Autobiografia di un polpo. Intervista con Vinciane Despret

09/09/2022

Vinciane Despret, filosofa e psicologa che insegna all’Università di Liegi, non è un nome sconosciuto al pubblico italiano, grazie alla traduzione di Quando il lupo vivrà con l’agnello. Sguardo umano e comportamenti animali (Elèuthera, 2004), Che cosa rispondono gli animali… se facciamo le domande giuste? (Sonda, 2018) e, su un altro registro, Non dimenticare i morti. I racconti di quelli che restano (Nuova Ipsa, 2017). Saggi che tuttavia hanno avuto una scarsa circolazione, non riscontrando la dovuta attenzione. Mi auguro che Autobiografia di un polpo e altri racconti animali (con un’introduzione di Emanuele Coccia, la traduzione di Matteo Martelli e le fotografie di Yung-sen Wu), tradotto da Contrasto un anno dopo la sua pubblicazione in francese, sarà accolto in modo più sensibile. Di buon auspicio è l’incontro imminente con l’autrice al Festivaletteratura di Mantova, questo sabato 10 settembre.

Despret oscilla felicemente tra filosofia ed etologia, tra scienze umane e scienze naturali, come emerge, da ultimo, in un piccolo libricino-intervista in cui riviene sul suo percorso complessivo[1].

Autobiografia di un polpo è un libro inusuale. Come scrive Emanuele Coccia in un’introduzione che va dritta all’essenziale, Despret pratica una sorta di “etnografia del non umano”, in cui tenta di “rileggere e immaginare la scienza come una forma di etnografia o meglio di mitografia comparata” (p. 11). Vi ritroviamo Karl von Frisch che studia l’habitat degli animali e le loro infrastrutture – strade, cunicoli, segnaletiche, monumenti, corridoi migratori – soprattutto nelle api e nelle termiti, fondando di fatto la teroarchitettura. Ma anche Donna Haraway, con cui Despret ha instaurato da tempo un dialogo fruttuoso, con The Companion Species Manifesto e con Chthulucene, con le sue fabule speculative (SF), i simbambini e la storia delle farfalle monarca[2].

Centrale è il racconto di Ursula K. Le Guin, L’autrice dei semi di acacia e altri estratti da Rivista dell’Associazione di terolinguistica (1974), dove è questione di “frammenti di messaggi di formiche, trovati sotto forma di tracce di essudazione di ghiandole su semi di acacia accuratamente disposti” (p. 39). Vengono inoltre citati, per ricordare due autori francesi, lo scrittore di fantascienza Alain Damasio (sconosciuto in Italia quanto amato in Francia) e l’antecedente della biogea di Michel Serres[3]. Autobiografia di un polpo si compone di tre racconti di scienza e fantascienza, uniti dalla stessa idea: immaginare un’Associazione di terolinguistica (una linguistica degli animali selvaggi) o di teroarchitettura o terosemiotica, in cui un gruppo di scienziati si confronta con casi singolari, bizzarri ma non del tutto astrusi. Fondati in gran parte su articoli scientifici realmente pubblicati, sono “contaminati” da altri inventati di sana pianta dall’autrice – l’operazione riesce proprio in quanto i due piani sono indistinguibili.

Nei tre “récits d’anticipation” (per citare il titolo francese), Despret riconosce il “valore espressivo e simbolico di molte costruzioni animali” (p. 34), dalle ragnatele del ragno ai nidi degli uccelli tessitori; dai monumenti funerari come l’orientamento delle tombe nei surmulotti alle sculture effimere della liturgia del lutto nei corvi delle Hawaii, fino alle strade costruite da termiti, formiche, tassi e ratti talpa, e alle pitture rupestri in rilievo dei pipistrelli nelle grotte delle gole del Gardon (cfr. pp. 33-34). La funzione poetica, letteraria e simbolica prende il sopravvento su quella meramente difensiva.

In sintesi, il primo racconto indaga la possibile correlazione tra le ricerche sui ragni condotte con il diapason e la comparsa di acufeni nei ricercatori. Che i ragni siano la causa di tali vibrazioni interne che si traducono in pensieri apparentemente estranei agli studiosi? Che si comportino così a causa dell’inquinamento acustico, della fonosfera ovvero il sovraccarico di onde e vibrazioni trasportate dall’aria cui i ragni sono sensibili? Che ci inviino segnali? “I ragni ora gridano in onde. E noi siamo, con i nostri cosiddetti acufeni, camere d’eco della disperazione dei ragni” (p. 30). Del resto, osserva acutamente Despret, sono loro ad aver inventato il metodo dell’archivio, “i primi a sviluppare una tecnologia di conservazione degli eventi, perché le ragnatele, prima ancora di essere trappole, o una questione di architettura o territorio, sono la memoria materiale ed esteriorizzata di condotte, tecniche e stili: cartografie seriche di memorie sempre mutevoli” (pp. 18-19).

Il secondo racconto si concentra sui vombati, marsupiali simili ai tassi, diffusi in Australia, che scavano lunghi cunicoli sotterranei in cui molti animali hanno trovato rifugio durante i recenti incendi. E che, è accertato, producono feci dalla forma cubica. L’autrice immagina questi cumuli fecali come pareti erette all’ingresso delle loro tane sotterranee che, grazie alla loro forma a mattoncino, resistono alle frane e all’erosione. Barriere architettoniche ma non semplici marcatori territoriali – un’ipotesi semplicistica, ancora debitrice dell’ideologia della proprietà privata, della competizione tra specie cara alla teoria neo-darwiniana. Se fossero invece strutture con un alto grado di astrazione e un valore simbolico? Ovvero la manifestazione tangibile di una vera e propria cosmologia fecale, “narrazioni polifoniche, poemi materiali, chimici e formali, rivolti a esseri molteplici, presenti e passati, forse anche futuri: formerebbero una cosmopolitica fecale” (p. 60). Che abbiano anche una funzione letteraria e religiosa? Che i vombati, in virtù della peculiarità del loro apparato digestivo, siano animati da una pulsione creatrice che li induce a scrivere così la propria narrazione?

Ciononostante, la scienza ufficiale si è concentrata finora sul ruolo del colon che rallenta e permette questa stravagante conformazione fecale: “le feci erano ridotte a semplici risultati di effetti meccanici, semplici prodotti degli ingranaggi digestivi di un orologio anatomico più o meno ben regolato” (p. 37). Al contrario, sfidando atavici pregiudizi culturali, Despret insiste sull’espressività delle feci, al di là del calendario fisiologico, e immagina una scrittura feromonica, come nelle marcature del territorio di molti mammiferi.

Infine, il racconto che dà il titolo al libro si apre con una scoperta sensazionale: dei pescatori delle calanques di Cassis ritrovano un’iscrizione, frammenti di un testo su vasellame scritto con l’inchiostro da uno o probabilmente più polpi. Un evento sorprendente, perché questi animali non si preoccupano di lasciare tracce durature, vivono all’insegna della furtività, non restano nella stessa tana che qualche giorno, non sono abitudinari.

Che la nuvola d’inchiostro serva non solo per mimetizzarsi, per sottrarsi ai nemici, per ingannare i predatori ma sia anche un medium pienamente espressivo? Che i polipi realizzino così il loro autoritratto o scrivano la loro autobiografia o simbiografia? Una biografia multipla perché redatta con uno dei suoi otto tentacoli: “Le ventose sui tentacoli sono sia sensori che regolatori, e possiedono diecimila neuroni che permettono al polpo allo stesso tempo di toccare e gustare” (p. 82). Al confronto, gli umani sono designati come Ptochopod o poveri di braccia. Se l’ipotesi è legittima, l’inchiostro serve al polpo non solo per celarsi ma, al contrario, anche per esprimersi, per creare scrivendo. E i colori della sua pelle non sono solo un adattamento all’ambiente circostante per fare tutt’uno con questo ma un modo di comunicare le proprie sensazioni. Non è un caso che Vinciane Despret, sulla scia di Spinoza e Deleuze, ricorra spesso agli affetti.

È a partire da tali suggestioni “polpesche” che prende avvio il nostro dialogo.

photo © Yung-sen Wu

Scrittura

RICCARDO VENTURI – Tra i diversi tentativi di considerare la scrittura degli animali, il caso del polpo – che di recente riscuote una grande attenzione, se non un entusiasmo ben al di là della scienza – è sorprendente. Secondo l’oceanografa Sylvie Earle, il polpo potrebbe aiutarci ad avvicinarci alla fauna marina, verso la quale non proviamo, in generale, lo stesso attaccamento che proviamo verso quella terrestre.

Diversa è tuttavia la sua proposta: non si tratta di scrivere la biografia di un polpo, come nel celebre documentario My Octopus Teacher (2020) ma, in modo più radicale, di immaginare che il polpo possa scrivere la sua propria autobiografia o simbiografia. Questa sarà necessariamente lacunare, aforistica, criptica, evanescente – il polpo si esprime “en furtif” – e lei si esercita a interpretare un brano di letteratura cefalopode frammento per frammento, come se si confrontasse con la filosofia pre-socratica.

Per questo vorrei rivenire sul ruolo decisivo che ha la scrittura in Autobiografia di un polpo. Da un lato, possiamo intenderla come l’estensione di una facoltà che abbiamo a lungo creduto distinguere la specie umana nel mondo del vivente. Dall’altro lato, lungi dall’essere un medium neutro, è una tecnologia culturale del corpo che, a partire dall’alfabeto greco, ha condensato l’esperienza del mondo fino a irrigidirla, a sclerotizzarla. Penso in particolare a David Abram[4] che critica il ruolo del nostro linguaggio rispetto a quello che chiama il “more-than-human world” (cui lei fa riferimento nelle note). Non rischiamo di assimilare gli animali al nostro mondo attribuendogli una forma specifica di linguistica?

Come considerare la terolinguistica: come un’estensione della facoltà umana ai non umani (animali ma anche piante)? O meglio, in che modo i suoi “récits d’anticipation” sui messaggi animali a carattere espressivo o simbolico contribuiscono a un’estensione – o a una riattivazione – della nostra sensibilità e della nostra attenzione al mondo al di là dell’umano?

VINCIANE DESPRET – Credo che per rispondere alla sua domanda dobbiamo innanzitutto collocare il polpo nella serie degli altri tre racconti, e soprattutto affiliarlo alla meravigliosa novella di Ursula Le Guin, che prevede tra l’altro la scrittura animale. Da un lato, la scrittura feromonica, propria delle formiche, che apre il suo racconto è quella che definirei una scrittura che genera sensazioni. Inoltre, per riprendere la sua allusione ad Abram, le altre forme di scrittura presenti in questo stesso racconto di Le Guin, quelle dei pinguini Adélie o dei delfini ad esempio, sono caratterizzate da una dimensione fondamentalmente effimera. I terolinguisti immaginati da Le Guin parlano di movimento, di danza, di coreografia: “una scrittura poetica basata su movimenti di ali, di colli e di aria”.

Il primo caso, quello delle tracce feromoniche intenzionali lasciate da una formica, sarebbe quello che più si avvicina a quanto chiamiamo scrittura: si tratta, e riprendo una definizione semplice che trovo ad esempio in Michel Serres, di tracce o segni che codificano un significato[5]. Se dovessi riprendere Abram, anche qui avremmo tale caratteristica animistica che l’autore attribuisce alla lettura e alla scrittura: “un testo ci parla”. O, più precisamente, un testo ci colpisce, ci fa agire, e lo fa a distanza. La formica del racconto di Le Guin, ormai scomparsa, continua ad affettare e stimolare, a fare agire, a far leggere, a toccare coloro che saranno i suoi lettori. 

Credo che la cosa più importante nel tradurre in scrittura le diverse forme di comunicazione degli animali non umani sia stato, per me, impegnarmi su un doppio fronte. In primo luogo, riconoscere la sconfinata pluralità delle forme di scrittura – forme visive, olfattive, feromoniche, uditive, ondulatorie, coreografiche, effimere, eccetera – e leggere queste forme come modalità espressive complesse. Nell’atto di studiarle e conoscerle meglio, di decifrarne i significati (anche se solo in parte), ci diamo la possibilità non solo di misurare la ricchezza dell’insieme di queste “saggezze”, come le chiama Val Plumwood[6], ma anche di prestare attenzione agli effetti delle nostre modalità espressive (le nostre luci, i nostri rumori, le nostre onde e così via). Queste non cessano di invadere, inquinare e interferire con quelle animali, rendendogli la vita molto difficile se non impossibile.

In secondo luogo, considerare i viventi accomunati dallo stesso gesto di scrittura conduce a un effetto paradossale molto interessante dal punto di vista epistemologico e politico: li rende più “vicini”, più simili, per meglio mettere a fuoco le loro differenze, le loro singolarità e la loro estraneità. Per renderli “genitori alieni”, come dice Baptiste Morizot.

Resta il fatto che i personaggi animali dei tre racconti che ho scritto – i ragni, i vombati e i polpi – conferiscono alla scrittura una modalità differente: i ragni hanno optato per le vibrazioni (una scrittura effimera e non visiva), i vombati, invece, per una scrittura che potremmo definire anale piuttosto che digitale (per riprendere una distinzione che ritrovo nella storica Erica Fudge)[7], che è sia visiva (le pareti di feci) che chimica o feromonica, quindi in qualche modo sia stabile nella sua forma (la disposizione del muro) che instabile nel suo contenuto (i mattoni di feci, i cui feromoni sono evanescenti).

Riguardo al polpo, ho esitato a lungo: avrei potuto scegliere la modalità di scrittura con cui il polpo comunica con la sua pelle, attraverso delle immagini cromatiche (al proposito mi è piaciuta molto l’analisi di Vilém Flusser che propone nel suo articolo[8], che mostra come lo specialista dei media che era Flusser non potesse che essere interessato alle pratiche comunicative dei polpi e dei calamari, che vanno ben oltre il camouflage). Questo avrebbe portato a una scrittura artistica, visiva ed effimera. E in tutti e tre i casi – ragno, vombato e polpo – la scrittura è definita dai suoi effetti, dal suo potere di affettare i “lettori” (intendo coloro a cui queste scritture sono indirizzate o che si sentono indirizzati da queste). Ciò vuol dire che si tratta di una scrittura molto più vicina alla letteratura o alla poesia che non a quella che mira semplicemente a informare e comunicare conoscenze, come la prosa scientifica.

RV – Tuttavia, come accennava, non è questa la strada che alla fine ha seguito a proposito del polpo…

VD – Esatto. Per il polpo, ho rinunciato a seguire la strada della scrittura cromatica sulla pelle e ho scelto l’opzione, ammetto più agevole, di attribuire al polpo una forma di scrittura più vicina alla nostra, basandomi sulla loro capacità di proiettare inchiostro (l’idea era troppo bella!). Questa scelta ha reso il polpo più vicino alla nostra modalità operativa di scrittura, e infatti non sfugge alla critica di Abram, così come a quella di una certa forma di antropocentrismo. Ho dovuto quindi accettare tale scelta con tutti i suoi limiti, e cercare di correggerli.

È qui che entra in gioco la trama. Il problema di questo racconto non è tanto la traduzione del testo scritto dal polpo (questo è il motivo, non l’impalcatura complessiva) ma un esperimento: interrogarsi e cercare di comprendere cosa voglia dire far esistere un mondo di sensazioni ‘polpesche’ quando si è umani. Cosa esige in termini di trasformazione del linguaggio, del corpo, delle relazioni, dei modi di sentire? Quello che mi interessava in questo racconto era quindi dar vita a una comunità che si facesse carico di tali esperimenti sensibili e corporei, di tali esperienze su altri modi di essere – qui mi sono ispirata alle storie di Camille di Donna Haraway in Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Una sperimentazione etologica per così dire, etologica nel senso in cui Gilles Deleuze parlava dell’etologia in quanto scienza pratica delle potenze[9], di ciò di cui gli esseri sono capaci, dei loro poteri di affettare ed essere affetti.

E allora, per tornare alla sua prima domanda, ho la netta sensazione che abbiamo tutto da guadagnare nel considerare che gli animali abbiano delle forme di scrittura, e nel leggere le tracce, i canti, i modi di dialogare con ciò che li circonda, di lasciare messaggi come produzioni letterarie, poetiche… Perché così facendo modifica la nostra attenzione nei loro confronti, perché destabilizza l’evidenza della nostra eccezione e perché ci invita a considerare che queste tracce sono anche degli archivi che danno loro la possibilità di avere una propria storia. Ma questo è un’altra questione su cui sto attualmente lavorando.

Vinciane Despret ©Sylvère Petit

Fiction

RV – Rispetto alle sue pubblicazioni precedenti, Autobiografia di un polpo abbandona il registro del saggio critico,nettamente segnato dalla finzione e dalla fabulazione, presentati sotto forma di pastiche, e a volte di parodia, della scrittura accademica.

Come il gioco ha un ruolo strategico nella vita dei polpi, così lei stabilisce coi suoi lettori un gioco sottile dove la soglia tra scienza e letteratura – ma anche tra realtà e finzione – diventa porosa. Immagina un mondo in cui le tele di ragno, così come i muri fecali dei vombati, finiscono nella lista del patrimonio culturale dell’Unesco. Ma anche quando si spinge molto più lontano con la fantasia, non fa in fondo altro che sviluppare uno scenario scientifico probabile, possibile, ipotetico e senza dubbio credibile.

Confesso di aver verificato i nomi di diversi ricercatori che menziona, incerto se esistessero o meno, se le ricerche astruse che gli attribuisce fossero vere. Quando parla di octopolis – una città subacquea costruita dai polpi – pensavo a una invenzione poetica, mentre in realtà esiste davvero. Lo stesso per l’articolo sulla forma delle feci dei vombati: persuaso che fosse una sua fabulazione, è stato veramente pubblicato e così via. Autobiografia di un polpo compare tra l’altro in una collezione dove gli scienziati si esprimono alla prima persona, raccontano storie, una sorta di letteratura scientifica o di nature writing che rimette in causa le ripartizioni disciplinari.

Può rivenire sul ruolo che la finzione gioca in Autobiografia di un polpo, anche nel contesto più largo degli autori e delle autrici cui fa riferimento e con cui dialoga?

VD – Innanzitutto, credo che questo libro sia in qualche modo una continuazione di Habiter en oiseau[10]. Solo che in quel libro mi sono attenuta esclusivamente a quanto gli scienziati avevano scoperto e mi apprendevano. Come ho annunciato chiaramente nell’incipit, si trattava di aprire, di estendere l’immaginazione a un tema: cosa vuol dire abitare, avere un territorio, così come, e l’ho scoperto man mano che la mia ricerca avanzava (grazie soprattutto a Deleuze e Guattari e a Souriau)[11], aprire l’immaginazione all’idea che le manifestazioni territoriali appartengano al registro del gioco e allo stesso tempo dell’arte. Così ho cominciato a realizzare quanto fosse interessante ripensare lo svolgimento del gioco e soprattutto considerare gli animali come degli artisti.

Si tratta di immaginare meglio e di più, il che non significa che ciò che si immagina non sia reale. No, è assolutamente reale, ma deve essere immaginato per essere percepito. Richiede di prestare attenzione ad alcune cose che normalmente non si percepiscono se non si immagina che ci sia qualcosa, che ci sia qualcos’altro. Sono come delle anamorfosi, in effetti. Ciò richiede di uscire dalla routine, dal campo della percezione abituale. Questo qualcosa che sarà percepito e che non lo era stato richiede che vi spostiate per essere sentito o pensato o percepito. E questo spostamento non lo compiete per caso, ma perché immaginate che ci possa essere qualcosa d’altro, cioè semplicemente qualcosa.

Così, nei racconti, ho voluto estendere questo gesto e spingerlo più lontano. Andare verso qualcosa che è ancora troppo presto per dire o per sentire che potrebbe essere reale. L’immaginazione è liberata da alcuni vincoli. E questo può creare sorprese inattese. Così, quando ho immaginato che i teroarchitetti potessero attribuire una qualche forma di spiritualità ai vombati, che si sarebbe manifestata nei muri di feci che in realtà erano cairn, non sapevo (finché il filosofo dell’etologia Thibault De Meyer me lo dicesse) che gli scimpanzé erano stati recentemente oggetto di un’ipotesi stranamente identica, prima da parte di uno storico delle religioni, poi da parte di primatologi che avevano assistito a comportamenti rituali davanti a quelli che si rivelavano essere dei cairn.

In effetti, il confine tra scienza e finzione non è solo poroso nel gioco della narrazione, ma lo è altrettanto nel mondo reale, che si trasforma incessantemente. Con gli animali siamo davvero in quello che William James chiamava “un mondo in divenire”. E la sua sorpresa riguardo l’esistenza di octopolis non fa che testimoniarlo, così come lo testimonia la mia quando scopro che gli scimpanzé hanno il senso del sacro.

Infine, riguardo all’ultima parte della sua domanda – il dialogo con altre autrici e altri autori – la narrativa mi ha permesso di ampliare lo spettro dei protagonisti chiamati in causa in questo dialogo, includendo artisti, una scrittrice di fantascienza, romanzieri come Alain Damasio, i cui Les furtifs mi ispirano molto, filosofi dell’estetica, nonché infine un gesto che mi è caro: riprendere unafiction di Donna Haraway, la storia delle Camille, estendendo questa storia e creando una comunità sorella con cui la comunità del compost immaginata dall’autrice è in relazione. Capita che Donna e io ci scriviamo col nome di uno dei personaggi di ciascuna delle nostre comunità speculative, lei firmandosi Camille e io Sarah Buono, dal nome della giovane terolinguista inviata nella comunità che vive in simbiosi con i polpi. Un dialogo che è stato tra l’altro oggetto di un cortometraggio di Diana Toucedo, Camille et Ulysse.

Arti visive

RV – Il primo testo sui ragni e gli acufeni proviene da un catalogo di Tomás Saraceno; qui suggerisce tra l’altro che i ricercatori dovrebbero rivolgersi ai ragni come artisti, o come artisti che parlano ad altri artisti. In seguito immagina un museo di tero-archietttura e la mostra Poetica formale e architettura religiosa tra i vombati. E la pubblicazione di Autobiografia di un polpo coincide con la mostra Avec qui venez-vous au Musée ? da lei curata al Centre Pompidou di Parigi (20 marzo-27 giugno). Senza dimenticare che già nel 2007 aveva curato alla Grande Halle de la Villette Bêtes et Hommes.

Molti temi che tratta – e con Autobiografia di un polpo anche il modo in cui li tratta – risuonano in modo distinto con le arti visive contemporanee. Se alcuni anni fa questi temi interessavano soprattutto l’etologia, oggi sono al centro dell’agenda dell’arte contemporanea. Come considera tale convergenza? E ancora, a suo avviso siamo realmente davanti a una nuova sensibilità ecologica che le arti visive contribuiscono ad articolare?

VD – La storica dell’arte Estelle Zhong Mengual ha mostrato nel suo libro Apprendre à voir. Le Point de vue du vivant[12] che gli artisti hanno svolto un ruolo molto importante in quello che potremmo definire il risveglio alla natura, e questo già nel XIX secolo. Ci hanno insegnato a vedere. Oggi, due aspetti mi sembrano notevoli nel lavoro di molti artisti: ci insegnano a destabilizzare relazioni che fino ad allora sembravano evidenti e cercano di dare forma ad affetti ed emozioni che abbiamo difficoltà a identificare.

Il filosofo e antropologo Bruno Latour afferma qualcosa di estremamente interessante al proposito nel suo libro Mémo sur la nouvelle classe écologique[13]: sottolinea che “i nostri affetti ci mancano”, perché non sono più allineati con la situazione attuale, mentre finora corrispondevano a degli ideali (che siano quelli della sinistra emancipatrice, quelli liberali legati al progresso o altri). Credo che questo sia il ruolo cruciale degli artisti, rendere visibile o significativo (anche importante) ciò che ci affetta e aiutarci a dare forma a questi affetti e a crearne di nuovi richiesti dalla situazione.

Ma sto rispondendo solo a una delle possibili convergenze, per usare le sue parole. Gli artisti partecipano alle diagnosi che la nostra epoca deve fare, ma direi che ne propongono una traduzione che “tocca”, che colpisce. Prendiamo ad esempio il caso delle estinzioni: sono cifre che spesso ci vengono sbattute in faccia e possono allarmarci, ma non credo che abbiano il potere effettivo di farci sentire quello che sta accadendo. Ed è qui, a mio avviso, che gli artisti, non solo quelli visivi, prendono il sopravvento.

In copertina: photo © Yung-sen Wu


[1] Vinciane Despret, fabriquer des mondes habitables. Dialogue avec Frédérique Dolphijn, Esperluète Éditions, Noville-sur-Mehaigne 2021. Ringrazio Amandine Milic per avermi aiutato nella versione francese di questa intervista.

[2] Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Edizioni, Roma 2019; The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago 2003.

[3] Michel Serres, Biogea. Il racconto della terra, Asterios Editore, Trieste 2016.

[4] David Abram, The Spell of the Sensuous. Perception and Language in a More-than-Human World, Pantheon, New York 1996. Inedito in italiano, la sua traduzione francese nel 2013 ha costituito un evento editoriale per chi s’interessa all’ecologia del sensibile.

[5] Cfr. Michel Serres, Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

[6] Cfr. Val Plumwood, “The Wisdom of the Balanced Rock. The Parallel Universe and the Prey Perspective”, in The Eye of the Crocodile, Australian National University Press, Canberra 2012, pp. 35-46.

[7] Cfr. Erica Fudge, Animal, Reaktion Books, London 2002; Pets. The Art of Living, Routledge, Abingdon-New York 2008.

[8] Riccardo Venturi, Lenfer dans locéan. Vampyroteuthis Infernalis de Vilém Flusser, in Larisa Dryansky, Antonio Somaini, Riccardo Venturi (a cura di), Repenser le médium. Art contemporain et cinéma, Les presses du réel, Paris 2022, pp. 135-169.

[9] Cfr. Gilles Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Editions de Minuit, Paris 1981, 2003, tr. it. Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991.

[10] Vinciane Despret, Habiter en oiseau, Actes Sud, Arles 2019.

[11] Cfr. Etienne Souriau, Le sens artistique des animaux, Hachette, Paris 1965. Non più ristampato in francese e ormai introvabile, segnalo la recente traduzione italiana: Il senso artistico negli animali, Mimesis, Milano 2022.

[12] Estelle Zhong Mengual, Apprendre à voir. Le Point de vue du vivant, Actes Sud, Arles 2021.

[13] Bruno Latour, Nikolaj Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique, Les Empêcheurs de penser en rond, Paris 2022.

Riccardo Venturi

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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