Cara Antinomie,
la cartolina te la scrivo dal castello di Cérisy, dove partecipo a un simposio sulla bellezza vitale. Anzi, sulle bellezze vitali, al plurale.
Oggi è scesa una pioggia estiva di quelle che il cielo sembra sempre sul punto di dirti tutto. Di quelli che prendi ed esci dalla sala neanche fossi una versione pluviale della farfalla di Selige Sehnsucht, ti metti a camminare nel parco, raggiungi l’orangerie, e poco importa se ti è parso di essere diventata l’atmosfera di un’inter-nuvola di Turner o di esserti messa ad abitare le pagine un romanzo inglese dell’ottocento, dall’uno o dall’altro torni ai tuoi appunti con gli abiti che piovono. La cineasta che sta realizzando un film qui, con noi, mi ha chiesto perché sono uscita a cercare la pioggia. Qualche anno fa avrei forse tirato in ballo il clinamen di Epicuro per risponderle. E invece eccole un blando “…c’était beau”, era bello. Ore a preparare il mio intervento sul bello come relazione, per poi far parlare due gocce di pioggia. Poi ci ripenso un po’ e mi dico che forse questa idea della tensione superficiale su cui sto scrivendo ha il suo perché in questo scampolo di storia. In fondo è lei che rende sferiche le gocce d’acqua. Te ne parlerò. Intanto ci penso nella stanza vicino alla charpente che mi ha dato Edith, dalle cui finestre si vedono il ponticello d’ingresso, la campagna e la vecchia torre. È un bozzolo aperto sulla campagna, una soglia tra l’interno e l’esterno che funziona. Il vecchio parquet su cui cammino mi dice che non c’è bello senza spessore temporale, ma questa è ancora un’altra storia. Allora ti saluto, senza nominare tutti i filosofi, gli scrittori e i poeti che in quella sala hanno parlato.
Meglio evitare il name dropping e e lasciare che a cadere sia la pioggia. (Ti dico solo che Foucault aveva ancora i capelli nella foto all’ingresso.)
A presto,
Chiara