Domenica 23 ottobre, nell’ambito del Danae Festival, va in scena al Teatro Out/Off di Milano il lavoro più recente della compagnia Muta Imago, Ashes, con Marco Cavalcoli, Ivan Graziano, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli. A questa intervista hanno risposto Riccardo Fazi, che firma la drammaturgia e la regia dello spettacolo, e Claudia Sorace, a guida insieme a lui della compagnia e in questo allestimento presente come “occhio esterno”.
MARIA TERESA CARBONE: Vorrei partire da lontano, dal nome che avete scelto per la vostra compagnia. In una vecchia intervista Claudia Sorace ha detto che “l’idea era quella di scegliere un nome che innanzitutto non contenesse la parola teatro al suo interno”, perché vi pareva “limitante”. E ancora, sempre riguardo al nome, che il vostro progetto di lavoro era “concentrato prevalentemente sull’immagine, sul cambiamento dell’immagine”. A sedici anni dal vostro esordio, nel 2006 con Comeacqua, vi riconoscete ancora in queste posizioni?
MUTA IMAGO: Amiamo il Teatro come luogo, non come tradizione. Non possiamo fare a meno della dimensione dell’incontro dal vivo, qualunque sia la forma che prende ogni volta il nostro lavoro. Siamo alla continua ricerca di forme e contenuti che possano avere senso solo nella condivisione effimera del qui e ora, in un tempo e in uno spazio che si definiscono per la loro straordinarietà e che pretendono ascolto, attenzione e silenzio.
Rifiutiamo ancora oggi l’idea di un teatro non vitale che si occupa soltanto di trovare il modo di mettere in scena dei testi classici e a questo anteponiamo l’idea di un teatro come luogo che più di ogni altro possa ospitare nature molteplici, multiformi, centripete e centrifughe allo stesso tempo, aperte a un confronto continuo con il presente. Forse, più che la parola “immagine”, oggi utilizzeremmo il termine “visione”: è a questa, che siamo affezionati. È la possibilità di visione, che cerchiamo nel teatro, e la visione può scaturire da un’immagine come da un gesto, da una parola, da un suono.
Del nome Muta Imago ci è sempre piaciuta l’indefinitezza e la duplice direzione che apre: l’immagine è muta, silenziosa, ma allo stesso tempo cangiante. È muta non perché non dica, ma perché non afferma: si presenta, per come è, aperta alla lettura di chi guarda. Cambia perché è curiosa, alla continua ricerca, non è mai doma, nel suo tentativo di restituire un ritratto del mondo. Solo anni dopo abbiamo poi scoperto che la “muta imago” è uno dei nomi che i romani antichi davano ai calchi dei volti dei defunti. Ancora una volta, una maniera di salvare delle immagini dalla scomparsa; ancora una volta, il tentativo degli esseri umani di combattere l’oblio del tempo.
MTC: In particolare, in che senso il termine teatro poneva – o pone – dei limiti?
MI: Il termine teatro non pone nessun limite di per sé. È l’immaginario che si vuole imporre su di esso che rappresenta il problema. È l’idea che esista un solo teatro e non una poliritmia di forme, racconti, identità. Il nostro teatro rappresenta l’inclusione di ogni possibilità.
MTC: A proposito del rapporto tra visualità e parola, in diversi casi avete affiancato al vostro lavoro in scena una bibliografia, i libri su cui avete costruito il vostro spettacolo: la scelta appariva quasi spiazzante in Sonora Desert (2021), il meno “verbale” dei vostri lavori (“un ambiente di vibrazioni sonore, luminose e cromatiche”, lo definite nella presentazione), che prevedeva alla fine un incontro fisico con i molti volumi letti nella fase di ricerca e elaborazione. Dunque, anche per voi “in principio era il Verbo”?
MI: Sì, assolutamente, per noi è sempre stato così. In principio è sempre stato il Verbo e subito dopo il tentativo di dare forma a quello che ancora non c’è. Abbiamo sempre avuto un rapporto profondo con la parola, sia nella forma scritta che in quella orale; il primo amore è verso il linguaggio allo stato puro; da lì in poi cerchiamo di dare vita, ogni volta, a universi da esplorare. “Questo è un mondo che esiste solo qui”, ci ha detto giusto una settimana fa una giovane spettatrice di Sonora Desert.

In Sonora Desert la bibliografia è presente nella forma di una sala che chiude il viaggio dello spettatore, l’abbiamo chiamata Sonora Hall ed è ispirata alle hall dei motel in Arizona. Una grande moquette, cuscini, un neon blu, una tisana calda e decine di libri: un luogo di decompressione e approfondimento, dove il visitatore può restare quanto vuole prima di rientrare nel mondo. Volevamo che gli spettatori di Sonora Desert fossero nostri compagni di viaggio fino in fondo; che potessero fruire dell’esperienza a partire da una posizione di libertà e di scelta; ma che successivamente potessero confrontarsi con tutta la letteratura e i materiali di lavoro alla base del percorso, così da poter sovrapporre al viaggio esperienziale, interiore e profondamente emotivo, una forma di razionalizzazione dello stesso. Come quando si torna, appunto da un viaggio importante, e si sente il bisogno di approfondire ciò che si è scoperto. Da questo punto di vista, il “verbo” di questi libri, che per noi è stato motore iniziale, diventa possibilità di ulteriori scoperte: ci piace l’idea di moltiplicazione di senso, di condivisione orizzontale di materiali che, è chiaro, non appartengono a nessuno e appartengono a tutte/i allo stesso tempo.
MTC: Veniamo ad Ashes. Da dove vengono queste “ceneri”? In che modo l’idea di un fuoco passato e di quello che ne resta si mette in relazione con la vertigine vocale che i quattro attori – Marco Cavalcoli, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli e Ivan Graziano – scaraventano sul pubblico? (Tra l’altro proprio qui avete omesso la bibliografia…).
MI: Per parlare del tempo non potevamo evitare di sprofondare nella dimensione sonora: è il suono che abita il tempo più di ogni altra cosa. Il suono inizia a sparire nel momento esatto in cui appare, dura esattamente il tempo della sua esistenza, proprio come noi. Suono, parola, respiro, pneuma, la delicatezza della vita, tutto ciò che è, sarà o è stato, condivide la leggerezza di un fiato ed è attraverso le incarnazioni vocali dei performer che proviamo ad evocare la vertigine del tempo, dove nulla passa, perché tutto accade nello stesso momento. Cadiamo nel mondo urlando e prima di trasformarci in altro emetteremo un ultimo respiro. Arianna, Marco, Monica, Ivan restituiscono voce e dunque vita a tutto ciò che è accaduto o accadrà in un punto preciso dello spazio, inutile e importante come tutti gli altri.
La dimensione acustica possiede uno straordinario potere immaginifico. La parola, il suono, possono creare visioni molto più potenti di quelle fornite dalle immagini. Ci si può impossessare di un suono, si può essere posseduti da un suono in maniera molto più definitiva di quanto accada con un’immagine. In ogni suono esistono un’infinità di inter-relazioni, in ogni suono risuonano memorie emotive specifiche con le quali ogni singolo spettatore può entrare in risonanza in maniera unica e personale. Il fischio di un treno in lontananza, pur mantenendo la traccia di un treno specifico, diventa per me il treno che sentivo dalla mia cameretta nei solitari pomeriggi estivi di trenta anni fa. Per te?
“Ashes to ashes we all fall down!”: si chiude così Ring around the Rosies, la versione inglese del nostro Giro giro tondo. L’immagine della cenere ci rimanda alla ciclicità del tempo: tutte le filastrocche con i loro ritornelli, le ninne-nanne che ci cantavano da bambini o che cantiamo oggi ai nostri figli per farli addormentare senza paure, sono incantesimi che lanciamo contro lo spauracchio del tempo lineare che passa e tutto fa sparire. Ceneri alle ceneri, tutto nasce, vive, muore e rinasce ancora.

MTC: Volendo, in Ashes è possibile leggere una trama: una famiglia, marito e moglie, genitori e figli, amori tradimenti dolori, riti e abitudini. Eppure l’aspetto più interessante del lavoro è l’avere posto sullo stesso piano le frasi banali che ci diciamo ogni giorno e i suoni gutturali che vengono dalla nostra preistoria, una fase tra l’altro ben più lunga di quella che siamo abituati a considerare per la nostra “umanità”. È un modo per lasciar intendere che le parole dicono meno di quanto crediamo? E come questo si accorda con la vostra idea di teatro?
MI: Tutto è importante e banale allo stesso tempo, perché tutto accade nella stessa maniera: il pianto di un bambino appena nato e il gracidare di una rana, il rantolo di un uomo che soffoca e il grido di chi sbatte l’alluce contro uno spigolo.
Quando pensiamo alle nostre vite, siamo abituati a definirle passando in rassegna quelli che riteniamo i momenti importanti: nascite, morti, innamoramenti, incontri, perdite. In Ashes c’è tutto questo. Ci sono i dinosauri, quelli passati e quelli che torneranno in futuro, ci sono i funghi e le meteoriti; ma c’è anche tutto ciò che, delle nostre vite, normalmente tendiamo a dimenticare, perché lo consideriamo ininfluente, non fondamentale. Le prime parole che pronunciamo al risveglio, il modo in cui piangiamo o ridiamo, le frasi che ripetiamo ogni giorno, sempre nella stessa maniera, senza rendercene conto, il modo in cui salutiamo qualcuno. Ogni giorno, vivendo, produciamo un archivio effimero di segni che svanisce senza lasciare traccia, che nessuno si preoccupa di trattenere o di salvare, ma che fa di noi quello che siamo molto più dei grandi pensieri che amiamo produrre. È il quotidiano che ci rende parte del tutto; è nel quotidiano che possiamo costruire una barriera all’inesorabile scorrere del tempo che tutto distrugge. Come afferma la filosofa polacca Jolanta Brach-Czaina nel suo saggio Bustle: “Perché il quotidiano non è solo una laguna sicura e poco profonda di noia indisturbata, ma anche il mezzo stesso con cui viviamo, il luogo di una battaglia insidiosa, profonda e intransigente tra le forze dell’esistenza e dell’annullamento […]. Tutti i nostri affari quotidiani, insipidi, apparentemente privi di significato, privi di peso, sono tuttavia ciò che ci permette di prendere parte alla guerra finale nel suo svolgersi”.
Questa indagine sulla quotidianità come arma di difesa nei confronti di un tempo che non si riesce più a comprendere e a contenere è al centro della riscrittura delle Tre sorelle di Cechov sulla quale stiamo lavorando in questi giorni e che debutterà a maggio prossimo nella stagione del Teatro di Roma.

MTC: In apparenza i due vostri ultimi spettacoli, Sonora Desert e Ashes, si pongono agli antipodi: da un lato un’esperienza dove lo “spettatore” si immerge da solo in una culla di luci e colori e suoni, dall’altro un allestimento che pare tradizionale, frontale, gli attori in scena, gli spettatori in platea, pronti ad assorbire un flusso di parole. Eppure, lo avete detto voi stessi, la matrice è la stessa. In che modo? E quanto conta la cesura imposta dalla pandemia? Sembrava un evento destinato a cambiare il mondo, ma oggi ci si chiede se davvero è così. E per voi?
MI: Ciò che è agli antipodi si tocca profondamente. Sonora Desert e Ashes sono stati concepiti e sono cresciuti nel periodo pandemico, per entrare nel mondo subito dopo. Muovono dalla stessa ricerca, dalle stesse domande e dalle stesse paure: come fare a sconfiggere l’inesorabilità del tempo lineare? Quali altre possibilità può mettere in campo la performance per abbracciare altri ordini del tempo? Come salvare ciò che appartiene al nostro passato? Come fare a non avere paura?
Malgrado i formati completamente diversi, sono entrambi viaggi che abbiamo costruito perché fossero pienamente a disposizione dello sguardo altrui; in entrambi i casi abbiamo voluto comporre drammaturgie che potessero trasformarsi nella storia di ognuno. Sonora Desert e Ashes sono visioni da fare proprie, singole stelle brillanti che diventano costellazioni negli occhi di chi guarda. I viaggiatori di Sonora Desert e gli spettatori di Ashes cadono dentro di loro, in profondità; il viaggio che proponiamo è al centro di noi stessi, di tutto ciò che ci rende esseri umani e fa di noi quello che siamo: in primis, la maniera in cui ci relazioniamo al tempo.

La pandemia ci ha costretto a fare i conti con noi stessi. Ci ha rinchiuso nelle nostre case e ci ha messo di fronte ai nostri demoni. Sonora Desert, così come il suo alter-ego radiofonico, Sparizioni, che nasce dagli stessi materiali di ricerca, reagiscono a quella straordinarietà improvvisa. Piuttosto che sentirsi in gabbia, abbracciare pienamente la controra, quel tempo vuoto avverso all’attività operosa, per provare a compiere i viaggi più grandi, quelli desiderati a lungo, quelli mai veramente intrapresi, quelli che non faremo mai: il deserto di Sonora, la Luna, il nostro inconscio, le case che abitiamo senza rendercene conto.
La pandemia ci ha cambiato molto di più di quanto non pensiamo, e sicuramente ci vorrà ancora del tempo perché tutto ciò che deve affiorare affiori. Siamo abituati a pensare che tutto accade velocemente, e dunque ci stupiamo del fatto che oggi ci sembra di essere ripiombati nella vecchia società pre-pandemica, come se non fosse successo nulla. In realtà, stiamo ancora abitando un tempo sospeso. Oggi la nostra responsabilità di artisti e di esseri umani è quella di trattenere il respiro e cercare più che mai di guardare con la maggiore attenzione possibile quel che è semplicemente qui, quello che si offre a noi nella presenza delle cose.

Muta Imago
Ashes
nell’ambito di Danae Festival
Domenica 23 ottobre ore 20.30
Teatro Out Off, Via Mac Mahon 16 Milano
ingresso € 10/ 12
acquista il biglietto
In copertina: una scena dallo spettacolo Sonora Desert, foto di Andrea Macchia