“a quello che siamo, a quello che eravamo e a quello che saremo”
Fandango (Kevin Reynolds, 1985)
In molte culture la sfera rappresenta l’involucro dentro cui l’uomo si percepisce nel mondo. Nella fisica aristotelica evoca la regione del cosmo sotto il cielo della Luna: mondo sublunare e mondo astrale. Goethe, nel 1777, fece costruire nel giardino della sua casa a Weimar un altare della buona fortuna da lui stesso disegnato: un cubo sormontato da una sfera. Peter Sloterdijk, nel suo monumentale Sfere, propone una storia filosofica delle culture umane attraverso la figura della sfera: bolle, globi, schiume. Quel che qui si vuol portare a galla sono le bollicine nel cinema, l’effervescenza di un perlage poco conosciuto. Tre film di epoca diversa (1946, 1966, 1976), di autori diversi (Carol Reed, Jean-Luc Godard, Martin Scorsese), di origini diverse (Inghilterra, Francia, Stati Uniti d’America). Cosa lega tra loro questi film? Un espediente registico introdotto nel 1946 dal regista londinese Carol Reed: le bollicine. Ovvero, una materia gassosa che pensa e fa pensare, agisce e fa agire le coscienze. Ma può la materia pensare o sentire, si chiedevano Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett nel loro L’Io della mente. La coscienza, da sempre la “materia” meno scientifica, diventa passaggio obbligato. Il rapporto tra bollicine, coscienza e cinema – come si direbbe a Hollywood – è una storia cinematografica tutta da scoprire.
Tutti i generi cinematografici sono da sempre abitati dalle bollicine. Già presenti nel cinema degli albori le bollicine diventano col Fuggiasco di Carol Reed un espediente psicologico ripreso più volte da molti registi, su tutti Godard e Scorsese. Entrambi hanno più volte espresso ammirazione per Carol Reed, un’ammirazione che troviamo vent’anni dopo in Due o tre cose che so di lei (1966) e trent’anni dopo in Taxi Driver (1976). Il punto di contatto di questi tre film sono le bollicine che mettono i protagonisti nella condizione di veder salire in superficie i loro guai, forse per la prima volta.
Le bollicine regolano, simbolicamente, la pressione interna dei personaggi evitando la rotta di collisione con la superficie esterna, la realtà. Nel Fuggiasco, così come in Due o tre cose che so di lei e in Taxi Driver, il venir meno del delicato equilibrio tra la pressione interna (i problemi del protagonista) e la tensione in superficie (la rappresentazione dei problemi) – spiegazione fisica della loro origine – fa sì che si gonfino, scoppiettino e infine esplodano svanendo, portandosi via ricordi, rimorsi, frustrazioni, originando pensieri densi e angoscianti. In ognuno di questi film c’è un preciso momento (lo chiameremo sparkling scene) in cui lo spettatore vede crescere questa tensione: succede quando le iridescenti lamine sferoidali, sempre riprese in primissimo piano, compaiono sullo schermo. Le bollicine intrattengono, socializzano, limano le asperità, producono dialoghi e soliloqui, avvicinano i corpi, fanno confessare, inducono all’azione o alla riflessione, filosofeggiano, rompono i tabù, fanno “sentire” la coscienza, la materia che, forse, può pensare o sentire.

Fuggiasco è il primo capolavoro di Carol Reed che lo consacra allo statuto d’autore. Più che soffermarsi sul conflitto politico che si averte in sottofondo, quello irlandese, Reed rivolge la sua attenzione alle vicissitudini dell’irlandese Johnny McQueen, interpretato da James Mason, portando sullo schermo la crisi di coscienza del ribelle Johnny assieme alle conseguenze che ne scaturiranno. Fuggiasco è un noir psicologico di pedinamento di Johnny, l’Odd Man Out del titolo originale (letteralmente, «uomo strano fuori»). La storia, ambientata in una città espressionista – una Belfast notturna – si consuma rapidamente con la feroce rappresentazione del confronto ultimo di un uomo con sé stesso in un paesaggio umano densamente popolato da uomini, donne, ombre e dove abita il Felt Sense, quella significativa sensazione che prende forma attraverso i pensieri, le parole e le immagini. Secondo Andrea Zanzotto un poeta che racconta un paesaggio porta il segno dell’umano: allo stesso modo si può dire per Carol Reed che nel raccontare Belfast trova questo “segno” in James Mason.
Lo stile cinematografico di Reed si adatta sempre al girato che produce rendendolo un regista problematico per la critica cinematografica. Uno stile sospeso tra realismo e visionarietà che rappresenta bene le due anime del cinema inglese di questi anni: l’austero realismo del David Lean di Breve incontro e la visionarietà del duo Michael Powell e Emeric Pressburger di Scarpette rosse. Anche nel Fuggiasco lo stile subisce continui cambiamenti e metamorfosi nel corso del suo svolgersi, sia a livello di regia sia a livello di scrittura, passando dalle suggestioni hard boiled alla Hammett, al realismo tipicamente british, a James Joyce: nel finale, sfinito e prossimo alla fine, Johnny sente cadere la neve su di sé e il nostro pensiero corre a The Dead: «La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti».
Johnny non è straniero in terra straniera ma estraneo nella/alla sua stessa città da cui cerca di sfuggire, un’odissea notturna attraverso la terra di confine che separa la vita dalla morte. Nella sua ostinata voglia di vivere Johnny è l’opposto del fatalista. La sparkling scene sopraggiunge quando, nella più famosa locanda di Belfast, il “The Crown Liquor Saloon” nel film chiamata “The Four Winds”, Johnny, risvegliandosi, fa cadere la pinta di Guinness sul tavolo: un atto immaginativo, quello che per Jung è alla base di ogni accadimento psichico e senza il quale non esisterebbe alcuna coscienza. Questo atto immaginativo, questa immagine, mette in moto la coscienza di Johnny: dapprima osserva stupito, poi terrorizzato, le bollicine che si vengono a formare sul tavolo vedendo, come in un incubo, i suoi guai riflessi: sarebbe interessante – non qui, non ora – pensare al tema del riflesso e del doppio prodotto dalle bollicine come specifica forma della visione, come atto immaginativo. Le bollicine che Johnny vede si moltiplicano, si allargano e prendono la forma di un ritratto multiplo dei personaggi coinvolti nella sua vita e nei suoi guai. L’urlo di Johnny, che si rivede riflesso nelle bollicine, zittisce l’affollato pub e risuona provocatorio, più che disperato. È il grido senza risposta di un uomo il cui destino è quello di morire, ad altri toccherà vivere. Di lui Michael Powell ebbe a dire: «Carol potrebbe mettere insieme un film come un orologiaio mette insieme un orologio». Gli fa eco Roman Polanski: «Lo considero ancora uno dei migliori film che abbia mai visto e un film che mi ha fatto desiderare di intraprendere questa carriera più di ogni altra cosa. Ho sempre sognato di fare cose di questo tipo con quello stile. In qualche modo posso dire che perpetuo le idee di quel film in quello che faccio».

Due o tre cose che so di lei è il tredicesimo film di Jean-Luc Godard. La «lei» del titolo è doppia: è Juliette/Marina Vlady e Parigi. Nel découpage del film Godard scrive: «Quando si sollevano le gonne della città, ne vediamo il sesso». Le gonne sono quelle di Juliette e delle amiche che occasionalmente si prostituiscono, ma sono anche quelle della Parigi in trasformazione negli anni Sessanta: nuda, cruda e un po’ puttana: non più la cité de l’amour, ma la cité consumériste che mette in moto, nei protagonisti del film, un rivoluzionario flusso di coscienza. Due o tre cose che so di lei si ispira da un lato all’inchiesta di Catherine Vimenet (Les étoiles filantes: la prostitution dans les grandes ensembles, 1966) sulla prostituzione occasionale di alcune giovani donne, che consente loro di sopravvivere in una Parigi consumériste, dall’altro alla stagione della ristrutturazione urbanistica della regione parigina, che mette in opera la costruzione delle infrastrutture, delle autostrade, degli accessi e delle uscite a Parigi. Godard filma un’avventura collettiva che evoca la fine della modernità in cui, come direbbe Lyotard, siamo condannati irrimediabilmente al frammento.
Se nel Fuggiasco in sottofondo c’è il conflitto irlandese, qui c’è la guerra in Vietnam. Juliette guarda il mondo pensando all’utopia rivoluzionaria (il Sessantotto è alle porte) e alle conquiste della scienza che presentificano il futuro, una presenza ossessiva che riguarda anche il cinema (si pensi a Jacques Tati): il futuro è più presente del presente. Juliette pensa che lei è il mondo e che il mondo è lei, ma non si riconosce più in questo mondo, lo attraversa, lo osserva, guarda i personaggi che lo abitano come lo sconosciuto al bar. Per alcuni momenti i loro sguardi si incontrano (gli occhi sono per Juliette il corpo), i loro pensieri dialogano indipendenti gli uni dagli altri, in un paesaggio silenzioso (il paesaggio è per Juliette il viso) e così arriva la sparkling scene che si materializza nella tazza di caffè dello sconosciuto avventore. La tazza, in questo preciso momento, è per lui l’unico legame che gli consente di passare da un soggetto all’altro, da sé stesso al mondo. Dal fondo scuro della tazza si allargano cerchi concentrici che si trasformano in bollicine: ecco un altro personaggio diverso e uguale al Johnny del Fuggiasco, che è nei guai (non sappiamo perché), è preoccupato (sappiamo perché). Juliette è seduta al tavolo con le Winston e la Coca Cola, lui è seduto ad un altro tavolo, fuma e beve il suo caffè. Lei lo guarda, lui la guarda, guarda la tazza di caffè e pensa: «Non posso sottrarmi né all’obiettività che mi schiaccia, né alla soggettività che mi esilia». Lei – l’attrice meno godardiana di sempre – si esprime tra sé e sé, un po’ morbida e un po’ dura, pensa che ciò che dice con le parole non è mai quello che dice, lo sconosciuto pensa che le parole uniscono per quello che esprimono e separano per quello che omettono, la tazza è il loro legame. L’ultimo pensiero che ha davanti alla tazza di caffè è: «Dov’è l’inizio? L’inizio di ogni cosa?». Sembra aver dimenticato tutto (l’oblio prodotto dalle bollicine) salvo poi pensare che la vita lo sta portando via, nell’ombra e nella penombra, da dove dovrà ripartire (l’azione indotta dalle bollicine).

Taxi Driver è il quinto lungometraggio di Martin Scorsese. Scorsese ama i film di Reed (Taxi Driver esce in America tre mesi dopo la morte di Carol Reed avvenuta il 25 aprile del 1976) e quelli di Godard. Anche qui un personaggio guardando le bollicine vede i propri guai salire in superficie; anche qui, come nel Fuggitivo e in Due o tre cose che so di lei, il protagonista è un ribelle, ma non un rivoluzionario. Travis è un ex marine la cui insonnia lo porta a cercare un lavoro notturno (il tempo più angoscioso dei pensieri e del pensare) come tassista in una stazione di Taxi sulla 57a strada di New York. Quando gli viene chiesto com’è la sua fedina, risponde: «Pulita, pulitissima come la mia coscienza». La storia di Travis si sviluppa nell’arco di due mesi – da inizio maggio a fine giugno – è una storia di solitudini: quella di Travis (Robert De Niro), di Betsy (Cybill Shepherd), di Iris (Jodie Foster) e delle ombre che vivono nella Grande Mela. Solitudini che fanno da contraltare alla falsa socializzazione promossa dalla campagna politica del senatore Palantine e dallo slogan che lo segue: «We Are The People». Il sottofondo del Fuggitivo è il conflitto irlandese, quello di Due o tre cose che so di lei è la guerra in Vietnam, quello di Taxi Driver è il post Vietnam, quello dei reduci (la guerra in Vietnam è finita da un anno, nell’aprile del ’75, dopo la caduta di Saigon). Travis rappresenta al meglio sia i disturbi post-traumatici causati dalla guerra, sia la cercata rivalsa personale verso una società incapace di accoglierlo.

Paul Schrader, che scrisse e sceneggiò il film, disse di essersi ispirato al diario di Arthur Bremer (il quale tentò di uccidere nel 1972 George Corley Wallace, candidato alle elezioni presidenziali) per costruire il personaggio di Travis che, come Bremer, tiene un diario. Ironia volle che se Bremer ispirò Taxi Driver, Taxi Driver ispirò John Hinkley Jr., follemente innamorato di Jodie Foster, nell’attentato contro Ronald Reagan del 1981. Schrader cita, tra le altre fonti che lo ispirarono, La nausea di Sartre, Lo straniero di Camus e le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Scorsese, che ha sempre riconosciuto il contributo fondamentale di Paul Schrader, una volta dichiarò che per la recitazione e l’evoluzione del carattere di Travis si ispirò a Narsingh, il tassista di Abhijaan (1962) di Satyajit Ray, interpretato dallo straordinario Soumitra Chatterjee, che con Satyajit Ray ebbe una lunga collaborazione.

Come Johnny (Fuggiasco) e come lo sconosciuto del bar (Due o tre cose che so di lei), Travis reagisce al fallimento perché, come dice lo sconosciuto nel bar parigino «ogni fallimento mi confina nella solitudine». Il parabrezza del taxi diventa lo schermo su cui si riflette la città di notte, una proiezione onirica che assorbe e conserva la disperazione di Travis. La solitudine rende simili ed è per questo che Travis la cerca negli altri e in Betsy: «Entrando ho capito che lei non è una persona felice». La sparkling scene arriva quando viene offerta a Travis una pistola che lui rifiuta, rimandando l’acquisto di un vero e proprio arsenale d’armi più in là. Nel bicchiere in cui scioglie una delle tante pasticche che prende, il sommerso comincia a salire in superficie (potere delle bollicine) assieme all’angoscia e alla solitudine: «La solitudine mi ha seguito per tutta la vita, ovunque. Nei bar, nelle macchine, sui marciapiedi, nei negozi, ovunque. Non c’è scampo. Sono un uomo solo. La mia vita ha preso un’altra piega». L’altra piega, l’unica ragione che Travis ha per sopportare la vita, è quella di ripulire la città che ogni notte vede dal taxi (lo stesso parabrezza è una continua sparkling scene dall’inizio alla fine del film) e quando casualmente incontra Iris, la giovane prostituta, il suo unico pensiero è quello di liberarla dal suo pappone. Finirà, come sappiamo, con una carneficina, con la liberazione di Iris e con l’encomio pubblico delle sue gesta. Nel finale, tutt’altro che rassicurante, succede quel che quattro anni prima accadeva in Arancia meccanica di Kubrick: Travis vede allontanarsi Betsy nello specchietto retrovisore, non parla, non dice nulla e tuttavia sentiamo i suoi pensieri, simili alla battuta finale di Alex/Malcolm McDowell che sembra aver riconquistato il suo lato sociopatico: «Ero guarito, eccome!».

Le bollicine, lo abbiamo visto, pensano e filosofeggiano, portano a galla confessioni e pentimenti, con le bollicine si brinda come fanno Leon/Melvyn Douglas e Ninotchka/Greta Garbo in Ninotchka di Lubitsch e si ride: «Garbo Laughs» fu la famosa frase di lancio del film. Leon brinda con Ninotchka dicendo: «Serve sempre una bollicina per iniziare». Con le bollicine possiamo vedere l’inizio e la fine, osservare le metamorfosi degli uomini e dei loro fantasmi, vedere riflessi mondi rovesciati e mondi sfigurati, come accadeva con lo specchio demoniaco del medioevo (ricordatoci da Baltrušaitis). Le bollicine possono anche essere uno strumento oracolare, possono divinare, mai guarire, ancor meno spiegare.
In copertina: Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di lei, 1966