Riunirsi sott’acqua
Il 17 ottobre 2009 quattordici funzionari del governo delle Maldive firmano un documento in difesa del loro Paese, minacciato dall’innalzamento del livello dell’oceano. Un atto geopolitico che oggi, a tredici anni di distanza, nessuno ricorderebbe e che, in realtà, non avrebbe mai fatto notizia se non fosse stato per l’iniziativa dell’allora presidente Mohamed Nasheed. La sua idea ha del colpo di genio: allestire un ufficio, con tanto di tavoli, sedie, targhette segnanome e bandiere tra i quattro e i sei metri sotto il livello del mare. Una vera e propria stanza dei bottoni sottomarina, in cui mancano solo le bottigliette d’acqua perché, in un medium umido in cui non è possibile respirare a pieni polmoni, bere acqua è sinonimo di annegare.
Immersi nella laguna blu turchese attorno all’isola Girifushi, in genere utilizzata per esercitazioni militari, a venti minuti di barca dalla capitale Male, i funzionari, dotati di maschere e respiratori, sono accompagnati da giornalisti e istruttori subacquei; molti di loro hanno seguito un corso d’immersione ad hoc per partecipare a questa riunione. Lo scopo non è quindi l’osservazione del fondo marino, sebbene in mezzo ai tavoli spuntino fuori i coralli per cui le Maldive sono famose, ma la ratifica di un documento ambizioso. Ci si impegna, nero su bianco, a rendere il paese a emissioni zero in dieci anni, “trasformando la sua economia basata sui combustibili fossili in una basata esclusivamente sulle energie rinnovabili e sulla tecnologia verde”[1] – invitando altresì le altre nazioni a ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.

L’underwater cabinet meeting o Consiglio di governo sottomarino dura circa mezz’ora, al termine del quale il presidente 43enne viene intervistato ancora a mollo appena emerge in superficie. Il messaggio è allarmante e cristallino: “Dobbiamo unirci in uno sforzo da guerra mondiale per fermare un ulteriore aumento della temperatura. Il cambiamento climatico è in atto e minaccia i diritti e la sicurezza di tutti gli abitanti della Terra. Dovremmo riuscire a trovare un accordo amichevole che permetta a tutti di sopravvivere. […] Se le Maldive non possono essere salvate oggi, non crediamo che ci siano molte possibilità per il resto del mondo”[2].
Nei fatti questo arcipelago paradisiaco nell’Oceano indiano composto da 26 atolli e 1.192 isole si erge in media a un metro e mezzo sopra il livello del mare; il punto più alto, 15 metri, è in realtà un cumulo di spazzatura. Un metro e mezzo: due volte la scrivania su cui sto scrivendo. Il suo destino è legato all’innalzamento del livello del mare, che non è una calamità ma un fattore di natura antropogenica. Siamo davanti a una parabola crudelmente perfetta di come funziona il capitalismo: un arcipelago – ma alcuni geografi preferiscono parlare di acquapelago – abitato da tremila anni, paga le conseguenze delle politiche energetiche dei maggiori paesi industriali, spesso gli stessi che implementano il turismo nelle Maldive, maggiore risorsa economica del Paese. Dal delicato ecosistema marino dipende la sussistenza degli abitanti quanto l’afflusso di turisti nei resort di lusso.
La riunione acquatica cade in un momento propizio: due mesi dopo, a Copenhagen, inaugura la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP15). Le Maldive sono il fanalino di coda, parte delle cosiddette LDC, Least developed contries. Il dialogo tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo si conclude, al di là delle buone intenzioni, senza accordi vincolanti. Non a caso sin dal 1990 è attiva l’Alliance of Small Island States (AOSIS), una rete di 39 piccole isole che subiscono la stessa minaccia; marginali nello scacchiere geopolitico, rivendicano un ruolo attivo nelle negoziazioni sul clima a livello globale.
Portano così l’attenzione internazionale sul ruolo degli oceani nell’assorbire l’inquinamento atmosferico e sui pericoli legati alla loro acidificazione. La posta in gioco è alta: se gli oceani non assorbissero il 93% del calore prodotto sulla Terra, la temperatura media sulla sua superficie sarebbe di 122°F (riprendo questi dati dai biologi marini che intervengono nel documentario di Jeff Orlowski, Chasing Coral del 2017). Le Maldive sono già soggette all’erosione delle coste, alla diminuzione della fauna ittica, all’innalzamento della temperatura degli oceani, a un abbassamento del pH dell’acqua, alla salinizzazione e progressivo esaurimento delle scorte di acqua dolce, all’aumento di eventi climatici violenti e improvvisi…
Se le dinamiche internazionali sono complesse, Nasheed è consapevole che anche in casa la battaglia non è vinta, operando in un contesto sociale retrogrado: “Il ministro degli Affari islamico, Abdul Majeed Abdul Baaree, si preoccupa poco delle iniziative globali del presidente. Molti sostenitori di Baaree considerano lo tsunami del dicembre 2004 come una punizione di Allah per tutti i Buddha e gli idoli a seno nudo nei ristoranti thailandesi di Male”[3].
Gli eventi successivi fanno perdere fiducia nel genere umano: Nasheed, primo presidente eletto democraticamente da quando, nel 2008, ci sono le libere elezioni nel suo paese, è costretto a dimettersi per gli attacchi del vecchio regime, di fatto un colpo di Stato. Le calunnie costellano del resto la sua carriera sia giornalistica che politica, volta a una lotta alla corruzione, al cambiamento climatico, al traffico di droga al punto che, ormai prigioniero politico (viene arrestato dodici volte e torturato), troverà asilo nel 2016 in Inghilterra. Qui aveva studiato maritime studies all’Università di Liverpool[4]. Tornato in patria nel 2018, diventa presidente del Parlamento l’anno successivo, ma è vittima di un attentato il 7 maggio 2021, subendo quattro interventi chirurgici per estrarre i frammenti della bomba dai polmoni e dal fegato.
Appena riemerso in superficie dopo il Consiglio di governo sottomarino quel 17 ottobre 2009, qualcuno chiede al Presidente in carica cosa accadrà se non si troverà un accordo sulle emissioni di CO2 alla conferenza di Copenhagen. “We’ll all die!”, risponde sorridendo.

Performare la scienza
A interessarmi qui è la strategia adottata da Nasheed: il Consiglio di governo sottomarino, diffuso dai media internazionali grazie a una documentazione fotografica e video. L’oceano viene chiamato in causa non soltanto nel testo ufficiale, in cui sono esplicitati i pericoli per la vita marina e umana, ma è convocato in presenza – una presenza così imponente da necessitare un’immersione, un lasciarsi impregnare dal suo elemento, allo stesso modo in cui lo siamo dall’aria che passa fuori e dentro di noi quando siamo sulla terraferma.
Visiono su internet diversi filmati della seduta comunale: c’è qualcosa di irresistibilmente comico nell’osservare i politici mentre si aggrappano al tavolo delle trattative a causa della pressione dell’acqua, che rende straniante un’azione così semplice; mentre respirano attraverso le maschere d’ossigeno, emettendo colonne di bolle d’aria in mezzo a branchi di pesci pappagallo; mentre comunicano tra loro a gesti o grazie a una lavagnetta bianca. Ma c’è anche qualcosa di sensibilmente artistico.

Melody Jue, esperta di media studies, la considera come una performance speculativa, “performative science fiction” che “offre un’esperienza condivisa di vulnerabilità e scambio che drammatizza l’interfaccia come una condizione di saturazione, aiutandoci a meglio visualizzare gli effetti differenziali del cambiamento climatico e a creare risposte performative”[5]. Secondo T.J. Demos: “L’approccio innovativo di Nasheed al teatro politico richiama analoghi artistici che performano un’estetica della politica, riorganizzando creativamente ciò che può essere visto e ascoltato, registrato e distribuito”[6]. Un gesto performativo che mette in scena una questione climatica e geopolitica spesso ridotta – inefficacemente – a una pletora di numeri, grafici, proiezioni, mappature che se smuovono la ragione lasciano indifferenti gli affetti.
Gesto di grande semplicità e di sicura presa che riduce all’osso la messinscena e rifugge da ogni estetizzazione: questo e altro è il Consiglio di governo sottomarino, che ha il potere di ribaltare la ripartizione culturale tra l’acqua e la terra, di mostrare l’entanglement tra natura e cultura e di restituire all’oceano non solo una vaga presenza ma una materialità e una forza di agire incontrollabile in grado di minacciare la sopravvivenza umana.
Lo fa rimettendo in causa due assunti. Il primo è quello della terra firma, quella visione del mondo legata al medium atmosferico che rende tanto più incongrua la location di questo atto amministrativo. L’immersione nell’elemento da cui proveniamo in quanto organismi viventi ci rende coscienti di quanta distanza abbiamo creato tra noi e l’oceano in quanto spazio neutro e senza storia, invivibile e ingovernabile, remoto rispetto alla terra dove è fiorita la nostra civiltà, sebbene oggi l’oceano raccolga la spazzatura prodotta dal nostro stile di vita. Perché questa discarica liquida non si manifesta con la stessa evidenza del cumulo di immondizia in un angolo della superficie terrestre: anche il giorno in cui non ci sarà più vita marina, ci saranno ancora onde a increspare la superficie del mare.
Forse siamo ancora figli delle Théories stratégiques (1929-1935) dell’ammiraglio e teorico militare Raoul Castex, elaborate da Carl Schmitt. In Terra e mare (1942) il filosofo tedesco rilegge, in maniera schematica e tremendamente efficace, la storia della civiltà occidentale attraverso l’opposizione dialettica tra Terra e Mare: i pericoli che minacciano la stabilità della polis, e quindi della civiltà, provengono esclusivamente dal mare.
Il secondo assunto rimesso in causa dal Consiglio di governo sottomarino è la liquidazione del mundus inferior. L’immersione non è più sinonimo di nascondimento o rimozione ma una strategia per rendere visibili gli effetti del cambiamento climatico, costringendoci a scendere a patti con un mare che compone il nostro paesaggio alla stessa stregua della terraferma. Un modo, per dirlo altrimenti, di pensare con l’acqua, remando contro un pensiero terrestre che si è concentrato esclusivamente sul suolo, sulla sua fertilità come garanzia dell’espansione umana, sul suo essere l’unico spazio deputato alle relazioni sociali.
In fondo persino Gaia, la Terra come essere vivente, è ancora frutto delle nostre pulsioni terrestri. Per citare un evento recente (26 settembre), i fondi marini emergono all’attenzione e alle nostre coscienze solo in seguito agli atti di sabotaggio del gasdotto nel mare Baltico. Visualmente la cosa si riduce a un po’ di schiuma, non più minacciosa degli spruzzi di una fontana in un parco.

Nessuna calamità
Il Consiglio di governo sottomarino è stato avvicinato a quanto Slavoj Žižek propone in Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle grazie, 2011)[7]: immaginare la catastrofe futura come il nostro presente quotidiano, quanto dovrebbe indurci ad agire adesso per prevenire che questo futuro accada (un modello temporale debitore, mi sembra, delle riflessioni di Gunther Anders sul nucleare).
In tal caso, quello delle Maldive non sarebbe un semplice monito all’azione ma una performance prospettiva che ne accelera la sommersione, anticipa un futuro prossimo, meno lontano di quanto crediamo. Siano costretti a firmare documenti ufficiali sott’acqua e muniti di bombole d’ossigeno, suggeriscono i protagonisti di questa messinscena; ma anche: questa potrebbe essere la nostra – e la vostra – vita se le nostre – e degli umani in generale – isole saranno inghiottite dall’acqua.
Che le Maldive siano una futura Doggerland nell’Oceano indiano, per evocare la terra tra Inghilterra, Germania e Danimarca travolta dallo tsunami nell’ultima era glaciale? Che le Maldive saranno sommerse nel 2100 secondo i calcoli scientifici? Che gli attuali 340.000 maldiviani diventeranno la prima nazione di rifugiati climatici? È contro questa narrazione a senso unico, quella di una nazione sommersa in quanto calamità senza responsabili, contro questa rassegnazione che induce ad adattarsi a vivere in tali condizioni, senza che i modelli politici, economici e sociali che le hanno generate siano rimessi in causa, che reagisce Nasheed. “I Paesi sviluppati hanno creato la crisi climatica. I Paesi in via di sviluppo non devono trasformarla in una calamità”, afferma a Copenhagen (un intervento visibile e leggibile sul sito di “Democracy Now”). I maldiviani, questo il messaggio, non vogliono essere i protagonisti di una sperimentazione, specimen di un laboratorio sugli effetti della crisi climatica globale.
Il Consiglio di governo sottomarino, impegnandosi a rendere il paese carbon neutral, invita i paesi occidentali a garantire la transizione fornendo quella tecnologia necessaria che manca alle Maldive. Pratica così la giustizia ambientale, assente dalle campagne politiche dei maggiori paesi occidentali. Come Nasheed dichiara alla CNN il 7 dicembre 2009, il presidente John F. Kennedy annunciò al raduno alla Rice University di Houston (correva il 12 settembre 1962), che gli americani sarebbero andati sulla Luna. All’epoca mancava la tecnologia necessaria, eppure sette anni dopo erano lì. Faccio mia la conclusione di Nasheed: “Kennedy scelse di andare sulla luna. La nostra generazione deve scegliere di rimanere sul pianeta Terra”[8].
[1] Climate Change Demands Political Leadership, 7 dicembre 2009
[2] Maryam Omidi, Maldives sends climate SOS with undersea cabinet, in “Reuters”, 17 ottobre 2009. Il report più completo si deve ad Alexander Smoltczyk, Maldives President Leads the Charge against Climate Change, in “Spiegel International”, 30 ottobre 2009.
[3] A. Smoltczyk, Maldives President Leads the Charge against Climate Change, cit.
[4] Cfr. Jon Shenk, The Island President, un documentario del 2010 che purtroppo non sono riuscito a vedere.
[5] Melody Jue, Wild Blue Media. Thinking Through Seawater, Durham, Duke University Press, 2020, p. 69.
[6] T.J. Demos, Decolonizing nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology, Berlin, Sternberg Press 2016, p. 73.
[7] Cfr. M. Jue, Performative Science Fiction, in“Science Fiction Studies”, 45, 2018, p. 424.
[8] Comment: Climate challenge demands political leadership, 7 dicembre 2009.