Il grattacielo come opera aperta

Nel numero del 1° dicembre 1961, la rivista americana “Life” pubblicò uno speciale illustrato intitolato “Explosion in Style”, interamente dedicato all’Italia. L’articolo affermava audacemente che l’Italia, in pochi anni, aveva cambiato l’aspetto del mondo, soprattutto per quanto riguardava l’industria automobilistica, l’architettura, il design e la moda femminile. Il testo era illustrato dalle splendide fotografie di Mark Kauffman che mostravano modelle vestite all’ultima moda in contesti assolutamente inusuali, ma affascinanti e modernissimi: la stazione ferroviaria modernista di Santa Maria Novella a Firenze, l’iconico grattacielo Pirelli di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi a Milano e il Palazzo del Lavoro a Torino. Quest’ultimo, frutto nuovamente della collaborazione Nervi-Ponti, era anche uno dei luoghi scelti per le celebrazioni organizzate in occasione del centenario dell’unità d’Italia. Al suo interno si era svolta la mostra Italia 61 il cui obiettivo era quello di enfatizzare il rapido progresso tecnologico e scientifico compiuto dall’Italia in quegli anni. Nel novembre 1963, invece, “Vogue America” pubblicò un lungo servizio intitolato “Milan: A Capital in Search of a Country”. L’articolo catturava l’energia frenetica e il desiderio di modernità della città lombarda così come il suo desiderio di allontanarsi dall’immagine tradizionale che caratterizzava il Bel Paese all’estero: nell’articolo emergeva chiaramente il profilo di una città contraddistinta da una vertiginosa crescita economica e da una vivace e interdisciplinare scena culturale e intellettuale.

Questi due esempi editoriali testimoniano l’incredibile eco che il cosiddetto “miracolo economico” in Italia – e a Milano soprattutto – ebbe all’estero. Milano si trovò in quegli anni al centro di un rinnovamento tecnologico, culturale e artistico che non aveva precedenti nella storia e non avrà eguali in seguito. Quello che maggiormente sorprende di questi anni è l’impegno da parte della scena intellettuale milanese a ragionare con un approccio interdisciplinare e multidisciplinare. Ne fornisce un valido esempio il lavoro di Silvio Ceccato che presso il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dell’Università di Milano, nell’ambito delle sue ricerche cibernetiche sulla riproduzione meccanica di attività umane come l’osservazione e la descrizione, sosteneva con fervore il desiderio di convertire la filosofia, la linguistica, la psicologia, la fisiologia, l’anatomia, la matematica, la fisica, la chimica e l’ingegneria in discipline applicate auspicando così una collaborazione interdisciplinare per il proseguo della ricerca scientifica. Milano, così come in generale tutta la scena intellettuale del periodo, in quegli anni si interrogava sul valore della collaborazione: ne sono un esempio casi editoriali come “Civiltà delle macchine”, una rivista impegnata nel far coesistere assieme cultura umanistica, scienza, tecnologia e arte.

Simbolo per eccellenza di questo fervente spirito milanese, emblema dell’ascesa economica della città ed elemento fondamentale di una rinnovata estetica urbana è sicuramente il grattacielo. L’approccio scelto da Alessandro Bosco per analizzare questo specifico oggetto architettonico ha lo scopo di evidenziarne la varietà di rappresentazioni e visioni che tra il 1956 e il 1963 si susseguono e che testimoniano la complessità ed eterogeneità della scena culturale del periodo in esame. Bosco quindi offre al lettore un’analisi dettagliata di alcuni scritti architettonici e programmatici del filosofo Enzo Paci e di Gio Ponti, per proseguire con lo studio di alcuni contributi letterari di Dino Buzzati ed Enrico Filippini e concludere con l’analisi del concetto di grattacielo nella poetica di Michelangelo Antonioni con una particolare attenzione per i film La notte (1961) e L’eclisse (1962). Si tratta di una rilettura e ridefinizione altamente interdisciplinare e intermediale che rispecchia il fervore critico di una metropoli che si interroga sulla sua identità. Il volume è impreziosito da un’appendice dove viene riproposto per la prima volta ai lettori lo scritto di Filippini Un articolo non scritto e un testo programmatico di Gio Ponti uscito per “Domus” nel marzo del 1956.

È un’identità difficile, quella di Milano in quegli anni, che si contraddistingue a volte per la presenza di stridenti dicotomie che però ne animano incredibilmente il panorama intellettuale. Questo sembra sottolinearlo molto bene Bosco che all’inizio del suo lavoro ci presenta fin da subito un’opinione “anti-grattacielista” come quella di Adriano Olivetti, il quale contrastava con fervore l’immagine della città contemporanea. Per Olivetti il tessuto urbano si espandeva in modo disorganico e per fini unicamente egoistici, materialistici e speculativi. Il grattacielo rappresentava per l’industriale il lato più oscuro dello sviluppo tecnologico ed economico che portava al disgregamento delle comunità, alla mancata coesione del paesaggio urbano e all’asservimento a uno spietato modo di vivere che rifuggiva dai valori dell’umano.

La Torre Velasca, fine anni Cinquanta

Se nella figura di Olivetti – introducendo una terminologia cara a Umberto Eco – possiamo individuare un vero ‘apocalittico’ è con atteggiamento molto più ‘integrato’ che interpreta l’idea di grattacielo il gruppo BBPR, nel cui lavoro è evidente un richiamo all’ideologia di Paci e alla sua riflessione sulla realtà come processo organico e relazionale. Dobbiamo quindi leggere la Torre Velasca come un’opera in stretto legame con il tessuto urbano e sociale che la circonda. Bosco definisce la Torre, realizzata nel 1958, come il simbolo del fervente dialogo sviluppatosi fra Paci ed Ernesto Nathan Rogers. Non si tratta di una forma da sublimare in sé e per sé, ma va considerato come un elemento che acquista valore solo se posto in relazione con le altre dinamiche che caratterizzano lo spazio urbano e sociale circostante. È il simbolo di una città che guarda al futuro, ma senza mai abbandonare la sua relazione con il passato. Il grattacielo quindi si pone come segno dinamico di una riattualizzazione del passato. Partendo dal concetto di Paci della realtà come processo relazionale che si situa entro un “campo di possibilità”, è inevitabile un nuovo riferimento a Eco: il grattacielo quindi è un’“opera aperta” perché si pone come struttura di relazioni dinamiche che comunica con il contesto che lo circonda.

Bosco esalta nuovamente l’idea di contrasto dicotomico all’interno del suo testo proponendo in opposizione alla Torre Velasca il grattacielo Pirelli, massima espressione della poetica architettonica di Ponti. L’opera di Ponti si pone – a differenza della Torre Velasca – come simbolo di rottura con il passato, come massima espressione della tecnica, baluardo dell’essenzialità e della trascendenza utopistica; simboleggia l’esaltazione lirica della purezza della forma in cui coesistono l’armonia delle leggi astratte e l’esattezza del calcolo. Ne consegue che non vi è alcuno spazio nel grattacielo di Ponti per la corruttibilità del soggetto, ma una vera esaltazione dell’incorruttibilità della tecnica e dei materiali. Bosco evidenzia un concetto fondamentale nella sua analisi puntuale degli scritti di Ponti all’interno del libro: “scienziati e tecnici sono i veri artisti della società moderna”. Più volte del resto in quegli anni Eco definì gli artisti come “operatori estetici e funzionari dell’umanità”; e negli stessi anni in cui veniva eretto il grattacielo Pirelli nascevano a Milano tendenze artistiche ispirate all’estetica industriale e allo sviluppo tecnologico come l’Arte Cinetica e Programmata.

Il grattacielo Pirelli in costruzione alla fine degli anni Cinquanta

Il lavoro di Bosco prosegue con l’analisi di due scritti giornalistici dedicati da Dino Buzzati al grattacielo Pirelli nel 1961 e nel 1970, mettendo in luce fra lui e Ponti: entrambi esaltano il ruolo del grattacielo come potenza sublimante, come incarnazione dello spirito di un’epoca nuova. La visione di Buzzati è però più polarizzata: la contrastante natura del grattacielo che si eleva solitario e selvaggio, irraggiungibile ma perfetto nella sua forma, non può infatti non essere l’emblema della città stessa di Milano e di questo periodo storico. Ma Bosco non trascura di inserire il punto di vista del fruitore, del cittadino comune che alza gli occhi a contemplare questa icona: scegliendo un testo dall’impronta decisamente narrativa redatto da Enrico Filippini – scrittore e traduttore legato alla Neoavanguardia, a lungo redattore di Feltrinelli – per la rivista “Edilizia moderna”. Il testo sottolinea l’estraneazione del protagonista che si distacca ironico dall’ombra del grattacielo Pirelli: in una de-mitizzazione del grattacielo, si dice incapace di provare emozioni o reazioni nei suoi confronti. Il significato di un testo del genere non si evince tanto dal contenuto, quanto dal modo in cui è scritto: la sua struttura viene definita da Bosco “un moto centripeto” dove “la sospensione sistematica del periodo sintattico attraverso un’abnorme proliferazione di cellule verbali divergenti finisce alla fine per ricomporsi in una frase di senso compiuto”. La struttura sintattica del testo di Filippini esprime la sua incapacità a comunicare chiaramente la sua inquietudine, e la mancanza d’interesse verso quell’oggetto che si staglia solitario fuori dalle sue finestre. Il “modo di formare” è il vero soggetto della narrazione, in piena adesione con l’insegnamento di Eco: il quale negli stessi anni scriveva che “il primo discorso che l’arte fa è attraverso il modo di formare”.

E se l’opera aperta di Eco può definirsi come una struttura di relazioni e il modo in cui queste relazioni si stabiliscono è il vero soggetto dell’opera, allora davvero il grattacielo – come emerge dalle analisi puntuali di Bosco – è un’opera aperta. Come potremmo altrimenti definire la decisione di Ponti di lasciare visibili al fruitore, come se fossero opere d’arte, i vari ingranaggi e impianti tecnici che garantivano il completo funzionamento della struttura? Come per certa arte programmata esposta negli stessi anni, quello che contava per Ponti era l’attenzione al processo, a come funzionava la struttura grattacielo: un’esaltazione dell’estetica della tecnica, della bellezza dell’elemento industriale. Dalle riflessioni di Bosco e dall’analisi dei testi che propone emerge quindi chiaramente nella mente del lettore l’idea del grattacielo non come un semplice edificio, ma come una metafora epistemologica del periodo storico in cui si sviluppa.

Bosco conclude il suo libro con un’analisi della filmografia di quegli anni di Michelangelo Antonioni, nella quale spesso presente è l’icona del grattacielo. L’edificio di Ponti viene utilizzato dal regista per considerazioni di ordine sociale legate ai rapporti umani all’interno del complesso tessuto urbano moderno. L’architettura astratta, semplice, lineare, sfuggente, razionale e sottile del grattacielo Pirelli è la metafora dell’approccio alla vita dell’uomo moderno della metropoli, che si adatta a un’esistenza superficiale caratterizzata da rapporti fugaci e dall’alienazione dovuta all’onnipresenza oppressiva dei mass media. Nella concreta struttura delle riprese e del montaggio dei suoi film, i personaggi di Antonioni acquistano valore solo nelle loro relazioni con l’ambiente circostante: per esempio appunto col grattacielo e la sua sfuggente fisicità di vetri e riflessi, nella loro temporalità distorta e nel binomio tra modernità e passato. Il modo di comunicare scelto da Antonioni per presentare al pubblico le sue opere cinematografiche, la loro strutturazione formale, appare nuovamente come il vero soggetto e il principale significato di questi film. Nella poetica di Antonioni manca una prospettiva incentrata sul soggetto, per estrinsecare una serie di relazioni frammentate che mettono in luce la crisi del modello umanistico. Il grattacielo è nuovamente parte integrante di queste complesse relazioni, è emblema dei modi in cui l’esistenza umana si colloca nelle complesse dinamiche della metropoli moderna.

La verticalità del grattacielo rappresenta forse il simbolo di un allontanamento dal passato e la traccia di una nuova modernità: esso raffigura il progresso che avanza e l’inevitabile rovesciamento di equilibri sociali e urbani. Lo scritto di Bosco, tuttavia, ci dimostra lo sforzo di intellettuali e artisti dell’epoca per instaurare con esso un dialogo, avvalorando l’idea che non esiste una sola chiave di lettura per interpretarlo. I punti di vista molteplici e complessi rispecchiano il fervore di un periodo storico in cui si assiste a uno stravolgimento dei canoni estetici e a un cambiamento radicale nel rapporto tra l’uomo e l’idea di modernità.

Alessandro Bosco
Milano, il grattacielo e la metropoli. Riletture moderniste dello spazio urbano tra architettura, cinema e letteratura (1956-1963)
Franco Cesati Editore, 2021, pp. 144, € 18

In copertina: belvedere al 31°piano del grattacielo Pirelli

è Dottore di ricerca con una tesi sull’Arte Cinetica e Programmata presso la Royal Holloway University of London. La sua ossessione per Bruno Munari la porta spesso a lavorare sulla didattica e sul modo in cui l’osservatore percepisce le opere d’arte contemporanee. Nella sua vita precedente all’esodo londinese si è laureata in Storia dell’Arte presso l’Università di Pavia, ha fatto un master presso la Business School del “Sole 24 Ore” e ha lavorato per uno dei festival di cinema documentario più antico d’Europa a Firenze. Tra le esperienze lavorative che le hanno dato più soddisfazione sicuramente rientra la catalogazione svolta in collaborazione con il Ministero dei Beni Culturali di un importante nucleo di opere d’arte confiscate alla criminalità organizzata. Collabora attivamente con il blog “Interdisciplinary Italy”.

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