Archeologia dell’avanguardia?

Maurizio Fagiolo dell’Arco è il più sottovalutato dei grandi critici di una grande generazione. Forse anche per la scomparsa prematura (a nemmeno sessantatré anni, nel 2002). Gli aveva nuociuto però soprattutto l’abbandono, a sua volta precoce, d’una promettentissima carriera “militante”: vorticosamente svolta sull’«Avanti!» (ma anche su «Marcatré») e siglata nel ’66 da un libro, Rapporto 60, che – inspiegabilmente mai ripubblicato – letto oggi svetta per intelligenza e spregiudicatezza (non c’è critico che abbia saputo indicare meglio di quel ventisettenne, live, la circolazione di stimoli e provocazioni fra le arti visive e l’expanded poetry del tempo; alla presentazione del libro, alla Feltrinelli di Via del Babuino, c’era il maestro Argan – che lo considerava «il migliore e più caro dei suoi allievi» –, c’erano Menna e Calvesi ma c’era pure, occhiali scuri allora d’ordinanza, Elio Pagliarani).

Una disillusione violenta, per l’involuzione ai suoi occhi di un’arte sempre più «sistema», lo porta nel decennio successivo a una scelta di campo, netta e senza rimpianti, per quella che chiama «archeologia dell’avanguardia». (Argan non la prese benissimo: «ma come vuole studiare quei brutti cavalli di de Chirico e quelle piazze cattoliche: non speri di avermi dalla sua parte… Ma non sarà per polemica verso di me che le piacciono Picabia e Dada?». Ciò malgrado il maestro gli preparò la cattedra alla «Sapienza», Fagiolo concorse e vinse, ma alla fine polemicamente rifiutò il posto per restare all’Accademia di Belle Arti: la rottura, stavolta, fu definitiva.) Già nel ’70, invitato a intervenire a un incontro in occasione di Amore mio, la storica prima grande mostra di Achille Bonito Oliva a Montepulciano, Fagiolo declina in questi termini: «molte cose sono cambiate, e soprattutto è cambiato il mio modo di vedere. […] Un critico che oggi si ostinasse a spiegare, sarebbe come quell’incosciente che voleva portare una massa di ciechi a vedere un film muto, e soprattutto non avrebbe capito che quello che gli artisti hanno rigettato (finalmente) è proprio il critico […] sono convinto che, nell’atmosfera resa ormai irrespirabile dal flusso di parole, può costituire linguaggio anche il silenzio».

Aveva sempre affiancato, all’interesse per il contemporaneo, la ricerca sulle eminenze della tradizione (importanti, in specie, i suoi studi sul Barocco: cortocircuito caro, del resto, alla contemporaneistica d’allora); ora diventa il lettore più esauriente e insieme più raffinato del Futurismo, del classicismo di «Valori plastici», soprattutto della Metafisica. Fra i suoi tanti lavori su de Chirico eccelle la cura del Meccanismo del pensiero (Einaudi 1985), pionieristica apertura di cantiere sulla scrittura del Pictor Optimus.

È negletto però, si diceva, Fagiolo dell’Arco. O, sarà meglio dire, lo era. Perché il lavoro appena uscito di Fabio Belloni, Maurizio Fagiolo dell’Arco critico militante 1964-1980 (Officina Libraria, pp. 464 ill. a col., € 38; si offre qui un estratto-chiave, per la cortesia di editore e curatore, con la presentazione scritta ad hoc, da quest’ultimo, per «Antinomie»), colma una lacuna e pone le basi di una, non differibile, rilettura complessiva. Da Novelli e Scialoja a Manzoni, Schifano e Pascali, da Rauschenberg a Warhol, da Kounellis a Paolini, da Carol Rama a Carla Accardi, non senza i pezzi d’occasione su quelli che saranno i suoi feticci a venire (Savinio e de Chirico, Depero e Man Ray), è tutta una luminaria dell’intelligenza quella offerta da questo libro. Con una lunga ed esauriente introduzione del curatore, che raccoglie i fili e interpreta tutto il percorso dell’autore. Non mancano neppure i capitoli lampeggianti sulla «figurazione Novissima» che, rielaborati, erano stati il nucleo di Rapporto 60: Belloni sceglie di riprodurli però nella veste in cui erano apparsi in origine, su giornali e riviste (delle quali offre anche numerosi specimina d’impaginazione), per restituire il clima elettrico del tempo. E in effetti si resta folgorati.

Andrea Cortellessa

Pubblicato sul numero 15 di «Qui Arte Contemporanea» nel settembre del 1975, Archeologia dell’avanguardia? è un testo importante nella carriera di Maurizio Fagiolo dell’Arco. Il suo autore aveva alle spalle una carriera brillante, avviata da oltre una decade sulla terza pagina dell’«Avanti!». Nel 1966 Rapporto 60. Le arti oggi in Italia ne aveva ratificato l’impegno nel presente. Allievo di Giulio Carlo Argan e suo stretto collaboratore alla «Sapienza», si era subito distinto come critico militante, ma anche come studioso dell’arte barocca e storico del futurismo. Dunque un ruolo triplice: assolto non per comparti, ma intuendo ogni volta le interferenze di poetica, tecnica, iconografia. Era l’attitudine di chi, del proprio mestiere, esaltava soprattutto il valore della ricerca, rivendicando il primato di un metodo – quello storico – e la sua verifica sui linguaggi del presente. In corrispondenza del nuovo decennio qualcosa aveva però iniziato a incrinarsi. Fagiolo dell’Arco tradiva disinteresse verso l’attualità: ovvero verso l’uscita dal quadro, l’uso di nuovi materiali, i continui sconfinamenti degli artisti. Ad appassionarlo sempre più erano invece i maestri delle avanguardie, e le grandi mostre su Picabia (Galleria d’Arte Moderna di Torino, 1974) e Man Ray (Palazzo delle Esposizioni, Roma 1975) diventarono gli esiti più notevoli delle sue nuove ricerche. Fu giusto allora che uscì Archeologia dell’avanguardia?. Qui si palesa senza filtri il disamore per le ultime esperienze, precisando una diversa identità professionale. Fagiolo dell’Arco dismetteva i panni del critico ma la militanza continuava: ora a livello storico, volta alle zone ancora in ombra di inizio secolo.

Fabio Belloni

Maurizio Fagiolo dell’Arco alla mostra Balla. Sculture 1913-1915, Roma, Galleria L’Obelisco, giugno 1968

Il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e così guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se medesimo: e già il soldato, prima del poeta, ha parlato della battaglia, e il marinaio del mare, e del suo parto la puerpera.

C.E. Gadda

Dopo il ’68 (l’immaginazione al potere, dopo l’assoluta libertà dell’inventare) gli artisti che appaiono più interessanti sono proprio quelli che rinunciano all’invenzione (uno dei connotati dell’avanguardia) per chiarirsi autocriticamente la tradizione del nuovo, al di là delle mode ormai più accelerate dello stesso meccanismo del consumo (arte povera, conceptual art, land art, arte di comportamento, body-art, narrative art, iper-realismo, iper-pittura, medium fotografico, video tape…). Con ciò non voglio dire che tutto sia stato fatto: «L’arte non è scienza. L’arte non è esperimento. Non c’è progresso nell’arte, non più di quanto c’è nel fare l’amore. Ci sono semplicemente diversi modi di farlo» (Man Ray).

Lo scorcio degli anni ’60 ci ha fornito opere già in funzione della riproduzione sulle riviste e depliants (di cui riempiamo i cestini ogni mattina): poco rimane perché tutto sembra già visto e quelle opere appaiono al vivo infinitamente più piatte della loro riproduzione (critici strutturalisti potrebbero impiegare i loro strumenti per chiarire come molti lavori siano stati eseguiti in vista del retino del cliché e non della retina dello spettatore). La crisi è oggi dilagante: si parla troppo delle ultimissime vagues che nascono già morte, di tutti gli ultimi gridi che nascono già come «Neo»-qualche-cosa. Ecco perché preferisco pensare a una sorta di archeologia dell’avanguardia: una demitizzazione militante delle solenni sciocchezze di tanti apprendisti-artisti che riscoprono (elevandoli a sistema) gli assolo eccezionali di Dada, le scatenate proposte del Surrealismo, l’irripetibile gestualità del Living. È chiaro che niente può essere soltanto scoperto: che occorrono sempre i Vespucci per aprire le strade (divulgare o colonizzare), eppure sentiamo di averne abbastanza di queste invenzioni a catena di cui il mercato abbonda, di questi artisti che si corrono dietro la coda, oppure sperimentano esperimenti già sperimentati senza saperlo o facendo finta di ignorare il passato. In entrambi i casi, il personaggio di questo tipo può vincere, ma la sua fortuna dura il tempo del bluff e la sua figura sociale non è quella del giocatore ma quella del baro.

Parafrasando il celebre postulato, si può dire che oggi un artista deve ambire alla irriproducibilità tecnica. Proprio per evitare il consumo del suo lavoro, la mercificazione (che ci sarà sempre), l’indiscriminata moltiplicazione. Il nostro è stato il tempo della grande illusione dell’arte per tutti: attraverso l’incisione, il design, il multiplo, si è cercata la qualificazione della gente attraverso l’arte: e siamo arrivati a un’arte squalificata per qualche credulone in più.

«Fatevi i fatti miei» è il motto di questa esercitazione in libertà. Si documenta paranoicamente il flusso della propria esistenza, e l’operatore estetico si è scoperto fonte inesauribile di gesti espressivi partendo da due principii: la preesistenza di Marcel Duchamp e l’ovvietà di far passare la cruna di un ago attraverso un cammello. Anche le manifestazioni sempre più contratte nel tempo ma sempre più dilatate nella settimana (kermesse sei-giorni, rally?) ci coinvolgono in cerimonie inutili, mentre il fare un gesto, da «tè del cappellaio pazzo» è diventato orgasmo prolungato. Si torna a volere un pubblico voyeuristico, mentre è caduta l’idea sacrosanta del silenzio e della riflessione: anche il pensiero negativo che è la sottile coscienza della fine dell’ideologia è diventata un’ennesima ideologia (catechismo, formulario).

Non si vuole dire con questo che la ricerca sia finita: siamo tutti con gli occhi attenti verso chi propone altri interrogativi. Se è ancora tollerabile fare letteratura (come dire: si scrive sempre con le 21 lettere dell’alfabeto), così è possibile fare ancora un lavoro sul linguaggio artistico: è come quella (Storia a parte) è meta-letteratura, questa sarà meta-arte. L’onestà sta soltanto nel proporre, come diceva l’engagé Licini, in questo mondo di tracotanti opere utili alla società, «larve antiutilitarie». Già, perché ancora esiste l’abbaglio dell’arte «politica» fino all’ultimo revival guttusiano e alla recente proposta fiorentina d’un congresso di fondazione d’un’arte dicì. In questo caso, l’importante è sapersi liberare dagli stereotipi e purtroppo arte e politica hanno in comune una cosa sola: conferiscono deleghe di potere. Fanno parlare gli altri, mentre l’importante è tornare a parlare in prima persona. Senza chiedersi se si è rivoluzionari o ribelli, liberi o evasi. L’intellettuale come tecnico della profezia deve scomparire: perché le vie della profezia (come quelle del Signore) sono infinite. E possono portare in nessun luogo.

Che fare? Archeologia dell’avanguardia, forse. Studiare questa avanguardia storica che ha concluso il suo tempo storico, che per cinquant’anni ha combattuto con alcuni connotati precisi (gruppi di lavoro, didattica, agitazione permanente, ricambio, pubblicità). Oggi, nel complice mondo del consumo (l’opera come Merce, il mondo come Mercato), è gravissimo dire che le Ninfee di Monet all’Orangerie, eseguite negli anni ’20 dopo il diluvio delle avanguardie, sono le più alte testimonianze del nostro secolo. Da parte mia, non posso che concludere questo discorsetto moralistico con Oscar Wilde: «In arte le buone intenzioni non hanno il minimo valore: tutta l’arte cattiva è il risultato di buone intenzioni».

Maurizio Fagiolo dell’Arco critico militante 1964-1980
a cura di Fabio Belloni
Officina Libraria, 2022
464 pp., 38 €

In copertina: Francis Picabia, Fille née sans mère, 1916-1917 ca. ©National Galleries of Scotland

(Roma 1939-2002) è stato tra i maggiori storici dell’arte del Novecento italiano. Allievo di Giulio Carlo Argan alla Sapienza, negli anni giovanili ha affiancato allo studio dell’arte barocca e delle avanguardie storiche un’intensa attività di critico militante. Questo versante è ben testimoniato dalle tante presentazioni in cataloghi per musei e gallerie come pure da un’intensissima pubblicistica sulle riviste di punta («Art International», «BolaffiArte», «Bit», «Cartabianca», «Collage», «Data», «La botte e il violino», «Marcatrè», «Metro», «Quaderni De’Foscherari», «Senzamargine»). Ha presentato e curato mostre in molte gallerie: Arco D’Alibert, Il Segno, Obelisco, Editalia a Roma; Sperone, Notizie, Martano a Torino; de’ Foscherari a Bologna; Galleria Blu, Marconi e Schwarz a Milano; Lo Scudo e La Città a Verona. Tra i suoi libri sul Novecento, oltre ai fondamentali «Rapporto 60. Le arti oggi in Italia», Bulzoni 1966 e la cura di Giorgio de Chirico, «Il meccanismo del pensiero», Einaudi 1985, spiccano «Giuseppe Capogrossi» (con G. C. Argan), Roma 1967; «Futur-Balla», Bulzoni 1967-1968; la cura di «Man Ray. L’occhio e il suo doppio», ND 1975; «L’opera completa di de Chirico 1908-1924», Rizzoli 1984; «La scuola romana», Leonardo 1986.

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