitz «ci cadono addosso».[6] . Partendo da questa «caduta», pone l’insieme delle operazioni che aggiungono sapere e leggibilità sotto l’egida di un concetto che coniuga in modo esemplare la forza di un’attività con un effetto d’infragilimento: il cineasta, ci dice, procede tramite una serie di «refilature», ossia di tagli dell’immagine. Questo taglio è ancora una volta la fusione dell’attivo e del passivo. È un lavoro da taglialegna ma è anche un’attività che rende visibile, proprio sull’immagine, l’operato della morte non attraverso quell’accumulazione di certezze di cui Farocki rende conto, quanto piuttosto tramite una successione di frammenti. La dimostrazione di colui che usa la dialettica spiegando quel che c’è sull’immagine può così diventare una «posizione» dell’immagine superstite.

Sarà ancora la tensione che vige tra due dialettiche l’elemento che rende palpabile il divario tra due commenti della stessa immagine, quella della donna che si scosta dalla fila di coloro che aspettano durante l’operazione di selezione [fig. 3]. Anche in questo caso il commento viene autorizzato da una doppia operazione di reinquadratura oltre che da un doppio ingrandimento, azioni che isolano il viso della donna. Ma questo «ingrandimento» dà luogo a dei punti di articolazione ben diversi tra un viso, delle parole e il tempo. Infatti, Farocki, in questo caso, riferendosi allo sguardo della donna, fa un’osservazione che denota stranezza o un’osservazione di estraneità – un’osservazione alla Godard. Questo sguardo di donna che si vede vista, ci dice Didi-Huberman, è lo sguardo della donna che era, lo sguardo che l’abitante delle città posava sui passanti e sulle vetrine dei negozi, lo sguardo che cerca di inquadrare ancora invano quello scenario ormai perduto. Qui Georges Didi-Huberman non si pronuncia né sulle mani di Farocki che ritagliano la foto, né sulla spinta ironica della sua dialettica legata al fatto che un habitus sociale persiste nello sguardo posato su ciò che lo nega radicalmente. Quel che interessa a Didi-Huberman, in questo caso, è il modo in cui questa donna è strappata alla morte alla quale è stata condannata e spinta. È attirato da questa crepa nel tempo che va di pari passo con il modo in cui tale donna viene distinta dagli altri, nella folla delle vittime: una distinzione che si riassume in una sola parola, nel nome della donna che l’immagine ha permesso di ritrovare. Di conseguenza, ciò che conta nella relazione dei diversi piani temporali, non è più lo spostamento della donna che, arrivando al campo, conserva il gestus della cittadina elegante, ma piuttosto la sopravvivenza di una singolarità strappata nonostante tutto allo sterminio.[7]
Il rapporto tra tempo e parole funziona diversamente quando Georges Didi-Huberman si inoltra nella lettura brechtiana delle immagini a partire dall’immagine dialettica benjamiana. In un certo senso il suo saggio su Brecht approfondisce il malinteso che è al centro del rapporto di prossimità tra Brecht e Benjamin. È cosa nota che Brecht in pectore si definisse «spaventato» dalla «mistica», benjamiana dell’aura. Per Benjamin la divergenza è trattabile perché la sua analisi delle poesie o del teatro di Brecht non aveva a che fare con alcuna forma del visibile. Evidentemente non è più così quando Georges Didi-Huberman esplora il Kriegesfibel, o le immagini che Brecht ha inserito nel suo Diario di lavoro. A quel punto, infatti, deve affrontare direttamente la discrepanza che separa il pensiero benjamiano dell’immagine dialettica e il discorso che Brecht costruisce, dal canto suo, tra forme visive e parole. Per questo motivo, come prima mossa, il rapporto tra l’attività dell’immagine e la sua passività deve tendersi all’estremo. È quel che accade con tre immagini che Brecht accosta, ponendole una di fronte all’altra: Rommel chino sulla cartina, delle madri ucraine che piangono i figli morti e Papa Pio XII che impartisce la benedizione urbi et orbi. L’effetto di dispersione che conferisce questo montaggio, ci dice, deve essere pensato «dalla prospettiva di una coincidenza crudele, cioè di una concomitanza […] Dunque, non è possibile dire che queste immagini non abbiano nulla a che vedere fra loro. Quel che bisogna vedere, al contrario, è come, al cuore di una tale dispersione, i gesti umani si riguardino […]»[8]. Tuttavia, al di là di Brecht, per drammatizzare in questo modo il potere attivo che tali immagini assemblate avrebbero arrivando addirittura a fare in modo che i gesti «si riguardino» l’un l’altro, occorre, a monte, aver attribuito a Brecht l’idea della dispersione, cioè l’idea che, per lo spettatore ordinario, queste immagini non abbiano « nulla a che vedere e da vedere ». Occorre aver dimenticato la lunga storia di quei disegni-caricatura che mostravano ai lettori delle riviste satiriche come L’Assiette au beurre o Simplicissimus gli effetti criminali delle belle inquadrature degli ufficiali che sfilavano in parata o la fretta degli uomini di chiesa nel benedire i procacciatori di carne da cannone. Il montaggio di tre immagini non dice niente di più rispetto a queste caricature disegnate. La differenza sta nel fatto che lo dice sotto forma di un segreto rivelato. Questa è la lezione discreta data dalle righe introduttive a L’Abicì della guerra: «[…] Per l’analfabeta è parimenti difficile decifrare un’immagine o un geroglifico. La grande ignoranza relativa alle dinamiche sociali e ai rapporti di forza, che il capitalismo si sforza di conservare con brutale sollecitudine, trasforma in geroglifici le migliaia di foto nelle pagine delle riviste illustrate, del tutto indecifrabili per il lettore inconsapevole».[9]. Il montaggio brechtiano sembra così limitarsi al confronto tra il mutismo menzognero dell’immagine e la parola che rivela ciò che tale immagine nasconde. Lo stesso accade con quel soldato dello sbarco in Normandia il cui epigramma ci dice che, apparentemente, si è appena scontrato con l’uomo della Ruhr ma, in realtà, ha affrontato quello di Stalingrado. Il problema è che l’atto di svelare la realtà nascosta sotto l’apparenza è tutto racchiuso nelle righe della quartina. L’immagine del soldato che nuota verso la riva non è altro che l’immagine di un soldato che nuota verso la riva. Non presenta nessun messaggio ingannevole, nessun geroglifico da decifrare. In altre parole è superflua. La quartina basta a se stessa.

Lo stesso vale per quest’immagine di operai affaccendati attorno a delle lastre di metallo sollevate da argani [fig. 4]. Si tratta di mostrare che gli stessi operai con lo stesso metallo fabbricano sia la blindatura dei carri armati che le granate destinate a trapassarli perché, in entrambi i casi, questo lavoro, per loro, ha lo stesso identico scopo: guadagnarsi da vivere. Quelle lamine di per sé non esprimono nulla. Sono lì semplicemente per dire che non dicono niente. Solo l’epigramma introduce il rapporto tra le differenze d’uso e l’indifferenza del valore di scambio. Queste parole ci spiegano che, dietro le fazioni in guerra, vige la legge uniforme del Capitale. Inoltre affermano che si tratta di una dialettica circolare: occorre aprire gli occhi di coloro che sono «inconsapevoli» e ignari di tutto mostrando loro, contemporaneamente, sia la differenza della guerra dietro la rifinitura uniforme delle lastre che l’indifferenza del Capitale dietro lo scontro bellico. Ma è anche vero che non serve a niente rivelare di cosa vivano quegli uomini a coloro che, in ogni caso, hanno bisogno di vivere. L’epigramma che vuole instillare il seme dell’attività nella passività dell’immagine ritrova questa «passività» al centro della realtà stessa che gli vuole opporre: l’epigramma è, sostanzialmente, indifferenza, il tornello azionato incessantemente dalla vita e dalla morte, dalla verità e dalla menzogna. Ed è, in fin dei conti, l’immagine «morta» che sulla pagina sembra guardare ironicamente le quattro linee che hanno la pretesa di renderla viva.

Georges Didi-Huberman deve perciò rispondere a tale dialettica della decodificazione e al suo doppio fondo nichilista con una dialettica di tutt’altra natura. Le sue parole devono far vedere questa dialettica come immanente all’immagine stessa in quanto forma visiva. Occorre che il teschio che guardava ironicamente il testo si animi e mostri il montaggio presente nell’immagine come montaggio dei tempi. È questo che, ne L’Abicì della guerra, quel cranio giapponese carbonizzato posizionato su un carrarmato americano ci autorizza a fare [fig. 5]. Rinviando l’effetto verso la sua causa (il capitalismo), l’epigramma ricollega la visione d’orrore alla crudeltà intellettuale di un gioco di parole: quest’uomo è morto per una banca giapponese senza che il suo debito di sangue potesse saldare quelli pecuniari che la sua famiglia continua ad avere. Georges Didi-Huberman intende restituire al cranio la potenza dialettica – ossia la potenza dell’immagine dialettica – che l’epigramma le ha rubato. Per riuscirci deve mostrarlo come un montaggio temporale, un rimontaggio del tempo. È sufficiente, ci dice, leggere sull’epigramma «Povero Yorrick» per risentire le parole di Amleto «Quel cranio, aveva dentro la lingua, una volta, e sapeva cantare […] Qui erano appese le labbra che ho baciato non so quante volte».[10]. Questo «è sufficiente» è ovviamente un’antifrasi. Perché, per l’appunto, questa operazione non è assolutamente sufficiente. Il cranio del povero Yorrick subisce lo stesso destino del «To be or not to be». Sono diventate delle espressioni demonetizzate che non suscitano più alcuna macabra visione. Occorre quindi resuscitare la potenza sensibile affinché questa lingua e queste labbra che pendono possano, dal XVI° secolo di Shakespeare, rivivificare questa immagine a cui le parole del commentatore hanno confiscato la potenza riconducendo il semplice orrore del cranio sotto la dialettica del capitale.

Le parole «superstiti» di Shakespeare disegnano, a partire dal cranio del soldato giapponese, una parabola da cui si ritrova trascinata la donna di Singapore che piange suo figlio [fig. 6] che, allora, comunicherà attraverso una parola teatrale e, è allo stesso tempo, tramite il blocco della parola, energia nuda di una forma di pathos risalita dal profondo delle varie epoche: il grido di Helen Weigel sulla scena di Madre Coraggio[11] [fig. 7]. La dialettica dell’immagine si sviluppa allora come una contro-dialettica, una scomposizione e una ricomposizione del montaggio brechtiano.

I libri di Georges Didi-Huberman sono tutti, più o meno, questo: dei libri «sul» montaggio di immagini che si rivelano essere, anch’ esse, dei montaggi che smontano e rimontano il lavoro di coloro che si sono dedicati a una forma più classica di ricomposizione per ridistribuire gli elementi e le funzioni e incidere sempre la scena che, dal canto suo, non manca mai di ricostruirsi in relazione all’immagine. Ci riferiamo naturalmente alla scena platonica in cui si vuole chiarire con le parole l’eccesso di presenza o il difetto di intelligenza delle immagini. La dialettica di Georges Didi-Huberman vuole restituire alle immagini che vengono definite insignificanti o indegne tutto il loro potere sovversivo. Vuol far valere la loro forza d’azione e quella della memoria delle azioni, oltre a unire la perentorietà della dialettica che, tramite il suo paziente lavoro, smonta ogni evidenza precostituita, con la potenza nuda del gesto che attraversa le varie epoche o la forza del grido che disarma ogni retorica. Ma sono le parole che devono compiere questo lavoro. Sono loro che producono l’immagine dialettica rompendo la dialettica ordinaria dei rapporti tra la parola e l’immagine, mettendo in movimento le forme visive, attivando le parole che le identificano, facendo precipitare un tempo su altri tempi. Sono esse che producono, prima di tutto, questa danza delle immagini, questa «ebrezza delle immagini nel tempo delle loro dislocazioni». Queste parole sono quelle che occorre produrre di nuovo sulle pagine del libro per «fare vedere» retrospettivamente tale danza tra le parole e le immagini di questi specialisti della dialettica che volevano renderci lucidi facendoci vedere l’accecamento dei ciechi. Ed è ben noto che, per farlo, le parole stesse devono danzare, uscire dalla consunzione degli usi che ha cancellato la loro origine e che ha assegnato loro un significato dominante. Occorre che la «posizione» di un artista in relazione alle cose del mondo diventi la posizione delle immagini su una superficie, la posizione che un esercito mantiene su un territorio ma anche il punto di vista dal quale questo stesso territorio diventa visibile. Occorre che tale posizione si mostri come disposizione e che questa stessa disposizione cambi la sua configurazione e da disposizione diventi opposizione, trasformando così il suo stato passivo in attività dissensuale e capace di sottolineare i disfunzionamenti in modo dinamico. Occorre che le parole che penetrano e ripenetrano ogni evidenza costruiscano, allo stesso tempo, una fitta rete di parentele, capace di raccogliere incessantemente all’interno della sua familiarità tutto quel che disintegrano in mille frammenti. Occorre che esibiscano la potenza di tale rete prendendo posizione sulla pagina come elementi visivi in atto, operando materialmente ciò che dicono. Lo si potrà verificare facilmente: non c’è libro di Georges Didi-Huberman in cui le pagine non siano cariche di quei corsivi attraverso i quali l’atto del pedagogo, insistendo sui punti cruciali della sua dimostrazione, si trasforma in tutt’altra cosa: una poesia-dipinto in cui le parole si inclinano incessantemente verso la passività struggente dell’immagine mentre, allo stesso tempo, tendono la pagina nella direzione del suo senso. Una poesia in cui tutte queste forme di pathos e queste indicazioni di direzione diventano parte di una grande rima universale: quella della biblioteca infinita, fatta di libri le cui copertine si richiudono come rime di un verso e si aprono contemporaneamente all’infinità di operazioni che ridanno vita alle parole, dando loro nuovamente la forza di mordere la vita e di riscattarne le ferite agglutinandole alla superficie sterminata dei loro assemblaggi e delle loro dislocazioni. Come se la forza vitale prestata alle immagini si esercitasse solo a costo di essere dimostrata da un lavoro incessante della scrittura.
Traduzione di Emanuela Nanni
[1] Georges Didi-Huberman, Sur le fil, Paris, Édition de Minuit, 2013, p. 55.
[2] Georges Didi-Huberman, Quand les images prennent position, Paris, Éditions de Minuit, 2009, p. 118.
[3] Georges Didi-Huberman, Peuples exposés, peuples figurants, Paris, Éditions de Minuit, 2012.
[4] Georges, Didi-Huberman, Blancs soucis, Paris, Édition de Minuit, 2013, p. 63-113.
[5] Ibid., p. 77-86.
[6] Georges Didi-Huberman, Remontages du temps subi, Paris, Minuit, 2010, p.135.
[7] Ibid., p. 138-141.
[8] Georges Didi-Huberman, Quand les images prennent position, op. cit., p. 78-79. Citiamo qui la traduzione italiana ad opera di Francesco Agnellini, Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia I, Milano-Udine, Mimesis, 2018.
[9] Riprendiamo qui le parole di Ruth Berlau tratte da, Premessa, in Bertoldt Brecht, Kriegsfibel, Eulenspiegel Verlag, Berlin 2008 [1955], nella traduzione italiana a cura di R. Fertonani, L’Abicì della guerra, Einaudi, Torino 1972.
[10] Georges Didi-Huberman, Quand les images prennent position, op. cit., p. 152. La citazione dall’Amleto di Shakespeare è tratta dalla traduzione di Nemi D’Agostino in William Shakespeare, Amleto, Milano, Garzanti, 1984.
[11] Ibid., p. 162
Si ringraziano Les presses du réel per aver concesso i diritti di traduzione di questo saggio, contenuto in Penser l’image, a cura di E. Alloa, Paris 2010.
In copertina: Harun Farocki, Bilder der Welt und Inschrift des Krieges, 1988