Douglas Sirk, l’imitatore della vita

Nessuno è alla sua altezza, così sentenzia Rainer Werner Fassbinder. Oggetto della sentenza un altro regista, anche lui nella storia del cinema ma in una posizione più nascosta: Douglas Sirk, nato Hans Detlef Sierck nel 1897. Nonostante Fassbinder lo riconosca come suo maestro e abbia contribuito non poco alla sua rivalutazione (insieme a qualcuno del gruppo dei Cahiers du cinéma, Godard in testa), ancora oggi si stenta a riconoscere in Sirk uno dei grandi registi hollywoodiani del secondo dopoguerra. Per lui non si è ancora (del tutto) verificata la canonizzazione di cui hanno goduto Alfred Hitchcock o Billy Wilder (per fare i nomi di altri due grandi immigrati europei). Il motivo è forse l’insistenza di Sirk sul melodramma, genere apparentemente banale e guardato con sospetto per il rischio di facile sentimentalismo; la conseguenza è l’essere stato bollato come abile confezionatore di storielle buone per il pubblico di massa, come discreto artigiano e nulla più, non degno del grado di autore.

Lentamente si procede a dare a Cesare quel che è di Cesare. Un passo importante lo fa il Saggiatore, colmando una fastidiosa lacuna nell’editoria italiana. Sotto il titolo Lo specchio della vita (come il suo ultimo film, forse il suo capolavoro) è stato infatti tradotto Sirk on Sirk, libro intervista di Jon Halliday pubblicato nel 1971. Ci sono voluti più di cinquant’anni, dunque, per leggere in italiano un’appassionante conversazione con un maestro del cinema, che nel catalogo del Saggiatore va a sistemarsi accanto ai certo più memorabili libri intervista con Hitchcock, Welles, Leone e Haneke. Completano il volume un’introduzione di Halliday, una lunga prefazione del curatore italiano Andrea Inzerillo, il testo di Fassbinder con la sentenza di cui sopra, una breve postfazione di Goffredo Fofi e un’esaustiva biofilmografia.

Col definire più memorabili i libri gemelli nel catalogo del Saggiatore, non voglio dare certo un giudizio sull’intervistato. A prescindere dalla maggiore simpatia per l’uno o l’altro di quei registi, si parla comunque di grandi personalità che hanno indagato in maniera profonda il loro rapporto col cinema. La critica è semmai all’intervistatore. Senza voler essere troppo ingrati con Halliday, cui va il merito di essere riuscito a tirare fuori a Sirk qualcosa di più dei tantissimi aneddoti che lo riguardano, bisogna riconoscere che non regge il confronto con Truffaut o Bogdanovich che, con ogni probabilità perché sono stati a loro volta registi importanti, sono stati ben più capaci di entrare negli orizzonti artistici rispettivamente di Hitchcock e Welles. Halliday, come già accennato, lascia troppo spazio a un’aneddotica comunque necessaria in certi casi a comprendere alcune sfumature dei film di Sirk (davvero straziante la storia del suo unico figlio, per esempio). Ma tra un episodio e l’altro, il flusso si interrompe con considerazioni e prese di posizione che rappresentano il vero motivo per cui Sirk on Sirk è ancora oggi una lettura interessantissima. Questi lampi di luce si addensano soprattutto verso la fine, perché è nell’ultimo scorcio della sua carriera che Sirk raggiunge i risultati più ammirevoli.

La sua vita può essere divisa in due grandi periodi: quello tedesco e quello americano. Nel primo è Detlef Sierck, nato ad Amburgo da una famiglia danese, appassionato di lettura fin da giovane e inseritosi nel mondo del teatro già nei primi anni Venti col ruolo di assistente dramaturg, per poi diventare uno dei più apprezzati registi teatrali tedeschi. Con l’avvento di Hitler e il quasi contemporaneo passaggio alla regia cinematografica (nel 1934 presso l’Ufa, la maggiore casa di produzione che, pur gestita da un fedelissimo del regime come Alfed Hugenberg, mantiene un relativo margine di autonomia creativa) le cose si complicano per lui, uomo di sinistra per di più sposato in seconde nozze con un’ebrea. Si tratta comunque di un periodo incredibilmente formativo che gli consente di sperimentare nuove forme e di scrollarsi di dosso l’antica dipendenza dalla letteratura e dal teatro: «Già prima di cominciare a fare film avevo capito che il cinema e il teatro sono due mezzi completamente diversi, ma all’inizio ero terribilmente legato alla letteratura. Da La nona sinfonia in poi mi dedicai completamente al tentativo di sviluppare uno stile cinematografico. Comincia a comprendere che la macchina da presa è la cosa più importante al cinema, per creare emozione. In inglese si dice: motion is emotion (il movimento è emozione), e questo non esiste nel teatro».

Quando la situazione diventa insostenibile gli rimane solo la fuga: ma Sirk porta con sé uno straordinario bagaglio di esperienze, oltre che di amarezze («Quel che è successo in Germania ha modificato del tutto la mia visione del mondo. Mi ha reso pessimista e sospettoso nei confronti delle persone»). È il 1937 e prima di arrivare negli Stati Uniti, passa per l’Italia, la Svizzera (dove si stabilirà anche a fine carriera e dove morirà nel 1987), la Francia e l’Olanda. Negli ultimi anni tedeschi si era consumata la tragedia del figlio avuto dal precedente matrimonio. La prima moglie, fervente nazista, ottiene dal tribunale un ordine restrittivo che impedisce a Detlef di vedere il figlio; e spinge il ragazzo a fare l’attore, contravvenendo a un’esplicita richiesta del padre. Così l’unico modo che Sirk ha di vedere il ragazzo è sullo schermo, una situazione che potrebbe ben figurare in uno dei suoi melodrammi americani. Klaus Detlef Sierck, quasi suo omonimo, morirà sul fronte russo.

Oltre oceano, nel 1939, comincia per lui una nuova vita. Una vita difficile, almeno all’inizio. Sirk non ha lavoro e si deve reinventare: almeno fino al ’42, quando l’industria cinematografica decide di assumere tutti gli immigrati e la Columbia gli offre un contratto di sette anni. È a quel punto che scopre altre forme di tirannia: quella delle case di produzione e dei loro dirigenti. In compenso, ha modo di conoscere davvero l’America girandola in lungo e in largo seguendo magari le orme dei tanti classici della sua letteratura letti in Europa (tra i suoi punti di riferimento Melville, James, Faulkner – dal cui Pilon trarrà spunto per girare Il trapezio della vita – e Sherwood Anderson). Questa conoscenza della società americana gli sarà estremamente utile quando nei suoi film migliori intreccerà la psicologia dei personaggi, in maniera complessa e spesso dolorosa, con le più rigide convenzioni sociali.

Terminato, malamente, il contratto con la Columbia (e col tirannico produttore Harry Cohn), si accasa presso la più piccola Universal, dove viene trattato con correttezza e ha una relativa libertà sul lavoro – anche se «naturalmente dovevo seguire le regole, evitare sperimentazioni, attenermi ai valori della famiglia, avere degli happy ending e così via». Come sempre i grandi autori costretti ai compromessi col diavolo della produzione, anche Sirk si trova a muoversi ai margini di queste regole, cercando di piegarle sotto un apparente rispetto per trovare i suoi spazi di creatività. E alcuni dei suoi film non celano del tutto una certa ambiguità nei confronti di quei valori tradizionali, nonché del lieto fine d’ordinanza. Il trapezio della vita (The Tarnished Angels, 1958: vicino di studio durante le riprese era Welles, impegnato con L’infernale Quinlan), marcatamente pessimista, è l’esempio migliore; ma anche un film in apparenza più semplice come Secondo amore (All That Heaven Allows, del 1955) mostra una certa insofferenza per quelle coercizioni.

Ron (Rock Hudson, il suo attore feticcio) e Cary (Jane Wyman) si amano a dispetto dei molti anni in più di lei, rispettata vedova con due figli e perfettamente integrata nella società alto borghese in cui è sempre vissuta. Lui è un giardiniere che rifiuta le convenzioni e i pregiudizi dei suoi datori di lavoro, e sceglie di vivere in campagna a contatto con la natura (a un certo punto compare in bella vista una copia del Walden di Thoreau). Il loro amore è socialmente impossibile e i primi a opporsi sono i figli, che riusciranno a spingere la madre a lasciare l’uomo per poi abbandonarla in completa solitudine. Della famiglia tradizionale traspare un’immagine di puro egoismo scolpita nel rispetto di stereotipi e conformismo. E nel finale, quando pure sembra che Cary torni sui suoi passi, un evento sconvolge tutto e non ci è dato sapere se i due innamorati riusciranno a restare insieme. Una scena è particolarmente interessante. Quando i figli comunicano alla madre i loro piani e di fatto l’intenzione di lasciarla a vivere da sola, le portano un regalo di Natale, un televisore nel quale Cary si specchia con sguardo triste. È un’immagine che segna fortemente il contrasto tra Ron, uomo più spartano e vicino alla natura, e lei, in balia di una borghesia che riempie le abitazioni con ipocrisia e oggetti inutili. E non a caso si tratta un televisore: un apparecchio che trasmette immagini, uno schermo, una specie di cinema in miniatura dove la protagonista vede riflessa la sua immagine come potrebbero fare molti spettatori guardando questo film.

Non è argomento che venga toccato in profondità nella conversazione con Halliday, ma Sirk ha ragionato molto sul potere delle immagini, dello spettacolo e dell’artificio, e non solo nei termini di giochi di luci o di costruzioni di ambienti curati fino all’ultimo dettaglio. Certo, lo ha fatto partendo da quelle che sono le sue (magnifiche) ossessioni: la famiglia, i rapporti umani (con una certa amarezza), la brevità dei bei momenti (si veda Tempo di vivere, cioè A time to love and a time to die, 1958), l’essere paralizzati dai propri desideri e dai propri fallimenti: «L’incertezza, la vaghezza delle aspirazioni umane sono al centro dei miei film, per quanto queste caratteristiche possano essere nascoste. Mi interessa la circolarità, il cerchio – le persone che finiscono per arrivare al punto da cui sono partite. Ecco perché in molti dei miei film si possono trovare quelli che io chiamo “rondò tragici”, storie di persone che girano in tondo. È questo che fanno la maggior parte dei miei personaggi».

L’esempio più evidente è Lo specchio della vita (Imitation of life, 1959). Anche qui troviamo un mondo fatto di orrende convenzioni, dove tutti sono chiusi in una sorta di sordità egoistica e il confine tra finzione e realtà si fa sottilissimo. Due donne, Lora (Lana Turner) e Annie (Juanita Moore): in apparenza è la prima la protagonista, aspirante attrice che dalle difficoltà iniziali riuscirà a diventare una delle interpreti più richieste dai teatri; ma piano piano, senza che nessuno se ne accorga, è Annie, la cameriera di colore, a prendersi il centro della scena. Ma quello tra la donna bianca e la donna nera è solo uno dei rapporti che innervano il film. C’è quello mai del tutto stabilizzato tra Lora e Steve (John Gavin), e soprattutto quello tra le donne e le rispettive figlie. Quella di Annie, Sarah Jane (che da adulta è interpretata da Susan Kohner), è particolarmente problematico a causa di un singolare dettaglio: avendo la pelle molto chiara, può tranquillamente farsi passare per una ragazza bianca, il che rende più drammatico il legame con la madre, di cui Sarah Jane si vergogna. Miracoli del cinema e del suo gioco con i colori.

Tutto il film è un rimbalzare tra il cinema, costruzione artificio e finzione, e la realtà; e ci si chiede chi sia ad imitare la vita, se il cinema o gli esseri umani. Lo spettacolo è ovunque: Lora è un’attrice, Steve fotografo, Sarah Jane scappa di casa e fa la ballerina in un night da due soldi («la ragazza nera che prova a scomparire nel mondo dell’imitazione, il mondo dello spettacolo di varietà»), perfino il funerale alla fine del film è spettacolare, non fosse altro che per la presenza, nel ruolo di sé stessa, della cantante Mahalia Jackson. L’unica eccezione potrebbe essere la figlia di Lora, Susie, la quale tuttavia si ritaglia una scena centrale che mette gambe all’aria gli atteggiamenti della madre: durante una litigata tra le due, Lora sembra pentirsi ma lo fa con un’affettazione tale che Susie può solo rinfacciarle che sembra stia recitando. Parlando con Halliday, Sirk ci dice che «l’imitazione della vita non è la vita vera», peccato che in questo inquietante gioco di apparenze tutti cerchino solo di imitare, tentando inutilmente di sfuggire a sé stessi, nel contesto di un paese lacerato dalle sue dinamiche razziali e sociali (dice Fassbinder: «Nessuno dei protagonisti si rende conto che tutto, pensieri, sogni, desideri, deriva dalla realtà sociale e ne viene manipolato»). Il finale sembra poter aggiustare tutto, quando ci si rende conto di quanto Annie fosse importante per la vita di tutti; ma è lecito pensare che non sia così, che la temporanea presa di coscienza si esaurisca nel giro di un pianto e che poi ognuno tornerà ai suoi errori. Del resto, nessuno riesce a superare davvero il suo egoismo, tutti credono necessario imporre i propri desideri (paradossalmente perfino la più indifesa Annie) e nessuno conosce davvero le persone che hanno accanto (solo alla fine Lora scopre certe cose su Annie e sulla figlia. Possibile? Sì, si chiama famiglia, si potrebbe rispondere). Si capisce come tutto questo resti solo nel terreno del non detto e dell’allusione: la Universal non avrebbe mai concesso un finale diverso.

Il finale dello Specchio della vita rappresenta emblematicamente anche il finale della carriera di Sirk, proprio nel momento più alto (solo per dovere di cronaca si ricordano i tre cortometraggi girati nel ’78 nelle vesti di docente della Scuola di cinema e Tv di Monaco). La sua scelta di abbandonare Hollywood non è così paradossale. Lo specchio della vita ha l’aria di essere il film di un uomo che vuole chiudere i conti con certi argomenti, e probabilmente non è una coincidenza che la sua opera finale sia quella che ragiona di più sul valore e sul ruolo del cinema. Inoltre, siamo nel 1959. Gli anni Sessanta sono alle porte e una nuova generazione, carica di quei malesseri e di quella inquietudine di cui un primo assaggio era già stato dato da Nicholas Ray con Gioventù bruciata, sta per affacciarsi nel panorama cinematografico. Per un uomo nato nel tardo Ottocento forse non c’era altro da dire, ed è questo che con grande umiltà Sirk spiega ad Halliday: «mi resi conto che tutto questo apparteneva al passato. Mi ero ormai stufato di film di questo genere, in un certo senso tipici della Hollywood degli anni cinquanta e della società americana, che all’epoca tollerava soltanto le storie gradevoli e non quelle che disturbano la mente. Sapevo che sarebbe presto nata una Hollywood completamente nuova, aperta a film come Easy Rider, o a ogni modo a film di natura e stile completamente diversi».

Non era stato comunque un addio facile, come non lo è stata la relativa indifferenza che lo ha seguito. Ma Sirk farà in tempo ad assistere, tra gli anni Sessanta e i Settanta, ai primi passi di quella rivalutazione che, per quanto lenta e incerta, continua ancora oggi. Qualsiasi contributo spinga a vedere i suoi film è solo ben accetto.

Douglas Sirk con Jon Halliday
Lo specchio della vita
a cura di Andrea Inzerillo
con scritti di Rainer Werner Fassbinder e Goffredo Fofi
il Saggiatore, 2022, 360 pp., € 33

In copertina: una scena del film Secondo amore (All that Heaven Allows), di Douglas Sirk (1955)

Massimo Castiglioni

(Roma, 1988) si è laureato in Letteratura alla «Sapienza» e scrive principalmente di cinema e letteratura. Ha lavorato nella redazione della casa editrice Ensemble ed è uno degli autori del libro collettivo “Roma degli scrittori” (Artemide 2015). Collabora e ha collaborato con diverse riviste tra le quali «L'Indice dei libri del mese», «alfabeta2», «Dude Mag» e «Altri Animali».

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