Emilio Villa futurpreistorico. Sui saggi di Aldo Tagliaferri

20/10/2022

Il lettore salonnier faziosamente interessato alla questione delle arti figurative si chiederà se nella planimetria dei Presentimenti del mondo senza tempo – sospirata raccolta che fa il punto su un trentennio abbondante di studi villiani di Aldo Tagliaferri – sia previsto almeno un salottino per la pinacoteca informal-gestuale di Emilio Villa, un cantuccio appartato e indiziario riservato al mestiere di critico d’arte. Scorrendo l’indice dei sedici capitoli, i riflettori argomentativi sembrano puntati prevalentemente sulla produzione in versi, dalla Letania per Carmelo Bene ai rapporti agonistico-intertestuali con Rainer Maria Rilke e con James Joyce. L’unica eccezione riguarda il dodicesimo capitolo (Emilio Villa alla riscoperta dell’America da Rothko a Duchamp), precedentemente pubblicato in Emilio Villa e i suoi tempi. Finestre per la monade. Nonostante l’apparente sproporzione quantitativa, però, il discorso sull’arte attraversa l’intero palinsesto di Tagliaferri in forma di paragone, sintomo, contrappunto e allarme, in una fedeltà a quella «dismisura» villiana che rende azzardata qualsiasi tassonomia cesarea tra poesia e prosa d’arte. La scrittura di Villa, osserva Tagliaferri, «intende travalicare ogni paratia disciplinare e fondere il linguaggio poetico e critico con l’immagine visiva», in piena continuità con il «fratello spirituale» Marcel Duchamp – un’agnizione tarda ma fondativa nell’acronica discendenza degli antenati di Villa, quel clan eccentrico di nonni fraterni e filiali genitori che Tagliaferri via via convoca per nome durante la complicata decifrazione del testamento villiano che, oltre a un lascito ereditario, è una genealogia irradiante.

In un ipnotico «meticciamento» dei referenti e dei linguaggi, in cui Eraclito convive con Lévi-Strauss e la copertina della Bibbia sfiora quella dell’Erotismo di Bataille, Tagliaferri sembra provocare il lettore costringendolo a un interrogativo sistemico: c’è qualcosa che si possa realmente separare tanto nella scrittura di Villa quanto nelle scritture su Villa? È verosimile distinguere tra campo critico e campo poematico? L’impressione è che alcuni attributi della retorica villiana («il pun, l’allitterazione, il paradosso, il Witz, la deformazione e la contaminazione linguistiche, l’invenzione di parole-baule, l’uso indifferente di diverse lingue») contagino senza sosta i rispettivi lessici specialistici, al punto da rendere impossibile risalire a un primum gerarchico tra i due idiomi-origine. A proposito dello screening di quelle tracce-scintille «di un nulla “divino”» occultate nelle opere di Manzoni o Lo Savio, ad esempio, Tagliaferri registrerà un’espansione parallela degli stessi temi «anche nei testi poetici». Villa, insomma, si nutre delle «intuizioni» disseminate dai ‘suoi’ artisti qualora gli «permettano di prolungare la propria esperienza labirintica», come un carburante per mantenere ben lubrificata la macchina della scrittura.

Gli stessi Attributi dell’arte odierna (il volume edito proprio su iniziativa di Tagliaferri nel ’70 da Feltrinelli, che però non realizzò mai una promessa seconda parte: per leggere la quale s’è dovuto attendere il 2008 del restauro, presso la collana «fuoriformato» Le Lettere, da parte sempre di Tagliaferri) assomigliano a un prosimetro critico che cannibalizza ritmi e stilemi allotropi, da un ‘rimosso semitistico’ giovanile a quegli «aspetti psicologici, simbolici o antropologici» della creazione artistica isolati da Flavio Fergonzi nel 2017, in un saggio sulla Lingua dell’arte contemporanea 1945-1960. L’aspetto quasi imbarazzante degli Attributi è proprio il cortocircuito che viene a istituirsi tra una «strumentazione retorica desunta da testi sacri, dai mistici e dai libri sapienziali orientali» e la lucidità di un’indagine altamente professionalizzata, sebbene mai subordinata ai cerimoniali «paralitici» dell’accademichese.

Per alcuni artisti-ponte sarà lo stesso Villa a spalancare la comunicazione tra i vasi stilistici, come avverrà, ad esempio, per Alberto Burri, dedicatario tanto di interventi comparsi negli Attributi quanto di un’oscura Sibylla poetica. Come notifica Tagliaferri, «in questo caso particolare la poesia si salda con il discorso critico», in una condivisione interattiva di parole-chiave, esplicitazioni materiche e intime simbologie che costruiscono una «rete di significati erotico-misterici» ben riconoscibile. Del resto, non è raro che il modello ‘sibyllino’ disveli una «contaminazione di elementi visivi e letterari», tanto a livello di singoli lemmi quanto sul piano dell’impaginazione verbo-visiva: Villa non si risparmia certo nel praticare «il meticciato tra intervento materico, segnico e linguistico». Nondimeno, Tagliaferri dissuade gli interpreti più incauti dall’appiccicare alla testualità abissalmente ‘pasticciata’ di Villa l’etichetta di «poesia visiva», difendendo dalle generalizzazioni classificatorie l’approccio sghembo e anti-generazionale che caratterizza l’«agone della visualità» villiano. A differenza del collage praticato dalle avanguardie storiche e dalla poesia concreta e visiva di autori come Stelio Maria Martini o Luciano Caruso, Villa si avvicina alla parola-immagine «secondo modalità graduali», in una «caotica contaminazione segnico-materica» più vicina al gesto dell’iscrizione lapidaria o rupestre che non al calligramma e alla giustapposizione dadaista di cartigli. Il disegno fa capolino come incursione provvisoria di gemmazioni pre-verbali (ma già infestate dallo spettro del Linguaggio), una sorta di graffio sul Nulla che non ha niente da spartire con la mera esecuzione estetica o tipografica.

Nelle Sibyllae, invece, scrittura e iscrizione, linguaggio e performance della parola sembrano convergere verso un punto d’indistinzione in cui gioco verbale ed espansione grafica diventano firme complementari apposte sul medesimo «patto (foedus) che il poeta aveva stabilito con la sibilla». Il legame con Burri, il «profeta della matericità», viene recuperato da Tagliaferri a proposito delle 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, campionando le reciproche affinità (di codice) e divergenze (di occupazione degli spazi culturali e di collusione con il mercato). In generale, nel quarto capitolo (Incontri e scontri esemplari nell’approccio villiano alla modernità) si susseguono alcuni ritratti villiani di pittori, da Nuvolo a Matta. Qui Tagliaferri smaschera una tendenza bipolare nella prosa d’arte di Villa, «interprete-cantore degli artisti da lui ammirati» e spesso investiti del lusinghiero (ma paralizzante) ruolo di «araldi dell’eternità». La standardizzazione di un’apparente idolatria viene stemperata, però, dallo sforzo concomitante di isolare i «caratteri specifici» delle rispettive poetiche. Nei saggi d’arte è come se la litania monologante di Villa sentisse l’urgenza improvvisa di arrestarsi, creando alcuni intervalli di ricreazione in cui lasciare spazio e parola non soltanto all’altro ma alla contingenza-mondo di cui l’altro si fa portatore. Per questo l’occasionalità di certi ammiccamenti referenziali, piuttosto che essere interpretata soltanto come inchino alla convenzione della committenza ecfrastica, deve essere giudicata come una strategia interna allo stile di Villa, che ha bisogno di sporcarsi di materia plurale e di empiria per risalire al regno solitario degli archetipi.

Di fronte alle immagini, Villa si comporta come un traduttore di linguaggi, un decifratore di geroglifici iconografici. Quello che parla, nel quadro, non è mai il plot o il soggetto ma quegli indizi collaterali che si distribuiscono ai bordi del contenuto: il retro abissale (il «soggettile» artaudiano) e la superficie, la pellicola epidermica su cui si rapprende il puro colore, il gesto, l’abrasione, quei «grumi polisemici» che, in Heurarium, avevano «smantellato le funzioni referenziali delle parole». Per descrivere questo differimento dell’immagine, Tagliaferri adopera, coniandola, la categoria di «ecfrasi inceppata». A proposito del testo sui dipinti di Antonio Vangelli, una «cosmologia inventata dal pittore e indagata da Villa» (ma i due verbi potrebbero produttivamente invertirsi), l’individuazione di uno scenario labirintico è contesa tra l’atto di effettiva osservazione (il labirinto tracciato da Vangelli) e la sua immediata agnizione cannibalizzante all’interno della famiglia allargata (e incestuosa) dei labirinti villiani.

Villa non descrive mai i quadri, creando «didascalie strutturalistiche» o istruzioni per l’uso, ma tratta le tele come presentimenti, corollari dimostrativi, al massimo come oggetti-totem in bilico tra la sacralità del gesto e la mummificazione in simulacri da appendere in salotto. Tagliaferri ha parlato addirittura di una «peculiare forma di ecfrasi elaborata come continuazione-effrazione dell’opera artistica», che espande il corpo del manufatto facendolo coincidere, di fatto, con quello del reale ma inserendo nei suoi tessuti la necrosi del Niente, l’assillo della «pagina bianca», del trou, del buco-ferita. Tutto diventa organico affinché tutto possa essere artaudianamente ferito; soltanto così il «lavoro artistico» diventa «lavoro del lutto», non feticcio da contemplazione ma sacrificio terminale per rimettere in gioco l’arte, recuperando un «rapporto tollerabile» (in quanto assoluto) «con la Storia». La Pop Art, per Villa, è uno strumento inservibile proprio perché troppo colluso con il nemico, la cosa mercificata, la cronachetta, la pubblicità. All’accidente bisogna contrapporre il mito, al citazionismo isterico l’inesausta stasi della «sublimità longiniana».

Una questione urticante e ancora irrisolta degli Attributi riguarda, infine, il problema dell’alterità. Villa sembra riuscire a ‘divinare’ l’essenza profetica del quadro soltanto attraverso l’ossimoro di uno sguardo bendato, di un dialogismo senza colloquio. Come sottolinea Tagliaferri, per Villa non conta «una presunta dimensione dialogica (sia pure di un dialogo con una voce amica)» ma soltanto la «portata onnipresente dell’enigma». Eloquentemente, Tagliaferri definirà l’incontro con Burri «esemplare nel senso che Villa trasforma l’opera dell’amico in una occasione per traslare e innestare nel campo delle arti visive due pilastri della propria poetica» (vale a dire l’«esaltazione dell’atto irripetibile, gratuito in quanto fondato sul nulla» e il ruolo di ‘demiurgo dei segni’ assegnato all’artista). Anche a proposito di Nuvolo, Tagliaferri noterà come l’«originalità segnica e coloristica» del pittore venga provvisoriamente riconosciuta e fissata, prima di «essere presto travolta dal perentorio rinvio alla questione dell’origine e all’enigmaticità dei misteri greci, non senza un tocco di partecipazione autobiografica». Il precipitato pittorico rappresenta, per Villa, una semplice occasione; né l’incendio né la carica esplosiva ma la miccia, il fiammifero che sporge casualmente dalla tasca di un passante. Come si legge nel celebre passo che consegna gli Attributi al dominio inequivocabile della saggistica vampirizzante: «Per me si tratta di documentare […] una azione di natura strettamente abissale, non di saggi sui nomi indicati. I nomi che ci sono non sono scelte di valore […] ma solo cadute, casualità, irritazioni, impennate, scatti, spari. […] In questo magma c’è un nome solo, ed è il mio, gli altri sono più o meno fittizi, come supporti».

Assistiamo, così, a un coup de théâtre: l’intero sistema apparentemente polimorfo, iper-linguistico e plurimediale di Villa non fa capo ad altra «lingua che non sia il villiano», la polifonia si scoglie in una roca monodia mortifera. «Il lenzuolo confezionato dal singolo artista cambia, il fantasma resta», sentenzia Tagliaferri – e la parola «fantasma» ricorre, con diverse sfumature filosofico-psicanalitiche, in tutti i saggi dei Presentimenti. Il trou è sempre il trou di Villa, sia che si tratti dei fori praticati sulle tele da Fontana o Burri sia che si tratti, come suggerisce attentamente Tagliaferri, dei buchi neri della fisica più moderna e accessoriata.

L’attenzione di Villa viene spesso catturata non tanto dal risultato-opera ma, piuttosto, dalla prassi comunicativa e dalla «mens generale» del singolo artista. Il «francese selvaggio» di certe poesie di Villa, osserva Tagliaferri, sembra bloomianamente «gareggiare con la parola esaltata di Artaud e con la tecnica combinatoria di Duchamp». Non è nelle descrizioni visionarie dei quadri-attributi ma nel dominio trascendente dei linguaggi che Villa, in fondo, accorda all’alterità un margine d’espressione. Per esorcizzare (e, alternativamente, invocare) il Nulla, la voce nuda di Villa non basta. Ogni cerimoniale è collettivo, l’iniziazione prevede una comunità di sodali, una pratica socializzata che assicuri un futuro al copione degli scongiuri e degli incantesimi rituali. È significativo che la vulgata di un autore-monade, esorbitante e irriducibile a qualsiasi consorteria generazionale, venga in parte contraddetta dal brusio di nomi e intrecci (di esistenze e di biblioteche) che si affastellano a ogni pagina dei Presentimenti. La società, per Villa, esiste, dolorosamente ma esiste; soltanto che coincide con una piccola comunità di artisti, «sacerdoti di una “Rêve-Elation”» a venire. I pittori e scultori accolti nel suo «pantheon pittorico personale» si trasformano istantaneamente in co-officianti, intermediari accidentali di una religiosità confluita, per qualche transfert secolare, nel dominio laico della creazione. L’artista «eredita lo statuto paradossale del sacro» rendendo la propria opera «il luogo di transito di un’energia», memoria fossile di un passato che è ancora necessario riattivare. L’«attributo» del gesto plastico deve trasformarsi in un «tributo» alla divinità-linguaggio che presiede a qualsiasi operazione immaginativa.

Se «il linguaggio causa retroattivamente il reale», insomma, il quadro causa retroattivamente la cosa, la pennellata non è altro che l’origine postuma del reale e di ogni sguardo sul reale. Fino a quando i sacerdoti dell’arte manterranno acceso il focolare «futurpreistorico» della modernità, la parola potrà vincere il braccio di ferro con l’afasia che sempre rinnova l’invito alla sfida millenaria. Se poi l’avversario sarà la bergmaniana Morte, il Kairos o, semplicemente, il Tempo, si scoprirà soltanto alla fine della partita.

Aldo Tagliaferri
Presentimenti del mondo senza tempo. Scritti su Emilio Villa
a cura di Gian Paolo Renello
Argolibri, 2022, 348 pp., € 18

In copertina: Alberto Burri, Combustione C7, 1959

Chiara Portesine

(Genova, 1994) Sta svolgendo un dottorato di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, con un progetto intitolato "Il problema dell’ekphrasis nella poesia sperimentale del secondo Novecento: definizioni e proposte per un’antologia digitale".
Si è occupata, in particolare, di Emilio Villa, Corrado Costa, Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, mentre i suoi attuali interessi di ricerca riguardano il rapporto tra letteratura, arte e fotografia, e l’impatto dei nuovi media sulle riflessioni teoriche e sulla prassi poetica del Gruppo 63.

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