Le parole in bottiglia

Se è un libro d’artista, la Psicoenciclopedia possibile di Gianfranco Baruchello (opus magnum che due anni fa stampò l’Enciclopedia Italiana, col fondamentale contributo grafico di Edoardo Visalli, compiaciutamente contraffacendo sé stessa sin nei dettagli di formato e impaginazione; solo sostituendo il colore rosso degli esterni – allusione al Libro rosso di Jung? – a quello severamente bruno degli originali) è il sommo, il definitivo, in molti sensi l’“ultimo”. Già in un appunto inedito d’una ventina d’anni fa, in effetti, scriveva Baruchello della sua «tentazione di unificare in una grande sintesi le fasi di lavoro, da quella iniziale (di quanto pensato) sino ad oggi, così da formare un unicum che potrebbe dirsi “finale”». Salutarmente contraddicendo questo assunto la Psicoenciclopedia ha già prodotto, in sintomatica disseminazione, una quantità di altri scritti (fondamentale, si capisce, la vera e propria monografia di Carla Subrizi – compagna di vita dell’artista e presidente della Fondazione che porta il suo nome – unita alla princeps: Psicoenciclopedia possibile note a margine. L’arte come esperimento del sapere).

Ora, in occasione dell’uscita di un’edizione “trade” dello stesso volume (che riproduce esattamente quella in 250 esemplari stampata nel 2020, nel frattempo entrata nella collezione del MAXXI: solo in formato leggermente ridotto, rilegata in brossura e con esterni virati in grigio: 848 pp., € 35), proponiamo l’originale italiano inedito della conversazione avuta con Baruchello, nel settembre dell’anno scorso, da Andrea Bellini: curatore della mostra Psicoenciclopedia possibile, al Centre d’Arte Contemporain di Ginevra da lui diretto, dal 15 settembre al 17 ottobre 2021 – e pubblicata in traduzione francese nel suo catalogo. Cortocircuito eloquente, quello di una mostra per intero dedicata a un unico libro, laddove in genere succede l’inverso: col suo catalogo appunto. Il quale, una volta uscito, parrebbe dimostrare la sorte codificata a suo tempo da Mallarmé – «Il mondo è fatto per finire dentro un bel libro» – che potrebbe ben fare da motto allo stesso livre di Baruchello. Ma lo stesso artista pare alludere al contrario, fra i molti e anche fra loro dissonanti modelli di questa sua operazione (ne parla a lungo Subrizi nell’ultimo capitolo delle sue Note a margine), all’enciclopedia “esplosa”, infinitamente disseminata e senza margini, che è il web: sicché questo nostro rilancio vuole contribuire a un’ulteriore disseminazione (ricorda sempre Subrizi che agli incontri del Gruppo 63 cui prese parte, quello del ’65 a Palermo e l’ultimo, tenutosi a Fano due anni dopo, Baruchello aveva previsto di fisicamente distribuire al pubblico frammenti di due opere “di montaggio” come l’epocale Verifica incerta e La quindicesima riga).

D’altra parte il «cerchio» cui rinvia l’etimo di en-ciclo-pedia può rinviare a un’idea centripeta, l’utopistica (e sempre un po’ terrificante) “raccolta di tutto il sapere”, ma anche al suo simmetrico contrario, e terrificante a sua volta, centrifugo: a una sfera che si espande indefinitamente. Due sicuri phares di Gianfranco sono Francis Picabia, che diceva «La nostra testa è rotonda per permettere al pensiero di cambiare direzione»; e Paul Valéry, che diceva «Conoscere è confondere». E le «parole in bottiglia», qui evocate dall’artista, non possono non ricordare l’«Oracolo della divina bottiglia» (iscritto in un calligramma, ossia una tondeggiante “poesia visiva” avanti lettera) del Quinto libro di un altro suo avatar, Rabelais (e meglio ancora, in effetti, ove si dimostrasse che quell’ultimo capitolo, postumo, è apocrifo). Il padre di Gargantua e Pantagruele aveva trovato il suo motto nella regola unica dell’Abbazia di Thélème, e poi ce l’aveva donato per sempre: «Fa ciò che vuoi».

Andrea Cortellessa

ANDREA BELLINI: Gianfranco, la parola scritta ricorre in tutta la tua pratica artistica. Perché questa tensione costante e coerente verso la scrittura?

GIANFRANCO BARUCHELLO: Forse la parola è la cosa più pratica per rappresentare il proprio cervello, non invecchia; ho usato la parola nella pittura, nel disegno, nella poesia, e anche per fare dei lavori particolari, basati sulla parola, come nei progetti che sono diventati libri: Avventure nell’armadio di plexiglass oppure La quindicesima riga, tutti lavori nei quali la parola era importante…

A.B. In principio era la parola…

G.B. La parola funziona, in realtà, in quanto protegge e al tempo stesso modifica la capacità critica e piacevole di ricordare sé stessi e fotografare con le parole quello che ti passa per la testa. Quindi soprattutto la vecchiaia, la grande vecchiaia, quella che sto vivendo, non è che ti suggerisce una filosofia raffinata, ti rendi conto di un’autocritica al momento in cui dici delle cose che ti sembrano assolutamente necessarie ma che invece sono probabilmente cose ripetitive, magari ripetute già mille volte; quindi c’è, da una parte, il piacere di rispondere, dall’altra un’autocritica molto dura, all’interno del cervello. Quindi il cervello funziona in maniera in fondo doppia: da una parte gode, da una parte teme. Da una parte l’eccessivo godimento di dire, senti che magari stai parlando con piacere di una cosa, e dall’altra in realtà ti rendi conto che gli altri considerano quello che si dice, magari, una quantità di cretinate di un vecchio. E questo dubbio è la realtà vera. Perché quindi questa tensione costante verso la scrittura, come dici tu Andrea, che cosa ha voluto dire per me riempire quaderni, agende, Moleskine, taccuini, tutto quello che era possibile, di parole? Perché non c’era la conversazione, ero solo e conversavo con me stesso. Questo per me è talmente chiaro, che queste cose scritte e poi pubblicate sono diventate la storia di me stesso, tra comicità e tragicità. La solitudine è stata per me una spinta a scrivere, per intraprendere quel dialogo tra me e me che poi si è trasformato in libri-opere-progetti. Parlavo con me stesso su un tema senza parlarne con nessuno, per questo ho scritto, ho scritto migliaia di parole, centinaia di pagine. Ora queste cose sono leggibili, perché la storia di un artista diventa qualcosa di concreto e gli altri leggono, criticano, fanno la storia. E questo è assolutamente necessario. Io ho scritto, scritto, scritto perché ero solo, io e le parole. Per me la parola è stata un modo per uscire dalla solitudine.

A.B. In rapporto alla tua Enciclopedia, come si struttura questo lavoro attorno alla parola? E le immagini come sono state selezionate?

G.B. Nel libro, nell’Enciclopedia, le parole sono scritte e sono accompagnate da immagini che non hanno a che fare, apparentemente, le une con le altre. Parole e immagini seguono due percorsi. Ma poi si incontrano. C’è un’assenza di volontà di scrivere cose che poi gli altri capiscano. Una volta che ho messo insieme tutto il materiale che costituisce la parte letteraria (le “voci”) della Psicoenciclopedia, accanto a questo è nata la necessità di far venir fuori le immagini. Le immagini non c’entrano nulla.

A.B. Scrivi ancora, Gianfranco?

G.B. Non scrivo più, ora. Ma quando lo facevo, parole e immagini nascevano dalla stessa tensione. Scrivere e disegnare: scrivere è disegnare, in fondo, penso alla tua mostra Scrivere Disegnando nella quale hai esposto la mia opera Piccolo sistema.

A.B. In Piccolo sistema tante parole – che possono essere assimilate a lemmi di un’enciclopedia – erano apposte sulle etichette incollate su piccole bottiglie vuote a indicare un contenuto invisibile, da poter riempire. In Piccolo sistema, opera che mostra il tuo metodo di lavoro, le parole sembrano quasi le materie prime, gli ingredienti, al pari dei colori e dei pennelli, della tua opera visiva.

G.B. Avevo cercato di fare un “sistema” gigantesco. Ma nello stesso tempo Piccolo sistema, come l’Enciclopedia, è un sistema fragile. Tutte le varianti, maschili e femminili, le parole inventate, le mie parole da sempre usate sono presenti in quell’oggetto e anche nella Psicoenciclopedia. Le parole in “bottiglia” indicate dall’etichetta sul vetro sono essenze immateriali del pensiero. Un’altra valenza della parola che costruisce atmosfere mentali, nelle quali immergersi. Il laboratorio Piccolo sistema è stato un modo per immaginare come connettere queste essenze, insieme a materiali “veri” ma anche a oggetti, ai disegni che hanno “scritto” i sogni su una parete dell’opera. La scrittura è stata prestata al disegno e la parola è diventata oggetto. Sono questi i cortocircuiti che ricerco. Sì, in realtà anche Piccolo sistema è molto enciclopedico ma, come nella Psicoenciclopedia, l’idea di mettere insieme tutto e di enciclopedizzare il conoscibile e il conosciuto si frammenta e si realizza in un grande progetto di smontaggio e rimontaggio.

A.B. Nel rapporto con il pubblico, c’è differenza quando ci si esprime con le immagini rispetto a quando lo si fa con le parole?

G.B. Era molto più aggressiva la possibilità di essere letti, perché l’immagine, chi la capisce? La parola, italiana, in particolare, che fa parte di una lingua poco parlata nel mondo, diventava anche per questo, per me, molto provocatoria. E da una parte la provocazione mi è piaciuta. Scrivevo delle cose, venivano considerate cretinate o poco “letterarie”? In realtà non lo erano, erano cose pensate ed io ad un certo punto, con tutte questi materiali verbali, ho fatto dei libri. Ho fatto tanti libri, nei libri c’erano tante parole scritte. Ma la parola non era semplicemente usata in funzione delle immagini. I miei libri sono pieni di parole, racconti, brevi storie, cose curiose, provocatorie di un dialogo. Ho usato le parole, quando le ho usate, come una provocazione. I libri sono diventati parole, immagini fotografiche. Così, in un certo senso, è nato anche il mio cinema. Per raccontare le parole. Poi il cinema è diventato una cosa molto astratta, le parole sono diventate numeri, aggettivi, parole dette da me a voce, registrate dalla telecamera. Le parole sono uscite dal quadro in cui le cancellavo, perché non erano solo pittura. Sono uscite dalla pittura e sono diventate “letteratura” o pittura di parole. C’era un’attività critica in quelle pratiche cui ripenso, e mi fa molto piacere farlo. Il mio rapporto con quelle parole che all’inizio avevo paura che fossero lette e che cancellavo si è trasformata in un’amicizia: tra me e le parole. Per scrivere ho spesso utilizzato, come materiali da cui partire, frasi, dichiarazioni ritagliate da giornali, da libri ma anche da cose che ho scritto io nella maniera più drammatica, più violenta. Ci sono dei libri ad esempio dove in copertina ho messo la fotografia di un gruppo di persone e poi sopra un timbro (Sentito vivere). Il libro delinea un percorso tra le mie opere, provando a “descrivere” solo con il “racconto” alcuni miei quadri. I riferimenti sono assolutamente provocatori: nessuno è mai riuscito a trovare una corrispondenza. Questo è un esempio di come tra parole e immagini per me ci sia un rapporto mai didascalico, mai illustrativo. Vanno per conto loro e le connessioni non sono lineari. Anche ciò che semmai mette in contraddizione parole e immagini rientra in questo rapporto. Come faccio un libro? In fondo come faccio un quadro? Una volta ho scritto, parafrasando Raymond Roussel: Come ho dipinto certi miei quadri. Si diventa un personaggio X. Il giorno dopo sei il personaggio Y. Non ripeti la stessa cosa, non ripeti la follia. In Sentito vivere ci sono un’introduzione in apertura e una conclusione finale. Quest’ultima non esisterebbe se non ci fosse un prima che la presuppone. C’è un inizio e una fine. In altri libri (come Avventure nell’armadio di plexiglass) non c’è storia ma solo frammenti, uno dopo l’altro.

A.B. È un medesimo approccio che genera i libri e anche i film, un’operazione di montaggio…

G.B. Sì, quella tecnica lì produce film, pittura, oggetti e ha prodotto anche libri. Rileggendoli mi danno la sensazione di una provocazione gigantesca. Se dunque nel grande quadro che menzionavo prima cancellavo la parola, perché avevo paura di fare un libro… poi ho tirato fuori le parole dal quadro e le ho messe in un libro, in cui materialmente c’è una denuncia o una protesta per qualcuno, per la situazione politica in cui vivevo. Tutto quello che mi passava per la testa poteva stare in un libro. C’è voluto il coraggio di far diventare la parola una possibilità al pari dell’immagine e al tempo stesso diversa da essa. 

A.B. La parola, come l’immagine, è una espressione diretta, non mediata, quasi inconscia, dell’artista?

G.B. La parola non sei tu. È come se ci fosse una terza persona che fa una cosa ma che invece, poi ti accorgi, l’hai fatta tu. La persona è la follia. Questi libri che ho scritto a volte li riapro e non riesco ad andare oltre tre o quattro pagine perché potrei scrivere meglio o diversamente quello che ho scritto. Però lì ho cercato di fare un esperimento con la scrittura usando la parola come un’immagine. Ora non scrivo più. E rinuncio a pensare. 

A.B. Capisco il senso drammatico di questa tua affermazione, anche in relazione alla questione della “grande vecchiaia”, come dici tu. La pratica della scrittura è in fondo un tentativo di comprendere le cose, scrivere e pensare, come dici tu.

G.B. Scrivere è affrontare un tema. Metti a posto, si fa ordine scrivendo. Scrivere è un modo di passare dal sogno, dall’immaginazione alla pratica. Anche ciò che sto dicendo ora potrebbe diventare un altro libro. Chi scrive ritrova nella pagina finale quello che voleva dire all’inizio. Ma il pensiero segue itinerari complessi. Le parole si scrivono perché nella propria storia sono già un “libro”: diventa sempre più intrecciato, poi si distende, scorre e va in mille direzioni. Ci vuole la capacità di scegliere le cose giuste o di partire da sé stessi, dalle proprie ossessioni. Poi le direzioni (le narrazioni) verranno. Si disegnano, come i tracciati mentali. Quindi la scrittura sonda ma non trascrive. Si parte da una parola, la parola diventa scrittura, poi si comincia a mettere insieme degli archivi di parole (note, appunti, sogni, citazioni, etc.), poi gli archivi si smontano, si rimontano secondo un’idea. Un’idea, recente, è stata appunto l’Enciclopedia.

A.B. La Psicoenciclopedia è un archivio di parole, immagini, temi, idee che hai sviluppato nel corso degli anni e della tua pratica…

G.B. Quello che è importante nella Psicoenciclopedia: un gruppo di parole vive insieme con altre, il doppio delle parole è costituito invece dalle immagini. Quindi l’Enciclopedia è un esempio di come un archivio di parole ma anche di immagini, con non poca follia, è diventato un’altra cosa: l’apertura di una possibilità, cercando, a partire da un proprio archivio di materiali differenti, di fare qualcosa di inedito. In fondo l’idea di questa Enciclopedia non si esaurisce in questo volume: potrebbe servire ad altri per provare a mettere in cortocircuito esperienze, immaginazione e vita. Il successo non è garantito, ma non importa: è bello immaginare un tale esperimento. Io suggerisco ancora adesso un occhiale per rendere più personale e libero il leggere. Oppure, a partire da quel leggere, inventare una scrittura ulteriore, fatta anche di immagini, oggetti, gesti… Che chiunque sfogli le pagine di questa Psicoenciclopedia si senta, naturalmente, nella condizione di libertà totale di fare un proprio percorso, aggiungendo o rimontando quello che legge e vede. Per le immagini di questo libro, tuttavia, non occorrono gli occhiali ma la fantasia.

A.B. Tu scrivi molto bene Gianfranco, anche del tuo stesso lavoro. Avresti potuto fare lo scrittore, in effetti, ma hai scelto le arti visive, hai scelto di scrivere ma anche di creare immagini. Quale significato assume per te la scrittura nel contesto visivo? Perché scrivere su un quadro?

G.B. Scrivere è stata una mia follia. Fare la pittura con le parole. All’inizio (chi conosce il mio lavoro lo sa benissimo) ci sono quei grandi quadri con “macchie” che sono la cancellazione di discorsi scritti che non dovevano essere poi letti. Sono grandi quadri, 4 o 3 x 2 m, in cui nell’angolo c’erano parole e sopra pennellate di bianco che cancellavano tutto. Era un modo per dire che io pensavo quelle cose, quei discorsi, ma non era necessario leggerli: li mascheravo, li cancellavo. Perché? Probabilmente avevo paura delle stesse parole che avevo scritto. In qualche modo è ancora adesso così.

A.B. Scrivere e cancellare…. La tua scrittura può essere in effetti leggibile, atta a comunicare un significato preciso (come ad esempio nel caso delle voci dell’Enciclopedia) ma anche solo segno, scrittura asemica, mappa mentale. Nel caso della Psicoenciclopedia, come si configura invece il rapporto tra parola e immagine? Le immagini le hai raccolte nel tempo, si tratta principalmente di ritagli di giornali che hai messo insieme in modo casuale? 

GB. L’operazione è stata scegliere delle immagini esistenti che non sono né scrivere né disegnare. Nella Psicoenciclopedia c’è la parola scritta che è come fosse un alfabeto. Poi ad un certo punto iniziano le immagini, ci sono le immagini che non c’entrano niente, non significano niente, non rispondono a un input. Sono state messe insieme, scelte come si crea una cosa quando si disegna, come si fanno cose bizzarre, curiose che aspetti ti dicano qualcosa. Non dici tu con le parole, le immagini ti dicono. Non c’è stato prima un tema, non sono partito da una parola per scegliere le immagini. Così è venuto fuori l’insieme delle immagini dell’Enciclopedia, che è una cosa per me senza precedenti. Questo è il punto fondamentale. Le immagini sono state scelte cercando tra giornali, riviste, enciclopedie, fotografie nei miei archivi ma provengono anche dall’attualità più vicina. Da una parte mi si chiede di quello che ho scritto, dall’altra c’è però la follia delle 400 pagine di tavole in questo volume, le circa 1200 immagini. Come sono state messe insieme? Con quale idea di montaggio? Queste immagini sono state messe insieme per provocare qualsiasi cosa ma soprattutto la domanda: che c’entra? C’è un personaggio che fa un gesto in una direzione e poi, accanto, lo fa nella direzione opposta: perché l’immagine appare diritta e poi rovesciata; poi c’è quell’altro personaggio che sta sul monte, quell’altro che cammina in cima attaccato ad una corda tra due montagne. Mille cose diverse, molto divertenti e molto curiose. Anche la collaborazione di Edoardo Visalli è stata in questo senso preziosa. Con lui abbiamo costruito tavola per tavola.

A.B. Anche all’interno della sezione delle immagini vige il principio del montaggio quindi?

G.B. C’è un pezzetto di una cosa, un altro pezzetto di un’altra: così è venuta fuori questa sezione delle immagini. Da un lato ci sono i testi che in buona parte erano già stati scritti (anche se il lavoro che li ha portati alla fine nella Psicoenciclopedia è stato moltissimo: nominarli, editarli, metterli in terza persona…), dall’altra ci sono le immagini “scelte” e messe insieme proprio per questo lavoro. Il sistema che unisce parole e immagini è tuttavia “nuovo”, pensato per questo volume. Nell’Enciclopedia c’è un vocabolario di parole e dei legami che connettono e disconnettono le parole e le immagini, in una serie di rimandi, e per questo scopo, la collaborazione di Carla [Subrizi] è stata fondamentale. Questa operazione della cucitura, del montaggio, di quello che è un libro di testi e di immagini, è ciò che pone il problema dei rapporti, delle contraddizioni, della impossibilità di tradurre una parola in un’immagine o il contrario. Il tessuto delle parole inserite pagina per pagina, secondo un vocabolario che non c’era, perché ad ogni pezzetto di testo è stata data una “voce”, ha dato la possibilità di stabilire un legame tra parole e immagini anche se non era scontato. Nella Psicoenciclopedia le immagini provocano le parole, provocano anche le parole. Le immagini sono importanti perché in realtà fanno saltare, mettono in questione le “parole” della prima parte.

A.B. Quindi questo peculiare trattamento delle immagini non ha precedenti nel tuo lavoro.

G.B. L’operazione, diciamo visiva, delle immagini come sono messe insieme è una cosa mai vista prima. Perché c’è il personaggio con la barba, quell’altro a cavallo, ma il cavallo sotto non c’è? Perché c’è qualcuno che corre dietro ad una gallina che è scappata? Mille cose diverse. Poi ci sono storie di soldati, storie della Marina francese: perché? Cosa c’entrava? Niente. Davanti ad ogni pagina bisognerebbe chiedersi: perché queste due cose stanno vicine, perché sono state messe in questo modo, che c’entra questo uomo con la barba di ghiaccio vicino a quest’altra cosa? C’è un individuo che fa un segno e l’altro fa lo stesso segno, ma rovesciato. È una follia. Questa è la grande forza della Psicoenciclopedia che bisogna sottolineare. Io ho fatto la parte delle immagini, con Carla abbiamo fatto l’operazione di rendere tutto questo leggibile, abbiamo legato parole e immagini devo dire in un modo altrettanto folle. Anzi io raccontavo delle cose: questi testi smontati dai libri, cassetti, quaderni dove si trovavano, fatti a pezzi, alfabetizzati e messi così come figurano nel volume, sono invece diventati un’altra cosa molto più bizzarra. È follia pura. Poi con Edoardo abbiamo modificato, trasformato, reso più grandi o più piccole le immagini, abbiamo costruito tavole con tanti vuoti. Non ci sono immagini più importanti o meno importanti: ogni espediente è visivo, provoca l’occhio e lo sguardo, e cerca di sollecitare la domanda: che c’entra? O anche: perché questo avvicinamento? Perché questo vuoto? E tutto questo progetto, che quindi può interessare qualcuno, è stato pubblicato da chi? Dalla Treccani ovvero l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. La Treccani quindi ha pubblicato una cosa che per la prima volta crea una situazione provocatoria all’interno della stessa tipologia delle sue pubblicazioni.

A.B. Questo è certo. In effetti i concetti di follia e di enciclopedia sembrano due contrari. Cos’è la follia per te?

G.B. La follia è la curiosità, è varcare i limiti del possibile. Perché ho messo in una pagina la portaerei francese in una baia della Cina e nell’altra pagina gli equipaggi? I marinai francesi sono in una foto di gruppo tutti carini insieme. Ma l’altra è una portaerei. Perché la Francia ha mandato una corazzata importante in Cina? Tutto è talmente pazzesco. Oggi si fanno altre cose. Oggi c’è una nave talmente grande che si ferma per un errore del comandante nel Canale di Suez e blocca tutto il mondo. 

A.B. Torniamo alla questione della scrittura, e forse della follia. A me sembra che nel tuo caso ci troviamo sempre di fronte alla scrittura e al suo doppio, alla scrittura e al tempo stesso – direi sempre –  a un al di là della scrittura.

G.B. Sì, perché no? Questa è una operazione che fa chi legge, chi sta dall’altra parte del dialogo. Non è la mia. La scrittura non è rappresentazione, la scrittura scrivendo scopre, va al di là di sé stessa, incontra l’indicibile. La scrittura va anche al di là della parola, la supera. Scrivere non è solo mettere insieme delle parole. Oltre la parola che rappresenta. Io faccio un’operazione: l’interpretazione di quello che faccio è un’altra cosa. La parola esplora l’indicibile, la follia, ma non trascrive o registra il pensiero. La parola è un bisturi non una carta assorbente. La scrittura è un sistema di connessioni che in quanto tale provoca la parola stessa che comprende. Ogni mio libro è un po’ questo. Se c’è un tema, la scrittura gira intorno al tema e lo oltrepassa. La scrittura è montaggio: mette in adiacenza concetti, temi e immagini previsti ma anche imprevisti. La scrittura indaga e serve ad immaginare. Si stabilisce la larghezza dei limiti: tutto il possibile, un certo modo di scrivere, il tema, un certo tipo di racconto, di ripetizioni, di parole. Si va da A a Z saltando, andando, tornando indietro.

A.B. Quando e come cominci a scrivere?

G.B. Si sceglie un tema e vai. Si parte da una fotografia, da un’immagine, da uno spunto qualsiasi. Si può partire anche da un tema come quando ho iniziato a pensare e riflettere sull’idea della sfera che poi aveva anche qualche relazione con la Psicoenciclopedia. La creatività è questa. Non ci si sveglia con un proposito ma con la curiosità di trovare uno spunto da cui partire. E così comincio a guardarmi intorno. Così comincio anche a disegnare.

A.B. Tu hai cominciato a scrivere le voci di questa tua Enciclopedia ben prima di sapere che stavi in effetti costituendo un’Enciclopedia, è vero? Quando hai cominciato a scrivere le definizioni di queste voci enciclopediche?

G.B. Non ho cominciato a scrivere le voci. Tutte le voci erano nei miei archivi degli scritti. La Psicoenciclopedia riattiva tutti i miei archivi. Anche se tutti i miei scritti sono stati ridotti a frammenti, tagliati, riportati allo stato di bozza. Lo smontaggio ha preceduto il montaggio che organizza la prima parte del volume. Dallo spezzettare tutto sono nate parole. Le parole all’inizio non c’erano. Sono state apportate cercando nel “testo” la sua parola chiave. Altre parole sono nate guardando le immagini e scoprendo che non c’erano alcuni lemmi a cui si sarebbero potute collegare. Quindi alcune voci sono nate per il volume. Ma la maggior parte delle parole, delle voci, era già fatta.  

A.B. In effetti ogni enciclopedia nasce da un progetto a monte, il progetto enciclopedico appunto. La tua Enciclopedia è invece il frutto di una sorta di risacca, di un’onda che ha lasciato sulla spiaggia parole e immagini che tu hai raccolto nel corso della vita. Il punto da cui nasce la tua Psicoenciclopedia non è il desiderio di descrivere il mondo nella sua interezza, progetto in fondo profondamente ideologico, ma dalla spinta a conoscerlo, ad attraversarlo poeticamente, a testimoniarlo attraverso la curiosità.

G.B. Infatti. La scelta di un’immagine delle centinaia che sono presenti nel volume nasce dalla curiosità, da quanto resta fuori da tutto il resto già scelto. La scelta deriva dalla bizzarria, dalla follia del non capire ma soprattutto dalla curiosità. Tutte le immagini sono messe insieme come immagini complesse non per il loro essere singole immagini, più o meno importanti, prima. Non sono immagini scelte per la loro singolarità, per quello che ognuna poteva raccontare. La barba con la neve sta vicino a qualcosa che non c’entra. Non deriva quindi dall’unicità, ovvero dal carattere specifico di ogni singola immagine, la scelta, ma da come le immagini sono pensate se messe una accanto all’altra. È in questo modo che nasce l’immagine: dalla plurimità del loro accostamento. Non ho scelto immagini ma ho cercato di realizzare una grande immagine, una specie di immagine/plurima fatta di tutto quello che questa Psicoenciclopedia ha potuto – ad un certo punto dovevamo concludere – raccogliere al suo interno.

A.B. A proposito, puoi parlarmi del titolo? Perché Psicoenciclopedia?

G.B. Intanto vorrei dire che su questo punto, come su altri di cui abbiamo parlato, tante riflessioni sono state fatte da Carla [Subrizi] nel libro Note a margine che è contenuto nel cofanetto che ospita l’Enciclopedia. Per insistere su questo termine, dire Psicoenciclopedia è aver voluto mettere in risalto nient’altro che la “follia”, come abbiamo già detto più volte fino ad ora: la follia in questo caso non corrisponde affatto al concetto tradizionalmente inteso. Non è malattia né uno stato alterato della mente. Per follia intendo la capacità di oltrepassare il limite del pensabile o del possibile. Quindi è una prova del diverso, credo, senza precedenti. Non ci sono enciclopedie che impostino la loro costruzione a partire dalla follia ovvero, per dire meglio, come nell’arte, dal voler mettere in adiacenza la contraddizione, il paradosso, il possibile, in ogni senso e modo. Vista nella forma di una enciclopedia, può essere considerata una provocazione.

A.B. A me sembra che la tua Psicoenciclopedia rappresenti la rinuncia all’utopia di una conoscenza esaustiva della realtà (carattere storico dell’enciclopedia di epoca illuminista) per riflettere piuttosto il meccanismo soggettivo e poetico di conoscenza della realtà, quello di natura rapsodica, casuale, necessariamente lacunare e imprevedibile. In questo senso la tua Enciclopedia rappresenta in qualche modo uno straordinario autoritratto, tanto articolato quanto inafferrabile.

G.B. È proprio così. E non sento di dire questo, che tu hai detto così bene, con altre parole. Grazie Andrea.

In copertina: Gianfranco Baruchello, Psicoenciclopedia, tavola 115, immagine 2

Gianfranco Baruchello

è nato a Livorno nel 1924.

Andrea Bellini

è direttore del Centre d’Art Contemporain Genève dal 2012. Tra gli incarichi precedentemente ricoperti, è stato co-direttore del Castello di Rivoli, direttore di Artissima, curatorial advisor del MoMA PS1 e redattore capo di “Flash Art International”. Ha curato numerose esposizioni personali, tra cui ricordiamo quelle di Marina Abramović, Hannah Black, Lisetta Carmi, Roberto Cuoghi, Chiara Fumai, Ernie Gehr, Giorgio Griffa, Sonia Kacem, John McCraken, Nicole Miller, Philippe Parreno, Thomas Schütte e Hannah Weinberger. Tra le esposizioni collettive, alcuni progetti sono dedicati in particolare al rapporto delle arti visive con il teatro o con pratiche di scrittura e alle loro possibili interazioni all’interno della cultura visiva e digitale contemporanea, come le recenti “From Concrete to Liquid to Spoken Worlds to the Word” e “Scrivere Disegnando”. Bellini è inoltre direttore artistico della Biennale de l’Image en Mouvement di Ginevra, che dal 2014 ha trasformato in una piattaforma di produzione video, realizzando opere di numerosi artisti. Le pubblicazioni più recenti includono: “Facing Pistoletto” (2009), “Gianni Piacentino” (2013), Robert Overby, “Works 1969-1987” (con Alessandro Rabottini, 2014), Giorgio Griffa, “WORKS 1965-2015” (2015), Roberto Cuoghi, “PERLA POLLINA 1996-2016” (2017), “Writing by Drawing. When Language Seeks Its Other” (2020) e “Poems I Will Never Release. Chiara Fumai 2007-2017” (con Francesco Urbano Ragazzi e Milovan Farronato, 2021).

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