L’ombra rischiara. Su Domenico Brancale

18/10/2022

Oggi, alle ore 18, presso la Libreria Popolare di Via Tadino (Via Tadino 18, MIlano), sarà presentato l’ultimo libro di Domenico Brancale, “Dovunque acqua sia voce”, appena uscito per le Edizioni degli animali. Con l’autore dialogheranno l’editore Riccardi Corsi e il poeta Tommaso Di Dio. 

«Rinunciare a scrivere è scrivere questa rinuncia». Così Domenico Brancale, nella sezione Acque alte di Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli animali, 2022). Ai suoi occhi, la rinuncia non è via della rinuncia ma demonstratio, gestualità creaturale a fronte di un cedimento. In questo libro il poeta perimetra l’atto dello scrivere, concettualizza con intuizione millimetrica la performatività dell’atto poietico-linguistico, insofferente alle scorciatoie rappresentative – «Mi annoia ogni forma di descrizione. Descrivere è nascondere le cose nella parola».

Quasi una teoria estetica, ‘non-sistematica’ nel senso più piano del termine, il libro di Brancale, che non è nuovo alla realizzazione di opere nell’ordine del frammento riflessivo, estetico, argomentativo. Già nel 2013, in stretto rapporto con la raccolta poetica Incerti umani (realizzata da Passigli nello stesso anno), il poeta pubblicava con l’editore Effigie il testo spezzato di Controre, dialogo sordo tra un’identità lirica e le crepe dello svolgersi del suo tempo – dei suoi protagonisti amati come Hervé Bordas, dedicatario, e Giacinto Cerone.

La sola arte che possa veramente scuotere è quella che rende cieco, sordo e definitivamente muto l’uomo. La sabbia. Il massimo comune dicitore.

Tra le pieghe, il petalo del tuo ultimo silenzio non sarà mai letto.

A volte i libri si realizzano. La realtà mai.

Controre prefigura, in questo senso, Dovunque acqua sia voce, opera in cui la sovraesposizione del pensiero alla costante simbolica dell’acqua corrode ogni tassonomia possibile nel discorso filosofico. C’è una memoria della prosa cvetaeviana in questo tratto, del suo incedere inconfondibile in Il poeta e il tempo. Non solo: c’è il De Angelis di Poesia e destino, il Carifi – quasi dimenticato – de La piaga del nulla. C’è il sentimento cioraniano di una disperazione che non azzera, ma orienta. C’è il senso di compromissione del corpo del Cocteau di La difficulté d’être, la sua categorizzazione isterica del gesto. Scrive Brancale:

Non esiste ispirazione senza espirazione, è una questione di vocali e di respiro. L’ispirazione viene dall’esterno da ciò che conosciamo (è un fenomeno che potremmo dire attivo) mentre l’espirazione scaturisce da dentro di noi, dalla parte oscura e ignota (è un fenomeno passivo). E poi esiste l’aspirazione, ancora un’altra vocale in gioco, un altro respiro, che sarebbe il tentativo di legare l’espirazione all’ispirazione. La poesia è una sorta di matrimonio tra il cosciente e l’incosciente. Per rinnovare l’ispirazione è necessario questo dialogo tra dentro e fuori.

Dovunque acqua sia voce è continuo approntamento, disposizione preparatoria senza fine. Nella riflessione del poeta, la persona e l’atto dello scrivere sono ormai irrimediabilmente scissi. L’acqua non è più «voce» assoluta ma è nel qui, nel dovunque inteso come nodo che stringe pensiero e momento. Brancale scrive così da un luogo in cui sono saltati i nessi riflessivi e la disposizione critica. Scrive dallo spazio dell’acqua – e, come ricorda: «solo mani che smuovono l’acqua possono scrivere». Solo l’essere nell’acqua può significare scrivere davvero: la sua visione è quella di una poesia che si totalizza nel corpo. Il libro si chiude così con la sezione Da nessuna parte mai, dove la scrittura adotta come propria la verticalità formale del verso e si definisce in dieci composizioni inedite, estrinseche, quasi a latere dell’opera poetica di Brancale – di cui prefigurano una direzione prossima.

Si dimentica solo ciò che non esiste.
Nelle parole si annida il vissuto.
Fra me e me il tempo delle grate
corre la luce dei giorni senza avvenire.
Nessun inchiostro si scioglie nel sangue
nessuna creatura cresce il suo seme.
L’indimenticabile è nel vivo
rode il cervello
può avere inizio
per essere fuori dall’essere.

Poesia come kenosi, ma kenosi imperfetta, incompleta, perché dipendente dal gesto. Brancale scandisce il concetto senza proporre assiomi. Autoimplica la fallibilità del proprio dire ammettendo, nello spazio del libro, un elemento intrinsecamente portatore di contraddizione – quello del vivere biografico. Compaiono così gli anni trascorsi accanto a John Giorno, la vicinanza a Castor Seibel (spentosi nella sua adorata Francia il 26 luglio scorso) e a Giacinto Scelsi, «armonia di un tempo rivendicato». Compaiono le date e i riferimenti spaziali del cammino, il corpo amato dell’altro come unica deriva a cui tendere. Compare l’idiosincrasia – di artaudiana memoria – per la concezione dell’identità come frutto da sottoporre.

Sono stanco dell’identità. Se esiste un’identità, questa è sempre in movimento, in farsi e disfarsi. Fuori dalla narrazione. Scrivere l’identità. Scrivere al di là della cronaca. Scrivere au-delà parlando con l’aldilà. Il dialogo, il vero dialogo nella poesia avviene con i morti. Scrivere poesia è dialogare con i morti. I morti sono più vivi di noi.

«Fuori dalla narrazione». Altrove scrive: «la vita che non si racconta sei tu». Identità è sì presenza, ma presenza non raccontata. È abitare a latere – muoversi come a Venezia (dove il poeta risiede) su camminamenti stretti. Muoversi, oltre che tra gli spazi, tra i momenti. Nella sezione Una questione di date Brancale ingaggia una discesa di tempo, narrandosi in equilibrio tra le pagine di calendari.

Oggi ho esattamente l’età che aveva Paul Celan una sera di novembre del 1965. Ho quarantacinque anni. Ho tutto il passato davanti a me.

La coincidenza anagrafica è per lui spazio di incontro, teleologia di una coabitazione transitoria – non dell’esser-ci, ma di un esser-ci.  Per Paul Celan, il 20 gennaio è il giorno in cui «ogni poema rimane iscritto» – il 20 gennaio della Endlösung, il 20 gennaio in cui Büchner muove il cammino di Reinhold Lenz (un 20 che risuona, annota il poeta, anche negli aprili del 1945, nascita di Hitler, e del 1970, momento del suicidio dello stesso Celan). Per Brancale, il momento esiziale è quello del 23 novembre – data in cui, nel 1980, si colloca nella sua memoria la prima «poesia degna di ricordo»: il terremoto che smuove la terra della sua Basilicata. Non solo:

Il 23 novembre del 1920 è il giorno in cui venne alla luce, a Czernowitz, la voce di Paul Antschel, vero nome di Paul Celan. Il mio primo ricordo della poesia appartiene a Paul Celan. Il 23 novembre ritornerà sicuramente nella mia esistenza. A questa data è votata la sorte di ogni mio inizio.

Se questo essere-ci è movimento d’acqua, indispensabile all’atto performativo – contrario dell’essere-io – dello scrivere, dove si collocano le nostre fondamenta? Brancale non lo dice. Forse per insofferenza, forse per la più volte dichiarata stanchezza, forse per disinteresse, non affronta la questione. Ancora una volta, tuttavia, risolve il nodo per contrarietà: il fondale che manca nella parola, la sabbia che soggiace all’acqua, è immagine.

Dovunque acqua sia voce raccoglie al suo interno una serie di acquerelli di Miquel Barceló – artista già esposto negli spazi della Galerie Bordas di Venezia, per la quale Brancale cura la collana Prova d’artista. Le gradazioni di blu Barceló, la somma zero di un bianco onnipervasivo eppure non spiritualizzato, sistemano la base per intendere il senso dell’invisibile, di una fissità identitaria mancante, di cui il poeta scrive nella sezione Destino di sale. È nella ritrazione, la risposta: nel retrocedere di un Io che scrive, ma mai due volte la stessa lettera – in epigrafe si legge «non ci si bagna mai due volte nello stesso libro / e non si può leggere due volte una frase nel medesimo stato».

L’apparato di Barceló è così riflessione sulla consistenza dell’identità nell’acqua: carotaggio dei livelli di superficie e fondo per interrogarne le radici. La totalità aurea dell’icona, affermazione d’immensità senza commisurazioni possibili, diventa dettaglio liquido, figura dotata di area e di tempo.

C’è una qualità d’immateriale, nel lavoro di Barceló, vicina alla teoresi spirituale paolina – la stessa di cui Dante recita nel ventiquattresimo canto del Paradiso: «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi». Spogliata dal termine del divino, la poiesi artistica di Barceló concepisce un’identità che trae la propria definizione dall’assenza di fissità – negata. La certezza della consistenza di ciò che manca all’identità, per l’artista, è affermata dalla mancanza stessa.

Nello scritto di Brancale, così, l’essere-io esiste, ma esiste unicamente nella certezza che deriva dall’immagine, dai livelli di colore che figurano l’acqua come estremità possibile. In questo senso, le poetiche dei due si compenetrano. Rendono il senso contraddittorio di un sovrapporsi di serrature – spalancate o chiuse, a seconda della volontà di raccontare [traditrice] e l’attualità del farlo, negandosi. Una traccia di risoluzione possibile è lasciata, ancora, in Acque alte: «La scrittura forma l’illusione che c’è in te. Alla fine l’ombra rischiara».

Domenico Brancale
Dovunque acqua sia voce
con acquerelli di M. Barceló
Edizioni degli animali, 2022
pp. 148, € 18,00

In copertina: particolare di uno degli acquerelli di Miquel Barceló che accompagnano il libro. © Miquel Barceló (per gentile concessione dell’artista)

Stefano Bottero

poeta e letterato, è nato nel 1994. Vive a Venezia, dove svolge un dottorato di ricerca all’Università Ca’ Foscari. Collabora con periodici italiani ed esteri come saggista e traduttore. Ha vinto il premio Città di Como per la sua opera prima, «Poesie di ieri» [Oèdipus, 2019]. È stato allievo di Biancamaria Frabotta. Scrive di estetica e poesia contemporanea.

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