Ecosistema è il termine con cui, notoriamente, vengono descritte le opere di Pierre Huyghe (Parigi, 1962). Una definizione che, se da un lato strizza l’occhio all’interesse sempre maggiore suscitato dall’allarmante condizione ecologica, dall’altro costituisce un termine “ombrello” utilizzato per tentare di definire la complessità mutevole che contraddistingue tali creazioni. Le parole tendono però a semplificare la realtà, come l’artista francese sa bene.
Huyghe non è interessato all’oggetto in sé, quale prodotto finito di un processo di creazione artistica. Le sue indagini sono incentrate sulle relazioni, su quei collegamenti, più o meno evidenti, più o meno diretti e mai uguali a se stessi, che si stabiliscono tra organismi viventi, elementi inerti e tecnologici che entrano nel campo di azione delle sue installazioni ambientali: situazioni che l’artista imposta minuziosamente per lasciarle libere di evolvere spontaneamente.
Diagrammi e omotetie
Le ricerche svolte dal 2016 dalla studiosa francese Flora Katz all’interno dell’archivio newyorkese di Pierre Huyghe hanno consentito di fare chiarezza su come l’artista procede nelle fasi di progettazione dei propri lavori.[1] Da questi studi è emersa l’importanza dei «diagrammi» — schemi realizzati a mano da Huyghe — e dei materiali, visuali e fotografici, fonte di ispirazione per la definizione e la realizzazione di tali opere. Questo materiale progettuale eterogeneo viene raccolto e variato a più riprese seguendo libere associazioni, utili all’artista per delineare quello che dovrà essere il risultato finale.
I diagrammi sono mappe, difficilmente decifrabili nella loro interezza, che tracciano le complesse relazioni che intercorrono tra i diversi elementi agenti negli «ecosistemi Huyghe». Flora Katz li definisce come «spazi di conoscenza», delle possibili chiavi di lettura per opere che agiscono fugacemente e sfuggono qualsivoglia forma di determinazione fissa.
Ma facciamo un passo indietro e allarghiamo la visuale per guardare all’intero corpus di opere di Huyghe allo stesso modo nel quale i coniugi Eames guardano al pianeta Terra nel cortometraggio The Power of Ten (1968).
In questa prospettiva è possibile affermare che la modalità appena descritta non solo consente all’artista di concretizzare le proprie opere — portare le proprie idee nella realtà delle cose —, ma rappresenta una caratteristica propria del suo lavoro tout court. Si tratta di uno schema operativo che Huyghe applica su scale diverse: nelle singole fasi di progettazione e di realizzazione delle opere; nei legami che si creano tra elementi che agiscono nello stesso ambiente; nell’evoluzione delle relazioni che le singole parti del corpus stabiliscono tra loro nel tempo in quanto somma delle esperienze precedenti, sia tra un’opera e l’altra che tra un’installazione in larga scala e l’altra. Tale ricorsività ricorda le strutture frattali presenti in natura: sono caratterizzate da omotetia interna, dalla ripetizione su diverse scale di figure ricorrenti. Ma questa non è che la punta dell’iceberg.
I lavori di Huyghe sono assimilabili a delle «entità viventi». Essendo concepite come individualità che intessono relazioni con altre opere — passate, presenti e future, dell’artista o realizzate da altri, che si tratti di frammenti di narrazioni passate, testi letterari, composizioni musicali o elementi di diversa natura — si contaminano e, nella trasformazione, variano il proprio significato aggiungendo riferimenti e stabilendo nuove legami, anche retroattivamente.
Come ecosistemi naturali, si tratta di situazioni in continua evoluzione, nelle quali ogni componente contribuisce alla determinazione di caratteristiche precipue. La progettazione delle opere di Huyghe comprende la definizione di un sistema di relazioni, anch’esso in continua trasformazione, nel quale ogni elemento coinvolto influenza ed è influenzato dagli altri. Questo complesso intreccio è anche espressione di un’esplicita urgenza che non può più essere ignorata: la necessità dell’artista di allontanarsi dalla narrazione universalistica e dal tradizionale contesto riduzionistico occidentale che, per secoli, hanno orientato lo sguardo, le coscienze e la condotta delle società. Per questo relativizza il punto di vista e mostra che esistono altri modi di guardare alla realtà, al mondo e agli altri individui.
Ma come rappresentare, e come comprendere, una realtà indeterminata e in continua trasformazione nella sua complessità?
Parole e immagini non sono adatte, come afferma l’artista: «nella traduzione […] si perde sempre qualcosa. Bisogna trovare un principio di equivalenza, altrimenti è una tragedia»[2]. Anche la conoscenza puntuale di ogni componente dell’insieme non è una soluzione esaustiva: il sistema non corrisponde alla mera somma delle sue parti e, in ogni caso, terminata l’analisi sarà mutato.
Caratteristiche principali delle opere di Huyghe sono dunque la sfuggevolezza, l’impossibilità di essere afferrate nella loro totalità e l’assenza di punti di riferimento codificati che guidino lo sguardo di un osservatore che, gettato nel mezzo di tale situazione, realizza di non ricoprire un posto privilegiato al vertice di una teorica piramide esistenziale che concepisce il reale come asservito alle sue necessità.
Il confronto con questa situazione stimola «la percezione acuta e immediata di un’eterna incomprensibilità»[3]: così l’essere umano realizza di non essere altro che una delle molteplici parti di un ecosistema che lo ignora, di non avere alcun controllo sull’ambiente circostante, nella certezza che l’opera non gli si rivelerà nella sua totalità. Solo così potrà guardare al mondo con occhi diversi e cambiare il suo approccio all’ambiente e alla realtà.

Uno sguardo al metodo
Con L’Expédition Scintillante. A Musical, esposizione ospitata dal 28 settembre al 24 novembre 2002 nella Kunsthaus di Bregenz, l’artista progetta «la sceneggiatura di una spedizione»[4], lo scenario visuale di una viaggio di ricerca collettivo che possa ispirare ed essere preparatorio per un eventuale futura esplorazione: tre ambienti rappresentano tre momenti — la traversata, l’incontro, e la rielaborazione dell’esperienza — di un immaginario viaggio. Come consuetudine nelle opere di Huyghe, non sono previsti testi di accompagnamento, nessun appiglio per il visitatore, solo un booklet alla fine del percorso, consente uno sguardo alle metodologie dell’artista.
Suddiviso anch’esso in tre atti, il volumetto raccoglie riflessioni sull’ipotetico musical e alcuni dei materiali (frasi, affreschi, frontespizi di libri, ecc…) selezionati da Huyghe tra quelli utilizzati in fase di ideazione. Lungi dal realizzare un testo descrittivo, l’artista intende stimolare il processo di immaginazione del visitatore con indizi che consentano di stabilire delle coordinate, del tutto soggettive e variabili. Sfruttando meccanismi propri del modo con il quale l’essere umano si relaziona al mondo che lo circonda, Huyghe vuole condurre l’osservatore a ragionare sulla relatività della realtà e dei punti di vista, e sullo scarto che intercorre nell’esperienza di uno stesso evento vissuto da individui diversi.

L’Antartide: la verità e il ghiaccio
Tra il 2002 e il 2006 Pierre Huyghe realizza una serie di opere accomunate dalla tematica del viaggio nelle isole dell’Antartide. Si tratta di lavori di diversa natura: il progetto per un musical su una futura spedizione, il reportage documentaristico di un viaggio che (non?) si è svolto, la pubblicazione del racconto di quello stesso viaggio, un concerto al Central Park di New York e un inatteso incontro ravvicinato.
La destinazione non è casuale: l’Antartide è stata considerata per secoli terra incognita, un continente impossibile da mappare con i moderni strumenti di rilevazione cartografica perché interamente ricoperto dal ghiaccio. Solo l’avvento dei satelliti ha reso possibile tracciarne l’area; una zona in continua mutazione che si espande, si ritrae e modifica i propri confini senza sosta: uno spazio che non si riesce a far rientrare nei rigidi schemi della geografia tradizionale e della civiltà occidentale; una terra incontaminata, in cui i punti di riferimento definiti dalla scienza perdono di finalità e di significato. Un ambiente, immerso nel bianco, dove regna il «nulla»: non vi è polis a cui opporsi e la natura non è addomesticabile.
L’unicità delle condizioni meteorologiche, la resistenza alla cattura formale in sistemi di conoscenza e rappresentazione visiva codificati, rendono l’Antartide il (non)luogo ideale per affrontare questioni legate alla topologia attraverso l’arte: l’irrisolutezza, l’assenza di definizione delle coordinate delle opere, e di conseguenza del viaggio, è fondamentale per lasciare aperta la possibilità a future alterazioni e personali interpretazioni. Questo contesto consente a Huyghe di far emergere il carattere di soggettività e di relatività di due entità che si è erroneamente portati a vedere come fisse e monolitiche: la realtà e la verità.
Al primo piano della Kunsthaus di Bregenz, pioggia, nebbia e neve cadono incessanti negli spazi espositivi. Il loro andamento è riepilogato — o previsto — in una tabella disposta sulla parete. L’artista nei suoi schemi parla di «logbook ceiling», poiché il resoconto delle condizioni meteorologiche è tratto da The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket (1838), il cui frontespizio è presente nel booklet della mostra. Qui Edgar Allan Poe (1809-1849) si fa portavoce delle avventure del marinaio, dando alle stampe il suo diario di bordo.
Trasportando dati di verità oggettuale (gli eventi atmosferici che Pym avrebbe vissuto nel suo viaggio) nell’ambito della finzione letteraria (il racconto di Poe), il loro statuto di oggettività viene messo in discussione: dati scientifici divengono verità presunte. Huyghe estrapolando le informazioni dal testo di Poe fa in modo che tali condizioni atmosferiche si verifichino realmente all’interno degli spazi della Kunsthaus, sotto gli occhi dei visitatori, attribuendo loro uno statuto di realtà e consentendogli di rientrare tra le verità oggettive.
Il gioco al confine tra verità e finzione non è che all’inizio. Il 9 febbraio 2005, l’artista francese, con un gruppo di esperti e collaboratori, parte per una spedizione di ricerca nelle isole dell’Antartide. Molti sono gli elementi di questo viaggio che risignificano l’esposizione del 2002 — o forse è la precedente esposizione a essere un modo per avvalorare ciò che viene raccontato del viaggio? — stabilendo un complesso intreccio di relazioni nel quale la percezione di ciò che è reale e ciò che è fittizio viene continuamente messa in discussione e lasciata aperta all’interpretazione dell’osservatore.
A testimonianza delle vicissitudini affrontate vi sono le riprese simil-documentaristiche che confluiranno — insieme a quelle dello spettacolo musicale A Journey That Wasn’t. Double Negative (2005) — nella video installazione A Journey That Wasn’t (2005), e un dettagliato resoconto pubblicato nello stesso anno sulla rivista “Artforum International”[5]. L’articolo — come le riprese del resto — riprende le strategie autoriali di Poe: il racconto segue il percorso della nave rompighiaccio descrivendolo in forma quasi diaristica, in forte contrasto con un contenuto estremamente dettagliato e formale, tipico dei resoconti scientifici. L’attrito che si crea nel racconto di avvenimenti eccezionali in forma documentaristica, contribuisce a insinuare nel lettore il dubbio che, non solo la narrazione possa essere un racconto di fantasia, ma che il viaggio possa essere interamente una finzione.

Viaggiare senza partire
Il viaggio per Huyghe è nel quotidiano, è la continua trasformazione delle relazioni che ogni individuo stabilisce nell’agire; è una consapevole messa in discussione di sé e delle proprie sicurezze, dei propri punti di riferimento. Le opere considerate tracciano un percorso di conoscenza. Sin da L’Expédition Scintillante si nota una figura, un pinguino albino, che se dapprima non è altro che una silhouette bianca su un poster, successivamente acquisisce sempre maggior visibilità e importanza: è l’oggetto di ricerca della spedizione, è presente in primo piano nelle riprese del concerto ed è uno dei protagonisti dell’opera Terra Incognita/Isla Ociosidad, 2006, dove l’individuo si trova faccia a faccia con One, un animatron di pinguino albino a dimensione naturale.
Il pinguino, in un contesto culturale che concepisce l’opporsi di identità definite, rappresenta l’Alterità assoluta, la consapevolezza di qualcosa di «esotico», di un altrove, della possibilità di pensare in modo differente.
Eppure è per mostrare la mutua corrispondenza tra il sé e l’«altro da sé» che l’artista fa riferimento a teorie che comprendano la flessibilità e la variabilità delle relazioni. Huyghe si rivolge alla concezione topologica dello spazio, concezione che sposta l’attenzione dagli oggetti alle relazioni fino a sconvolgere le regole di trasformazione delle entità applicate nel contesto cartesiano-euclideo. Principio fondamentale di questa teoria sono le trasformazioni omeomorfiche: due luoghi, anche se concettualmente molto distanti, si rivelano identici se è possibile passare da uno all’altro attraverso una «trasformazione senza strappi» che mantenga invariate le proprietà caratterizzanti.
È in quest’ottica che il viaggio alla scoperta di un rarissimo esemplare di pinguino, tra turbolenze percettive e «zone di non-conoscenza», con l’ausilio di un improbabile richiamo per volatili – il San Francesco d’Assisi –, diviene un viaggio in se stessi, nelle proprie certezze e convinzioni, che porta l’individuo, richiamato dallo spettacolo dell’arte, a fronteggiare il candido One, incarnazione di tutto ciò che è altro da sé, ma che in realtà non è poi così diverso.
Così, ragionando per trasformazioni omeomorfiche, il cerchio si chiude: se il pinguino corrisponde alla sua terra di origine, e se l’osservatore si identifica nel pinguino, Huyghe sottolinea come l’individuo non sia un’entità definita ma un essere in continua metamorfosi, sempre uguale e diverso da se stesso. Sembra che Pierre Huyghe voglia invitare l’osservatore a coltivare gelosamente questa consapevolezza, continuando ad alimentare quel margine di possibilità e di negoziazione con l’Altro.
[1] Katz, Flora, Les notes de Pierre Huyghe, in Les mots de la pratique: dits et écrits d’artistes, Marseille, Le mot et le reste, 2018, pp. 259-277.
[2] Morton, Tom, Space Explorer: Tom Morton Interviews Pierre Huyghe, in «Frieze», 100, pp. 2-5.
[3] Barkin, Amelia, Parallel Presents. The Art of Pierre Huyghe, London, the MIT press, 2012, p. 210.
[4] Christov-Bakargiev, Carolyn, Pierre Huyghe, Milano, Skira, 2004, p. 92.
[5] Association des Temps Libérés, El Diario del Fin del Mundo: A Journey That Wasn’t, in «Artforum Intrnational», 43, 10, 2005, pp. 296-301.
In copertina: Pierre Huyghe, A Journey that wasn’t, 2005