Cara Villa i Tigli,
non ci sei più da qualche anno. Sono riuscito a svenderti a una signora attratta da Pavana e dalla montagna pistoiese, severa e ferale. Ti ho venduto perché costavi troppo, per gli alberi che cadevano sulla strada, i cinghiali che sfondavano la rete, i muretti a secco che franavano, la lotta alla piralide che mangiava il bosso. Ma in realtà perché non ti sopportavo più. In fondo ti voglio dimenticare. Sei stata la mia dimora estiva dell’infanzia e dell’adolescenza per tre interminabili mesi, da luglio a fine settembre, poi il primo ottobre iniziava la scuola. Sei stata un incubo dolciastro, con la lunga scalinata protetta dalle siepi petrolio, coi ragni che urlavano e gli insetti stecco immobili, i cervi volanti sul tavolino di midollino, l’uovo sbattuto al Marsala e le ortensie rosa stinto. Tutto era fermo a Villa i Tigli, i comodini alti tarlati e quell’aria pregna di ombre grigie dell’Appennino come le lapidi marezzate di bardiglio dei suoi cimiteri lasciati andare.