Manganelli, Serafini e un fumetto “non nato”

Per la cortesia dell’autore e dei curatori, si presenta qui una versione ridotta dell’intervento di Filippo Milani al convegno Manganelli sconclusionato, tenutosi per le cure di Ambra Carta ed Emiliano Ceresi a Palermo il 19 e il 20 maggio scorsi (gli atti verranno pubblicati all’interno di un numero monografico dedicato a Manganelli dalla rivista «L’Illuminista» in occasione del centenario della sua nascita, il prossimo 15 novembre).

In un’intervista rilasciata alla rivista “Linus” nel 2017, Luigi Serafini – l’autore del famoso Codex (1981) – ha dichiarato che a metà degli anni Ottanta insieme a Giorgio Manganelli avevano progettato di realizzare una sorta di graphic novel di argomento noir, di cui resta traccia solo nella memoria del disegnatore. Si tratta di una rivelazione assai suggestiva, perché questo progetto sarebbe stato l’unica incursione diretta dello scrittore nel mondo del fumetto, genere verso il quale provava un forte interesse, senza mai giungere alla realizzazione di risultati concreti.

La domanda sorge spontanea: come sarebbe stato questo fumetto della coppia Manga-Serafini? Non lo sapremo mai, perché il progetto è rimasto del tutto ipotetico, anzi addirittura ‘iperipotetico’, ovvero un’ipotesi di una ipotesi, richiamando il titolo della parodica conferenza manganelliana palermitana del 1963. Ma è possibile tentare di ricostruire le caratteristiche di quest’opera inesistente a partire da pochissimi indizi e dai punti di contatto tra i due autori. Innanzitutto, ecco l’aneddoto raccontato da Serafini, nell’intervista condotta da Ivan Carozzi e Ivan Manuppelli: “Manganelli aveva in mente una specie di graphic novel. L’ho incontrato solo in tre occasioni. La prima per conoscerci, in una libreria americana a Roma. Ricordo che aveva un testone gigantesco, come una vespa. Voleva fare un poliziesco, una specie di noir o polar francese. Ci siamo visti altre due volte, poi si ammalò e non se ne fece nulla»[i].

A metà degli anni Ottanta Serafini e Manganelli si erano incontrati due volte all’Anglo-American Bookshop di Via della Vite a Roma: il primo fu un incontro breve, durante il quale l’artista lo ringraziò per l’articolo uscito il 19 dicembre 1984 sul “Corriere della sera” dedicato al suo volume Pulcinellopedia (piccola)[ii]; invece, il secondo incontro si trasformò in una lunga passeggiata attraverso il centro di Roma, durante la quale Manganelli gli presentò la sua interessante ipotesi di fumetto noir. Dopo questi incontri fortuiti, i due si scambiarono un paio di telefonate, poi si persero di vista e non si sentirono più, anche a causa della malattia che colpì lo scrittore negli ultimi anni di vita, fino alla morte nel 1990.

Proprio recensendo la reinterpretazione serafiniana della maschera di Pulcinella, Manganelli sottolinea la capacità del disegnatore di giocare con l’immagine tradizionale di una delle più note maschere della commedia dell’arte napoletana, moltiplicandola all’infinito e allo stesso tempo trasformandola in un fantasma evanescente: «Appare qui, ed appariva nel Codex, una qualità singolare della fantasia grafica di Serafini: qualcosa che direi ilarità senza gioia, anzi una sorta di cupezza, un fondo oscuramente maniacale, una iterazione magica e superstiziosa, che pare alludere ad un elaborato scongiuro: ne sono i gesti napoletanamente apotropaici. Splendido giocoliere di immagini, Serafini fa di “Polecenella” un fantasma inesistente e molteplice, un nulla innumere, insieme un frammento di memoria collettiva – e una epifania profetica»[iii].

La proliferazione caleidoscopica delle immagini e l’indecidibilità semantica sono le caratteristiche peculiari dell’universo grafico-linguistico serafiniano, in cui l’osservatore perde le coordinate cognitive ed ermeneutiche a cui è abituato e viene catturato da figure tanto fantasmatiche quanto epifaniche.

Questo fumetto iperipotetico stimola una riflessione sul modo in cui Manganelli concepisce il rapporto tra parola e immagine, non solo come capacità ecfrastica della parola ma soprattutto come possibilità di interazione tra elementi eterogenei sulla pagina. Si tratta di una modalità creativa che Manganelli aveva forse solo sperimentato negli anni Sessanta, durante l’esperienza neoavanguardista, quando aveva collaborato con Gastone Novelli, Achille Perilli, Toti Scialoja e gli altri autori che hanno preso parte alla breve esperienza della rivista “Grammatica” (5 numeri usciti dal 1964 al 1976). È proprio in questo contesto, nelle prime tavole del fumetto sperimentale I viaggi di Brek (1967) di Novelli, che Manganelli – ricorda Andrea Cortellessa in una delle sue micromonografie[iv]  – compare come personaggio, ovvero sotto forma di un polipo-rétore che tenta di circuire con la sua oratoria la donna amata dal protagonista.

Manganelli ha spesso preso in considerazione le immagini come spunto per l’elaborazione delle sue mirabolanti descrizioni o nella loro fondamentale funzione paratestuale, in particolare la scelta delle copertine dei suoi libri con cui dialoga il testo scritto[v]. Indagando gli scritti di critica d’arte di Manganelli, Federico Francucci ha messo in evidenza la peculiare strategia di osservazione dell’immagine volta a far emergere ciò che non si vede: «La critica d’arte di Manganelli, qualunque sia volta per volta il suo oggetto, è una descrizione di ciò che non è propriamente visibile, o per lo meno non da tutti, nelle immagini viste: pseudopresenze evanescenti fermate o formate nelle parole che le raccontano»[vi].

Tale paradigma ecfrastico, caratterizzato dall’emersione di pseudopresenze, consente a Manganelli di andare oltre la superficie dell’immagine, conferendo ancora maggiore valore alla parola letteraria che è in grado di dare consistenza all’invisibile. Se si fa riferimento alla principale distinzione tra le due possibili strategie ecfrastiche in ambito narrativo che è stata proposta nel 1988 da John Hollander[vii], allora si può affermare che Manganelli predilige la tipologia dell’ecfrasi nozionale, ovvero la “veridicizzazione” letteraria di un quadro che non esiste, ma ciò avviene paradossalmente anche quando il quadro esiste e sarebbe attuabile una ecfrasi mimetica.

Per Manganelli, l’impossibilità di sciogliere la tensione costitutiva tra parola e immagine rende l’arte un luogo intrinsecamente “impossibile”, ossimorico. Questo rapporto paradossale viene esplicitato da Manganelli nel Salon dedicato ai dipinti di Paul Delvaux, intitolato Illustrazioni per libri inesistenti, in cui si interroga proprio sulla relazione tra il titolo di un quadro e il quadro stesso, come reciproca didascalia: «È del tutto evidente che i così detti titoli dei quadri sono parte essenziale del quadro, per cui non sarà inverosimile supporre che talora il quadro sia parte di un testo che nella sua parte esplicita è rappresentato dal titolo; anzi, il titolo, per quanto breve, è il libro, e il dipinto è una spiegazione del titolo, o piuttosto è un sogno del titolo, qualcosa che il titolo ha secreto, forse il suo sudore, la saliva, il fastoso escremento»[viii]. Anche il fumetto iperipotetico è un libro “eventuale”, in cui la relazione onirica tra parole e immagini potrebbe assumere qualsiasi valore, fungendo da didascalia reciproca, le une indispensabili alle altre, e rielaborando inoltre generi letterari codificati, in una mescolanza imprevedibile, tanto enciclopedica quanto metamorfica.

D’altro canto, l’interesse di Manganelli per i generi del giallo e del noir a metà degli anni Ottanta potrebbe essere legato a due aspetti diversi: da un lato, si potrebbe trattare di un ritorno alle prime prove di traduttore degli anni Cinquanta, quando aveva tradotto alcuni romanzi gialli (come quelli di Eric Ambler); dall’altro, potrebbe trattarsi dell’influenza della doppia persistente ossessione per Poe e Borges, l’uno indagatore degli aspetti più oscuri dell’inconscio, l’altro indagatore degli aspetti più labirintici dell’esistenza.

In merito al poliziesco, risultano assai rilevanti le numerose recensioni dedicate a questi argomenti, ora raccolte nel volume Concupiscenza libraria (2020) a cura di Salvatore Silvano Nigro[ix]. In particolare, recensendo la Breve storia del romanzo poliziesco (1962) curata da Alberto del Monte, Manganelli si sofferma a lungo sulla possibile analogia tra il filologo e il criminale, due figure accomunate dalla passione per la perfezione, sostenuta da una “razionalità capziosa” e da una “sensibilità pronta a catturare un particolare irrilevante”. Di conseguenza, aggiunge: “Il romanzo giallo […] soddisfa in primo luogo il filologo che è in noi: il nostro amore per le cose trascurabili che sospettiamo piene di senso; l’idea, solenne e puerile, che l’universo sia colmo di frammenti di significato, che l’occhio esercitato ricostruisce su esilissimi indizi”[x]. Il detective si configura come un filologo mimetico, che deve riuscire a unire razionalità ed empatia, ricostruendo razionalmente i legami tra le informazioni frammentarie a disposizione e allo stesso tempo entrando in sintonia con i percorsi della mente dell’assassino per comprendere la logica del male.

In merito al genere gotico noir di alta ascendenza, Manganelli concorda con Edmund Wilson quando affermava che “i racconti del terrore gli facevano lo stesso effetto di un ‘bum!’ esclamato con voce blesa da un fanciullino alle sue spalle”[xi]. Lo scrittore era interessato anche a quelle opere noir che “possono laicizzare il terrore o portarlo a livello liturgico”[xii], come accade nel repertorio teatrale del Gran Guignol, in cui “non sono fantasmi, non visioni, non allusivi terrori notturni: ma un terrore schietto, quotidiano, coincidenze sinistre, vendette sinfoniche, aguzzini a forti ma non magiche tinte; non vampiri, ma medici del manicomio, non morti che fuoriescono da tombe, ma vivi creduti morti che in quelle vengono sepolti”. L’attrazione per l’inquietudine del quotidiano si configura come estensione di un inferno terrestre, per nulla simbolista e pienamente realista.

Ora è possibile intersecare il duplice interesse di Manganelli per l’immagine grottesca e per i generi del giallo e del noir, con l’eclettismo stilistico di Serafini. In questa prospettiva, torna utile la riflessione di Achille Bonito Oliva proposta nel catalogo della mostra monografica dedicata a Serafini nel 1998 presso la Fondazione MuDiMa di Milano: “L’artista si muove sul versante della contaminazione linguistica e dell’eclettismo stilistico che significa poi coscienza metalinguistica dell’opera e dunque adozione di una sensibilità manierista. […] Egli fonda una pittura come teatro visivo della molteplicità, mediante una sensibilità tutta manierista che vive sulla frantumazione e descrizione, il particolare e l’inusuale”[xiii].

Risultano notevoli le coincidenze con la “sensibilità manierista” della scrittura manganelliana, caratterizzata da una continua contaminazione tra i modelli di riferimento, dal grottesco come collante ossimorico; dalla variazione come tecnica per l’infinita moltiplicazione creativa. Si tratta di una sotterranea e proficua corrispondenza tra il teatro visivo di Serafini e il teatro verbale del Manga: una caleidoscopica enciclopedia dei possibili.     

Quindi, a partire dall’aneddoto raccontato da Serafini, si potrebbe ipotizzare che il progetto manganelliano di un fumetto noir si sarebbe potuto fondare sulle sue riflessioni in merito non solo al rapporto tra parola e immagine ma anche ai generi popolari del giallo e del noir. Il fumetto iperipotetico del duo Manga-Serafini avrebbe potuto essere una sorta di “codex universale” per decifrare tutti i delitti possibili, ma esso stesso indecifrabile: la messa in scena delle metamorfosi manieriste di un detective/filologo che segue gli indizi da lui stesso disseminati lungo il proprio cammino e di cui resta fatalmente vittima; proprio come nelle due illustrazioni contenute nel Codex, in cui uno scrittore con la mano-stilografica viene ucciso con una moderna bic, in una allegoria dell’auto-omicidio.

In copertina: una delle tavole del Codex Seraphinianus di Luigi Serafini (1981)


[i] L. Serafini, Casi serafiniani, intervista a cura di Ivan Carozzi e Ivan Manuppelli, “Linus”, n. 6, giugno 2017, p. 6.

[ii] Vedi L. Serafini, Pulcinellopedia (piccola), Milano, Longanesi, 1984; poi Pulcinellopedia Seraphiniana, Milano, Rizzoli, 2016.

[iii] G. Manganelli, Pulcinella: mille e nessuno, “Corriere della Sera”, 19 dicembre 1984.

[iv] A. Cortellessa, Il libro è altrove: ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli, Roma, Luca Sossella, 2020, p. 205. Novelli aveva realizzato 23 tavole nel 1964 per illustrare Hilarotragoedia.

[v] A. Trocchi, Le quarte di copertina e i risvolti autografi di Giorgio Manganelli, in Le foglie messaggere, cit., p. 173; Trocchi sintetizza: “Il gioco manganelliano con gli apparati cerimoniali di seduzione e di presentazione che sovrintendono al debutto in società delle fole letterarie avviene dunque all’insegna di una sostanziale ambiguità, ludica ed ironica” (p. 167).

[vi] F. Francucci, Tutta la gioia possibile: saggi su Giorgio Manganelli, Milano-Udine, Mimesis, 2018, pp. 105-10. Vedi inoltre G. Guassardo, Critica d’arte come menzogna. Una lettura di “Salons” di Giorgio Manganelli, “Arabeschi”, 11, gennaio-giugno 2018, pp. 122-134.

[vii] Vedi J. Hollander, The poetics of ekphrasis, in “Word & Image”, 4, 1988, pp. 209-219.

[viii] G. Manganelli, Illustrazioni per libri inesistenti, in Id., Salons, Milano, FMR, 1987; poi Milano, Adelphi, 2000, pp. 137-38.

[ix] Vedi G. Manganelli, Concupiscenza libraria, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Adelphi, 2020.

[x] Ivi, p. 191.

[xi] Ivi, p. 210.

[xii] Ivi., p. 213.

[xiii] A. Bonito Oliva, prefazione a L. Serafini, Il teatro della pittura, catalogo della mostra presso la Fondazione Mudima di Milano, 1998.

(1983) è ricercatore in Letteratura italiana contemporanea presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell'Università di Bologna. I suoi principali interessi sono rivolti al rapporto tra la letteratura contemporanea e le arti visive. Ha pubblicato articoli in riviste scientifiche su vari autori e autrici, come Arcangeli, Bertolucci, Celati, Gadda, Leogrande, Manganelli, Mazzucco, Pincio, Raimondi, Scarpa, Testori e Vasta. Tra i suoi libri vanno segnalati: “Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione” (Pendragon, 2015), “Le forme della luce. Francesco Arcangeli e le scritture di ‘tramando’” (BUP, 2018) e “Il pittore come personaggio. Itinerari nella letteratura italiana contemporanea” (Carocci, 2020). È membro del comitato scientifico della rivista “Finzioni”.

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