Annette Kelm. Sopravvivere alla storia

“[…] Nessuno può avvicinarsi troppo al Führer”.

“Ma quelle foto che lo ritraggono in pubblico, circondato da donne e bambini?” [chiese Severin Braun]

“Oh, quelle…” Fritz [Rheiner] sogghignò. “Sono solo per la propaganda. La guardia personale ha perquisito precedentemente tutte le donne. Anche le persone che lo accompagnano nei cinegiornali sono selezionate una a una. E comunque, solo un uomo in Germania può stare vicino al Führer con una telecamera”.

“Chi è?”

“Heinrich Hoffman”, rispose Fritz. “Forse un giorno lo incontrerete. Pochi sanno che è l’amico più intimo del Führer, l’unico di cui si fidi”.

(The Man Who Killed Hitler, 1939)

In che modo le immagini contribuiscono a creare la memoria collettiva e individuale di un evento storico? Com’è possibile mantenere vivo il ricordo di quell’evento quando non ci saranno più altri testimoni, se non le immagini, a raccontarlo?

Oggi, all’apice di una vertiginosa accelerazione della produzione mediatica e visuale, ricordarsi che una narrazione per immagini, così come ogni tipo di narrazione, è parziale e orientata può sembrare banale e una preoccupazione di poco conto. Tuttavia, se rivolgiamo l’attenzione a eventi accaduti meno di un secolo fa – o persino negli ultimi vent’anni – ci rendiamo facilmente conto dei meccanismi con i quali la nostra mente archivia gli episodi traumatici che, si spera, abbiamo avuto la fortuna di non vivere sulla nostra pelle. Volendo riassumere all’estremo: per ripetizione e semplificazione.

Richiamando il ricordo di un avvenimento di portata storica, le prime immagini che affiorano alla mente sono quelle che potremmo definire ufficiali: quegli scatti o quelle riprese che i media di informazione hanno associato inesorabilmente a un determinato evento. Ma, come possiamo affermare con sicurezza pensando alle fotografie che tutti i giorni scattiamo con l’intento di conservare qualcosa nella memoria – dei dispositivi elettronici e della nostra mente –, un evento è molto più dell’immagine che lo rappresenta.

Il problema sorge nel momento in cui le voci che possono contestualizzare un’immagine, leggerla e interpretarla, o raccontare quell’evento secondo la propria esperienza, lentamente si esauriscono. A questo punto si rende necessaria la partecipazione di una pluralità di voci che contribuiscano, ognuna con la propria storia, a mantenere viva la memoria di quell’evento.

Annette Kelm. Die Bücher, installation view, Courtesy the artist, Fondazione ICA Milano, 2022, ph. Andrea Rossetti

Questa è solo una delle complesse questioni toccate dal progetto Die Bücher di Annette Kelm. Nata a Stoccarda nel 1975, berlinese di adozione, l’artista tedesca si è diplomata alla Scuola di Fotografia di Düsseldorf. Attraverso l’obiettivo di macchine fotografiche analogiche rivolge il suo sguardo prevalentemente a «nature morte dell’oggetto» quotidiano. Allestendo set meticolosamente costruiti, Kelm invita l’osservatore a porre l’attenzione su oggetti della quotidianità che, passando attraverso un processo di isolamento e ricollocazione in composizioni calibrate, assurgono a una «giustizia estetica» che li riabilita: oggetti prima marginali acquisiscono una dignità che consente loro di mostrarsi nel loro esistere.

Un’estetica pulita, la meticolosità nello studio degli allestimenti e nella realizzazione delle composizioni, la predilezione per scatti frontali e per un’illuminazione piana possono indurre a ritenere che il progetto, presentato per la prima volta in Italia negli spazi della Fondazione ICA Milano, sia una testimonianza lucida, oggettiva e distaccata di un capitolo gravoso e ancora aperto del passato della Germania. Il consiglio è quello di non fermarsi alle apparenze.

Annette Kelm. Die Bücher, installation view, Courtesy the artist, Fondazione ICA Milano, 2022, ph. Andrea Rossetti

Nello spazio espositivo al primo piano dell’ex edificio industriale, del cui passato i muri e le stanze portano ancora i segni della memoria, si susseguono 104 fotografie. Un fregio continuo di 104 cornici bianche ospitano al loro interno altrettante riprese frontali di copertine di libri come sospese su uno sfondo, bianco a sua volta, privo di ombreggiature. I libri (da qui il titolo del progetto) mostrano i segni del tempo: si tratta, per la quasi totalità, di prime edizioni di volumi pubblicati tra il 1913 e il 1944 in lingua tedesca che si distinguono per l’incredibile varietà della composizione grafica e per la vivacità dei colori. Su alcune copertine si possono riconoscere illustrazioni per bambini, altre mostrano collage fotografici che rimandano alla propaganda politica, su altre ancora sono presenti illustrazioni che riprendono le diverse estetiche promosse delle Avanguardie storiche, «l’arte degenere».

Se mai si potessero avere dubbi, Annette Kelm suggerisce un messaggio in modo poco velato. Entrando nella stanza espositiva più ampia ci si trova faccia a faccia con una copertina nera, su di essa solamente il titolo in lettere capitali color giallo: The Man Who Killed Hitler.

Annette Kelm, Anonymus, The Man Who Killed Hitler, 1939, 2020

Si tratta di un romanzo, pubblicato anonimo nel 1939 e ricondotto all’attrice Ruth Landshoff e ai giornalisti Dean Southern Jennings e David Malcomson e all’editore Georg Palmer Putnam, nel quale si narrano le vicissitudini del Dottor Karl Moeller, responsabile dell’ospedale psichiatrico Steinhof a Vienna. L’intento del protagonista è quello di riuscire a incontrare di persona il Führer per ucciderlo, così da mettere fine, secondo la sua idea, al dilagare dei soprusi e degli atti inumani che hanno portato anche alla morte della moglie. Per raggiungere il suo obiettivo, il dottore dovrà agire sotto le mentite spoglie di Severin Braun – esponente delle camicie brune – e sarà costretto a mettere continuamente in discussione i propri limiti morali, sebbene sembri non mostrare alcun dubbio in merito alla necessità di uccidere Hitler e al miglioramento che tale gesto porterebbe.

Ogni copertina, ognuna con la sua estetica, racconta qualcosa di ciò che è racchiuso tra le pagine che custodisce; ogni immagine presenta delle specifiche caratteristiche identitarie che inducono il visitatore a passare da una all’altra senza imporre un percorso obbligato. Ogni copertina ci ricorda che dietro a quell’opera c’è un autore, una persona che l’ha pensata, scritta e ha consegnata a un pubblico. Ogni libro rappresenta una voce, una voce che, in un determinato punto della storia, una civiltà evoluta, in pieno sviluppo sociale e culturale, ha cercato di mettere definitivamente a tacere.

È il 10 maggio 1933, sono trascorsi pochi mesi dal crollo della Repubblica di Weimar, quella parentesi, durata poco meno di quattordici anni, durante la quale la Germania ha vissuto una fase di espansione artistica, scientifica e intellettuale che ha visto l’affermarsi di una pluralità eterogenea di voci e Berlino come motore di una rivoluzione culturale di portata europea.

È il giorno passato alla storia per i “rastrellamenti” di migliaia di libri prelevati da biblioteche pubbliche e private, per darli in pasto alle fiamme sulla pubblica piazza di decine di città tedesche. La loro colpa: le idee di cui si facevano portatori non erano sufficientemente tedesche. Non abbiamo a che fare con il primo rogo di libri della storia e neanche con l’ultimo. Un atto politico di condanna verso tutte quelle voci che si ostinavano a non conformarsi alla Voce del partito nazionalsocialista; un atto simbolico che ha influito sulla realtà e sulla vita degli autori, degli editori e di coloro che erano coinvolti nella pubblicazione dei volumi incriminati.

Annette Kelm, Erika Mann, School for Barbarians, 1938, 2019

Ogni fotografia presentata, ogni libro che Annette Kelm è riuscita a raccogliere, a immortalare e a ridare al pubblico nella sua veste originaria, attraverso un processo di ricerca complesso ed emotivamente estenuante che la impegna dal 2019, testimonia l’opera e con essa il suo autore, riportando l’attenzione su quanto si era tentato di oscurare.

L’artista racconta la storia da un altro, costruttivo, punto di vista: non quello delle fotografie e delle comunicazioni ufficiali – la cui realizzazione era interamente affidata a Heinrich Hoffman –, non quello delle voci dei rappresentanti politici che si sono macchiati di tale «gesto inumano», ma dal punto di vista delle vittime. Senza spettacolarizzazioni né commiserazione, senza gerarchie di autori o di genere, Annette Kelm li presenta allo sguardo del visitatore ponendoli tutti sullo stesso piano.

Annette Kelm. Die Bücher, installation view, Courtesy the artist, Fondazione ICA Milano, 2022, ph. Andrea Rossetti

E così, se personalmente ho avuto l’occasione di attraversare in solitudine le stanze che ospitano questo progetto, lasciando che il mio percorso fosse tracciato dall’attrazione verso parole, forme e colori, ora, ferma di fronte a quella copertina nera con le scritte gialle, sento che il susseguirsi di immagini ha lasciato il posto ad altrettante idee che autori ed editori hanno avuto il coraggio di sostenere, mettendo la propria vita a repentaglio. Ora, qui, non sono più sola ma circondata da persone che possono ancora far sentire la propria voce, malgrado tutto.

Annette Kelm, Die Bücher
a cura di Alberto Salvadori e Chiara Nuzzi
Fondazione ICA Milano
fino al 15 ottobre 2022

In copertina: Annette Kelm, Desert Plants, 2016, Archival pigment print (detail), Edition of 6, with 2 APs, courtesy of Andrew Kreps Gallery, New York

Laureata in Scienze dei Beni Culturali alla Statale di Milano e in Visual Cultures e pratiche curatoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera. Si prende cura di testi, immagini e opere d’arte senza limiti cronologici. Si interessa dello sviluppo delle tecnologie e delle modalità con cui vengono accolte in campo artistico. Ama insegnare matematica. Si divide tra Milano e le montagne del Lago di Como.

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