Oggi, 5 ottobre, inaugura la mostra del fotografo Andrea Botto, Landscape as Performance, all’INN-SITU/BTV Stadtforum di Innsbruck (fino al 21 Gennaio 2023), a cura di Hans-Joachim Gögl. Il catalogo, in tedesco e in inglese, contiene una conversazione del curatore con l’artista e un testo di Riccardo Venturi – Knall-Bilder – che pubblichiamo qui nella versione italiana.
Immagine-boom
Boom! Un boato lacera il silenzio di un paesaggio o, meglio, interrompe per un attimo, come un lampo a ciel sereno, quel sottofondo composto dal canto degli uccelli, dal fruscio della vegetazione mossa dal vento, dal riverbero delle macchine che sfrecciano su strade lontane. Se quel boato fosse meno forte, ci diremmo che è lo sparo di un fucile, l’arma che divide il cacciatore dalla sua preda e soddisfa la sua fame predatoria. Invece si tratta di dinamite, ovvero dell’ennesimo tentativo umano di farsi agente geologico, di modificare il paesaggio naturale e artificiale con qualsiasi mezzo a sua disposizione per estrarre risorse dal suolo, per attraversare da una parte all’altra una montagna, per ricostruire qualcosa di nuovo al posto di qualcos’altro diventato ai suoi occhi obsoleto. Perché le creazioni umane più sono contemporanee più invecchiano precocemente.
Se introducendo il tema della demolizione nella fotografia comincio dal rumore, è perché mi è difficile dire in cosa consiste visualmente un’esplosione, ammesso che qualcosa di preciso, con una sua identità specifica, sia offerto alla vista. Forse la soluzione, tutt’altro che evidente, è nel processo di distruzione perché, se si arriva troppo tardi, davanti al nostro sguardo si spalancherà un’altra scena o, meglio, due scene distinte a seconda del lasso di tempo intercorso.
La prima è quella della nuvola di fumo che visualizza, oltre alla distruzione in pieno corso, anche il vento, cioè la presenza invisibile degli elementi esterni. Alzandosi da terra verso il cielo, vela allo sguardo il crollo nella sua durata. Ma se il crollo è pensabile, giustamente, solo nella sua durata, solo in quanto durata, questo disturbo visivo rischia, in definitiva, di non farsi immagine del crollo ma mera esalazione fumosa. La seconda scena coincide col momento successivo, in cui la coltre di fumo si dissipa lentamente e, portata via dal vento, restituisce la terra alla terra e l’aria all’aria. Ripristina, per così dire, l’orizzonte o piuttosto l’idea che ne abbiamo, quello di una linea con una parte inferiore materiale e una superiore aerea. A questo punto non resta altro che un paesaggio di rovine, un cumulo di macerie che della deflagrazione e della struttura abbattuta non porta alcuna traccia. Solo lo sguardo archeologico, allenato a tener mentalmente insieme i frammenti, la saprà ricostituire nel suo stato precedente.
Ora, il fumo non è un incidente in cui si tenta di non incorrere quando è in gioco l’immagine fotografica di un’esplosione. È infatti necessario mostrare il fumo che si sprigiona dalla struttura mentre implode su se stessa, consapevoli però che ne costituisce anche la minaccia incombente e che questo stesso fumo non tarderà a farla scomparire.

Nella scena girata alla Solfatara da Roberto Rossellini in Viaggio in Italia (1954), il vapore che esala dalla terra porosa dei dintorni di Napoli trasforma lo schermo cinematografico in un monocromo biancastro, nelle cui brume si perde la protagonista. Non a caso attraversa un momento di grande fragilità esistenziale, amplificato da una civiltà mediterranea che sente estranea se non ostile e in cui la vita e la morte – che dovrebbero escludersi a vicenda – si ostinano a occupare gli stessi spazi. L’effetto monocromo dura pochi secondi, sufficienti tuttavia a trasformare le atmosfere di un film all’apparenza neorealista in quelle di un film astratto d’avanguardia.
Tocchiamo qui il problema della rappresentazione visiva dell’esplosione rispetto all’efficacia – quasi all’icasticità, se questo termine non fosse così legato alla visione – del boom sonoro. La detonazione è racchiusa in quel lampo infra-sottile tra l’innesto della carica e il fumo che avvolge la scena. È un evento effimero malgrado la forza – o la magnitudo per prendere in prestito un termine dai fenomeni sismici – della detonazione.
Dare un’immagine al boom, realizzare un’immagine-boom. Mostrare l’atto della distruzione o (ovvero) la distruzione in atto. Così possiamo riassumere la questione che preoccupa da molti anni il fotografo italiano Andrea Botto, perlomeno da quando, per un caso fortuito, gli viene affidata la fotografia di una demolizione vicino Reggio Emilia, su un tratto dove passerà il treno ad alta velocità Bologna-Milano. Da allora la questione del fotografico si confronterà, al di là di facili soluzioni, con quella della distruzione e poi dell’esplosione.

Il boom cui tende l’immagine si situa in uno spartiacque tra un prima e un dopo, tra il paesaggio naturale o urbano e la catastrofe che lo trasfigura per sempre. Ma l’immagine dell’esplosione, il suo evento, il suo accadere dovremmo dire per il suo rimando alla caduta, non coincide né con la coltre di fumo né con la documentazione del paesaggio di rovine. Né tantomeno, per citare un episodio capitale nella storia della fotografia, con le immagini dell’americana Operation Crossroads del 1946, dove la colonna di fumo e il tipico funghetto si fanno manifestazione visibile della potenza distruttiva dell’arma atomica; e tanto più la colonna è imponente e il funghetto rigoglioso tanto più geopoliticamente efficace. È ovvio che qui non hanno senso le sottigliezze, le difficoltà e i paradossi accennati riguardo al processo trasformativo messo in atto dalla distruzione e che riassumo così: come fotografare qualcosa che si sottrae in gran parte alla vista e s’inscrive in una durata intensa per quanto fugace? Come fotografare qualcosa che si manifesta pienamente solo nel suo accadere?

Intavolare l’esplosione
Landscape as performance, il titolo di questa mostra, contiene alcuni indizi preziosi. Anzitutto ci permette di renderci conto che l’immagine-boom, per quanto trovi la sua ragione d’essere in un’istantaneità interstiziale sospesa tra l’offrirsi e il celarsi allo sguardo, contiene più temporalità di quanto sospettiamo.
Ogni singolo scatto è infatti il frutto di un lavoro esteso nel tempo e sul campo, di una frequentazione dei cantieri, vere e proprie micro-società che Botto ha imparato a conoscere dall’interno nel corso degli anni. Ogni scatto è frutto di sopralluoghi alla ricerca di un punto di vista soprelevato e ideale, di calcoli e adattamenti rispetto alla distanza di sicurezza dal luogo dell’esplosione, la cui trasgressione costò cara a Plinio il Vecchio, per ricordare una vittima celebre a cui la curiosità eccessiva fu fatale.
Ogni scatto contiene inoltre la pre-visualizzazione del risultato finale, uno sguardo anticipato consapevole che, per quanto sapientemente calcolata la carica esplosiva, le demolizioni restano imprevedibili. Meno di un’eruzione vulcanica, certo, ma lontane da quel controllo cui aspira la ragione umana volta a eliminare l’aleatorio con una serie di conoscenze ordinate e rigorose cui ha dato il nome di scienza. Ci si avvicina al risultato finale per approssimazione, per gradi di indeterminazione, per familiarità con le potenzialità e i limiti del medium prescelto. Ci si avvicina all’immagine imparando a convivere col rischio di perderla, di vederla evaporare.
Ancora, ogni scatto contiene in sé, nelle sue stesse fibre, una lunga attesa vigile e affatto passiva, il fiato sospeso dei momenti che precedono l’esplosione, accompagnato dalla paura di mancare l’evento dinamitardo. O dalla consapevolezza che il processo è unico, irripetibile e irreversibile (tranne che al cinema), che basta una disattenzione o un indugio per mandare letteralmente in fumo la realizzazione dell’immagine. Perché dopo il boom, come accennavo, resta solo la nuvola di fumo e, in seguito, un ancor meno eloquente cumulo di rovine.
È forse per questa paura di perdere l’immagine, di farsela sfuggire come un animale senza guinzaglio che, in queste fotografie, l’esplosione è spesso restituita attraverso gli spettatori, testimoni oculari e auditivi dell’evento distruttivo al pari dell’obiettivo. È restituita attraverso uno sguardo collettivo che includerà d’ora in poi chiunque osserverà queste fotografie, noi inclusi. Se un’esplosione stravolge lo spazio circostante, anche lo sguardo ha il potere di modificarlo, di fare di un paese (pays) un paesaggio (paysage), per riprendere una distinzione cara al pensiero francese.
Il risultato finale è uno spettacolo collettivo di cui il boom è il catalizzatore e il culmine, e dove quanto lo precede non è tempo morto ma la stoffa genuinamente performativa del lavoro fotografico di Andrea Botto. Sotto tale aspetto, questa performatività corre parallela alla preparazione dei fuochini, un iter che giunge al suo acme con l’annuncio dell’esplosione, dato dal suono di una tromba acuta da stadio, da un conto alla rovescia o da un grido lontano. Ma che non è riducibile al bottone che viene schiacciato scatenando la detonazione.

Dilazioni temporali
Come fotografare un’esplosione? Dal punto di vista tecnico, l’operazione è così delicata che, per cogliere l’attimo propizio, Andrea Botto ha appreso a dosare frazioni di ritardo infinitesimali, a collegare la macchina fotografica a un ritardatore, a collaborare con gli operai che costruiscono un rifugio per la fotocamera nel caso delle esplosioni sotterranee per la costruzione di un tunnel.
A tal fine, compulsa i manuali d’istruzione tecnico-scientifici dei fuochini che, privi di velleità artistiche, svelano segreti preziosi dell’oscuro mondo pirotecnico. Sono libri spesso datati, risalentiagli anni sessanta, come dimostra anche la grafica e le fotografie in bianco e nero che spiegano ad esempio come collegare la miccia al detonatore, e che Andrea Botto ha riattivato in alcuni ritratti o utilizzato come materiale documentario che accompagna le sue mostre. Penso anche a Molti fuochi ardono sotto il suolo. Di terremoti, vulcani e statue del vulcanologo Marcello Carapezza che, assieme a Franco Barberi e a Lennart Abersten, nel 1983 ha progettato di deviare il flusso di lava dell’Etna in eruzione in un canale artificiale grazie all’uso degli esplosivi. Un raro caso di sfida tra fuoco naturale e fuoco artificiale.
In fondo, come ci accorgiamo anche sfiorando le complesse questioni tecniche, è come se il momento dell’esplosione, il boom!, sia meno un dato che si manifesta, un dato spontaneo, che qualcosa da produrre. Perché l’immagine è naturalmente priva di un corrispondente fedele del punto esclamativo, puro gesto vocale ai margini del linguaggio articolato. E chi, guidato da un controllo maniacale del dispositivo mediale, si ostina a voler ottenere immagini “da punto esclamativo”, si ritrova a manipolare tecnologie di precisione che promettono invano un’aderenza totale al momento di creazione-distruzione, alla creazione distruttiva o alla distruzione creativa, a quei big bang in miniatura indotti dalla mano umana.
Andrea Botto sa invece che, quando la fotografia prende come oggetto l’esplosione, non si può andare al di là di un certo livello di precisione, e che tale scarto insanabile ricalca quello dell’inattingibile momento zero della creazione esplosiva, dell’immagine-boom. Malgrado la tradizione del momento decisivo resa celebre dalle images à la sauvette di Henri Cartier-Bresson e a volte identificato come il quid dello stesso gesto fotografico, l’evento è qui assente – siamo destinati ad anticiparlo o a posticiparlo. Perché uno scatto fotografico che coincidesse con l’innesco del detonatore, col momento esatto dell’esplosione non mostrerebbe nulla, una realtà fossilizzata incapace di dar libero corso all’esplosione che contiene in potenza. Del resto il momento dell’esplosione è denominato, nel gergo tecnico, volata – e ciò che riguarda il volo si può al limite sezionare in diverse fasi cronologiche, come i fotografi del XIX secolo hanno dimostrato, ma non cogliere nella sua fluidità.
Il balletto temporale tra il prima e il dopo attraversa la storia della fotografia nel momento in cui è chiamata a farsi testimone della distruzione e dell’esplosione. A ricordarmelo è Andrea Botto con due celebri esempi: quello di Charles Marville, chiamato dal barone Haussmann a fotografare Parigi prima delle demolizioni di alcuni quartieri nel 1855 ca. In questo caso, si fa ricorso a un fotografo e non a un pittore per registrare quanto scomparirà dalla memoria urbana e presto anche cittadina. A questa serie fotografica si oppone quella di Roger Fenton, primo reporter di guerra che, nello stesso 1855 in Crimea, riprende i campi di battaglia dopo che questa è già terminata. Si tratta di due estremi coevi che si pongono rispettivamente ex ante ed ex post unevento di distruzione, mostrando così, al cuore della pratica fotografica sin dai suoi esordi, la difficoltà di registrare la trasformazione nel suo svolgersi. Ma mostrando così anche il ruolo del documento fotografico davanti alla radicale trasformazione di un paesaggio.

Genealogia pirotecnica
Ora, alcune delle questioni qui toccate non sono specifiche della fotografia, del contemporaneo o dei manuali tecnici di pirotecnica, ma si ritrovano già nella storia della modernità. Botto ricorda la tradizione popolare dello Scoppio del Carro che si svolge la domenica di Pasqua tra il Battistero di San Giovanni e la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
A me viene da pensare alle stampe, ai disegni, ai manoscritti e ai libri illustrati sui fuochi d’artificio e la pirotecnica. Qui infatti troviamo quella duplicità militare e ludica che è difficile districare in modo inequivocabile, come ha ben mostrato il curatore americano Kevin Salatino in Art incendiaire. La représentation des feux d’artifice en Europe au début des Temps modernes (Éditions Macula 2014, edizione ampliata e riccamente illustrata rispetto all’originale inglese del 1997).
Da una parte i resoconti delle Feste di fuochi adottano un linguaggio bellico, per quanto sia chiaro che si tratta di una guerra giocosa, di un giocar a fare la guerra, a mimarne i gesti ma non il potere distruttivo. Dall’altra vi è un uso politico della pirotecnica volta a mostrare i fasti del potere in carica: l’ordine viene ristabilito attraverso il caos momentaneo che si scatena in cielo. Di più: il pubblico viene impressionato attraverso una sapiente orchestrazione del caos che mostra il trionfo dell’artificio sulla natura, ovvero la trasfigurazione se non la sublimazione del paesaggio naturale e urbano grazie all’artificio. La stabilità è così riaffermata attraverso un evento fugace che fa del mondo esterno il palcoscenico dell’azione umana.

È curioso, ma un fenomeno così effimero e dispendioso diventa strumento di propaganda, di ostentazione e di opulenza, di prestigio. Secondo una visione sclerotizzata della terra e del cielo, il potere terrestre afferma la sua superiorità nei e sui cieli. Una versione spettacolare della domesticazione del fuoco, in cui si offre l’illusione di controllare ogni aspetto dello spettacolo pirotecnico. Una volontà di controllo che portò persino a costruire teatri al chiuso di fuochi d’artificio, come quelli nei Paesi Bassi alla fine del XVII secolo.
Insomma, la doppia funzione militare e ludica sembra connaturata agli spettacoli son et lumière, come si riscontra nella quasi omofonia tra Marte e Arte o tra Homo pugnans e Homo ludens, tra artificieri dell’esercito e fuochini – Giani bifronte che giocano col fuoco.
Ora, uno degli aspetti più interessanti della genealogia moderna della pirotecnica è la sua messa in immagine. Come dimostra Salatino, siamo davanti alla rappresentazione sistematicamente infedele delle feste dei fuochi, per ragioni di propaganda politica, certo, ma anche pratiche. Le incisioni erano infatti realizzate prima degli spettacoli o a partire da disegni di terzi, raramente da testimoni oculari e auditivi dell’evento.

È nei resoconti scritti, nelle lettere e nei diari in particolare, che si trovano testimonianze più veritiere e trapela persino il fallimento di alcuni eventi gloriosi passati alla storia. Madame du Deffand scrive una lettera a Horace Walpole riguardo ai fuochi d’artificio a Versailles per celebrare il matrimonio di Luigi XVI con Maria-Antonietta nel maggio 1770 – un’occasione persa a causa della tempesta e del fumo eccessivo che impedisce di vedere l’evento pirotecnico. Un problema che abbiamo già incontrato e che non ha perso d’attualità. Ciononostante, osserva Salatino, persino le descrizioni tendono a essere in genere degli encomi, ad esempio quando ammettono la difficoltà a restituire a parole un tale spettacolo multimediale in cui concorrono musica, danza, teatro, giostre, feste, illuminazioni e fuochi d’artificio.
Anche per queste ragioni la rappresentazione visiva delle esplosioni diventa più importante dell’evento in sé: nelle stampe non c’è spazio per il fumo! L’azione degli elementi esterni, perturbatori della visibilità spettacolare e, soprattutto, della propaganda politica al cuore di tali festività, è tenuta a bada. La presenza del pubblico può essere dosata a seconda dell’occasione: sparpagliato e distratto rispetto a un evento lontano all’orizzonte; rapito e compattato al pari di un elemento architettonico; del tutto assente quando è il carattere simmetrico e ieratico degli edifici a prevalere. Infine, in una singola immagine viene restituito un evento temporale, per evocare la questione che ci ha tenuto finora occupati e che, come ormai evidente, ha una lunga tradizione.

Una tradizione che spazia, per citare un antecedente italiano, dall’architetto e maestro artificiere Giovanni Niccolò Servandoni, inviato alla corte di Londra per celebrare la fine della guerra di successione d’Austria e la pace di Aix-la-Chapelle nel 1749 fino all’arte contemporanea: da Dennis Oppenheim (Fireworks pieces, 1972) a Gordon Matta-Clark che, nel 1975, contatta la ditta Controlled Demolition Inc. per un’eventuale collaborazione; dal cinese Cai Guo-Qiang al francese Mathieu Pernot al giapponese Naoya Hatakeyama e così via.
Geologia dei media
Se a un primo livello di lettura l’opera di Andrea Botto ha come soggetto le demolizioni, a un secondo livello ha un carattere meta-fotografico, ovvero è una riflessione per immagini sullo stesso dispositivo fotografico. In conclusione, vorrei suggerire un terzo livello meno evidente e che si presta a ulteriori elaborazioni.
Guardare queste fotografie è infatti anche assistere a un dialogo tra due sostanze chimiche: da una parte le reazioni fotochimiche che rendono possibile lo sviluppo, il fissaggio e la stampa dell’immagine fotografica, dall’altra la dinamite scoperta da Alfred Nobel nel 1866. Due processi chimici si specchiano, uno crea, l’altro distrugge, uno fa clic!, l’altro fa boom!. Due istanti dalla cui fusione dovrebbe nascere un’immagine. Se questa lettura è valida, allora Landscape as performance mette in scena una vera e propria geologia dei media.
L’aspetto inatteso è che, stando così le cose, cioè riconosciuto il dialogo che la materia intraprende con se stessa, il ruolo del fotografo traballa, indeciso sul ruolo che svolge davanti a una performatività della materia che si attiva con un piccolo aiuto, come il fuoco fa con la miccia. Come se in questi scatti delle demolizioni a saltare in aria non fosse solo il paesaggio ma, per quanto allegoricamente, lo stesso fotografo.
Andrea Botto, Landscape as Performance
INN-SITU BTV Stadtforum
Innsbruck, Austria
dal 5 Ottobre 2022 al 21 Gennaio 2023
catalogo Fotohof Edition
In copertina: ©Andrea Botto, Blast 02, Brenner Base Tunnel, 2020, courtesy Ghella