Non si limiti la vicenda umana e artistica di Joë Bousquet alla paralisi che, in seguito a una ferita di guerra, lo costrinse a letto per tutto il resto della vita; L’ombra di ciò che unisce. Lettere a René Magritte (1946-1948) – Mimesis Edizioni, 2022 – ne dimostra la straordinaria energia vitale, intellettuale e creativa che, nella totale consapevolezza delle proprie condizioni materiali, seppe imbastire profondi rapporti amicali e di collaborazione artistica.
Nella e dalla camera con le imposte quasi sempre accostate al civico 53 di Rue Verdun nel centro antico di Carcassonne (e abitata all’inverosimile da opere d’arte contemporanea, in particolare surrealiste) Joë Bousquet costruì un’amicizia solidissima e per lui determinante con René Magritte il quale, in seguito all’invasione nazista del Belgio, trovò rifugio prima a Parigi, poi nella Francia meridionale, soggiornando a Carcassonne dal 23 maggio al 5 agosto 1940 dove conobbe Bousquet.
In quegli anni bui la camera del poeta divenne luogo d’incontro di moltissimi artisti e intellettuali, da lì Bousquet teneva contatti epistolari numerosi e frequenti, lì studiava e scriveva, alimentando la propria immaginazione con la contemplazione delle opere d’arte appese alle pareti o appoggiate sui mobili e sui davanzali, affetto dall’insonnia provocatagli dal dolore fisico alleviato soltanto dall’oppio.
Il volume, curato con passione e acribia critico-filologica da Arlindo Hank Toska, contiene sette lettere di Bousquet a Magritte, una missiva di Magritte a Bousquet (riprodotta anche in fac-simile), la prefazione di quest’ultimo al catalogo della mostra di pittura Les Maîtres du Surréalisme tenutasi a Tolosa nel 1946, nonché la riproduzione dei manoscritti della prefazione stessa e di una lettera del poeta a Henri Parisot e Alain Gheerbrant (i curatori della mostra tolosana), più le immagini dei dipinti di Magritte citati nella corrispondenza e una serie di ritratti di Bousquet a opera dei suoi amici pittori – e di Arlindo Hank Toska sono anche le puntuali, ricche e perspicue note a diversi passi delle lettere.
Dotato dunque di uno strumento assai completo e criticamente ineccepibile, il lettore s’immerge nel mondo di un’amicizia le cui lettere sono “l’ombra” nel senso che a questo concetto-immagine dà Bousquet stesso, vale a dire che il gran sole dell’amicizia e dell’affetto reciproco, illuminando il rapporto tra i due, proietta naturalmente un’ombra rappresentata dalla corrispondenza che, in qualche modo, supplisce la distanza materiale tra i due amici sempre in attesa di potersi finalmente rivedere.
Nella prima lettera, datata 28 luglio 1946, Bousquet annuncia felice di aver finalmente avuto l’indirizzo di Magritte e preannuncia l’invio di due suoi libri freschi di stampa; scrive, tra l’altro:
«Sto intraprendendo un nuovo percorso letterario. Voglio, a forza di contemplare un’immagine irrazionale, prosciugarne il contenuto di verità – non a livello esplicativo ma sul piano dell’immaginazione. Per questo volevo il tuo Île au Trésor. Occasione mancata! Ora sto cercando i tuoi gufi, nascita del giorno. Magritte, ti prego, scrivimi. Dimmi a che prezzo mi cederesti le tue tele più recenti, su quali condizioni di pagamento potrei contare. […] Sei venuto a Carcassonne. Era ieri. Non sei mai ripartito. E il ricordo della tua presenza ha assunto l’enfasi leggendaria di cui si aveva bisogno» (op. cit., pp. 23 e 24).
È facile constatare come Bousquet esprima in modo sintetico e chiaro un concetto-chiave del Surrealismo, movimento nel quale si identifica totalmente a partire da quella sua volontà di “prosciugare il contenuto di verità di un’immagine irrazionale” agendo nell’immeso continente dell’immaginazione – si pensi anche soltanto alla condizione fisica del poeta, il quale, oltre a studiare, scrivere e ricevere amici e sodali, nel chiuso della sua camera dalle imposte costantemente accostate e illuminata da pochi lumi e dalle candele accese ai piedi del letto contempla le opere che lo circondano ribaltando lo spazio circoscritto nell’illimitato della visione e dell’immaginazione, immergendosi nella propria memoria e nel proprio inconscio. L’isola del tesoro magrittiana e Les compagnons de la peur (questo il titolo originale del dipinto descritto da Bousquet come “i tuoi gufi, nascita del giorno”) sono l’oggetto del suo desiderio, immagini di uccelli-foglie che spuntano dal terreno come ergendo becchi e sguardi che contemporaneamente scrutano da e dentro mondi altri – ma quei dipinti incarnano anche il desiderio che l’amico sia presente e Bousquet scrive infatti nel messaggio successivo:
«Hai l’impressione che abbiamo molte più cose da dirci di quante la vita ci abbia permesso di condividere. Ho la stessa impressione, ma so anche che se avessimo vissuto per un anno nella medesima stanza, la sensazione sarebbe la stessa, perché insieme formiamo uno di quei luoghi eccezionali dove la vita prende atto e può tutto» (p. 28) – e, in aggiunta, nella stessa missiva: «Voglio che la mia vita prosegua attraverso il tuo laboratorio» (p. 29).
Queste lettere di Bousquet risuonano spesso dei nomi cari di altri amici (Louis Scutenaire, Raoul Ubac, Hans Bellmer. Jean Paulhan), così che l’ombra di ciò che unisce non è soltanto l’amicizia con Magritte, bensì tutta una tramatura di rapporti personali e artistici che fanno della stanza nel cuore di Carcassonne un andirivieni di idee e di progetti comuni.
Non sono assenti riferimenti di carattere molto pratico e che dimostrano la grande generosità del poeta:
«Le riviste mi pagano bene ora, manderò un po’ di questa linfa a Bruxelles. Non esitare, anche prima di inviare i quadri, a farmi sapere se stai attraversando un momento difficile. Siamo amici e abbiamo scoperto che questa amicizia era solo l’ombra di ciò che unisce le nostre vite» (p. 30).
Ma talune missive si configurano anche quali espressioni di una poetica della visione e della rappresentazione, indagini sul costituirsi dell’immagine surreale e letterale descrizione di dipinti che Bousquet immagina e illustra all’amico e che, a un’eventuale prova dei fatti, potrebbero essere “dei Magritte”; e s’egli si sofferma sulla relazione tra luce e buio, tra giorno e notte, spiega che intende
«la vera notte, quella che porta in sé i caratteri invertiti del sole, che rigenera la sua oscurità. Sai che la notte del cielo non è che l’alba del buio, che si aggira tra tenebre invisibili […] La notte è al centro del pianeta, gira intorno alla terra, la quale, a sua volta, le gira intorno. Come dubitarne? C’è solo una notte, è la notte minerale; e la sua schiuma trasforma i colori, sgorgando dall’una o dall’altra profondità, nella cellulosa o nell’argilla […] La stessa notte abita il pianeta e l’uomo, oleosa, minerale. In essa lambiscono i raggi che rendono gli occhi colore pelliccia, nocciola, uccello, cava soleggiata. Pensaci: è ovvio. La terra – dicevamo – ha solo l’apparenza di un’ombra. Allo stesso modo, l’ombra dell’uomo gli nasconde il fatto che egli non ha ombra, perché ha mangiato la sua ombra – in attesa che essa lo inghiotta. Questa oscurità è così profonda dentro di noi che ogni forma diventa un bagliore in essa: il sogno non può essere spiegato altrimenti.» (pp. 32 e 33)
– e conclude:
«Quando ti ho mostrato queste immagini, non avevo la pretesa di suggerirti dei soggetti. Hai un paese di fate nelle tue mani» (p. 36).
La familiarità con la notte e con l’ombra deriva dallo stato fisico e psichico del poeta, dalla realtà della sua camera in perenne penombra e, una volta congedati gli amici che gli rendevano visita, dalle sue insonnie che lo costringono e, al contempo, gli permettono di esperire il variare delle ore notturne, della scarsa luce pur nelle sue molteplici varietà che filtra attraverso le imposte accostate; lungo gli anni si snoda così la riflessione intorno all’ombra, al buio e alla luce che la prossimità con René Magritte rende ancora più stringente perché le opere magrittiane indagano proprio le regioni dell’enigma là dove luce e buio, ombra e penombra, abissi psichici e affioramenti del simbolo narrano la condizione umana.
Elemento decisivo è proprio il corpo del poeta, immobilizzato a letto, ma vivo e innegabile, irrinunciabile punto di riferimento:
«Mentre mi leggi, conserva il ricordo di questo imperativo minore (valido solo per me). Non è un’apologia della soggettività.
1) Il mio corpo è il firmamento di tutto il reale immaginabile.
2) È una mappa delle terre, delle cose e del cielo che era stata arrotolata e che ha preso vita nell’angolo dove l’avevamo lasciata» (p. 40)
La lucidità (e la potenza immaginifica) delle affermazioni di Bousquet dà conto di come sia stato possibile che una camera di apparente reclusione e separazione dal mondo (“non è un’apologia della soggettività”) sia invece divenuta un universo vitalissimo all’interno del quale la riflessione sul colore riveste un ruolo essenziale, esistenziale e filosofico:
«I colori sono ombra. Osserviamo: qualsiasi colore è quello che sovrasta la luce imbevuta da un’espressione minerale o vegetale della profondità: guarda le pietre, le fibre vegetali, il carbone, il colore della linfa. L’incontro dei colori (la loro somma) ricrea la luce bianca, divoratrice di colori. Voi belgi, beati belgi, siete voi il paese del colore» (pp. 40 e 41)
– e poco oltre:
«Ho detto che il colore era ombra, ma quale ombra? Ecco! Ci sono due neri: il nero eclissi, il nero sorgente. L’uomo conosce solo il nero eclissi. Solo il colore lo conduce verso il nero sorgente. Infatti, ed è vero come il tuono quello che dico qui: la notte che abitiamo non è la notte, ma l’assenza del giorno, l’ombra che la terra getta su se stessa. La visiera del berretto» (p. 41).
Arlindo Hank Toska spiega benissimo in nota: «Con nero sorgente, Bousquet intende la fonte di tutti i colori o, più astrattamente, “l’Absence“, il “Néant réalisé“, un’assenza mai definita il cui carattere “spirituale” va ben oltre il problema della fede. La condizione di possibilità del nero sorgente è il “sole sotterraneo“, più volte ripreso da Bousquet nel corso della sua corrispondenza con Magritte. Con nero eclissi si intende propriamente il colore “nero”, considerato come “colore organico” e possibile rappresentazione del nero sorgente» (ibidem) – non si trascuri il fatto che le argomentazioni intorno ai colori e alla loro ontologia costituiscono un aspetto fondante della scrittura stessa di Bousquet e della sua ricerca in poesia (oltre che esistenziale), che la dialettica luce/buio, giorno/notte, visibile/invisibile innerva tutta la sua opera e con una lucidità, si torni a constatare, lancinante e decisiva:
«Dal Manifesto Surrealista in poi, sono sicuro che i miei metodi di indagine rimarranno sempre molto personali. La colpa è della mia condizione fisica. Quando un uomo si trova in equilibrio tra i modi soggettivi e oggettivi, io sono, innanzitutto, un uomo amputato dalla realtà. Tutti i miei atti sono subordinati a istanze di forza maggiore, la mia ferita e le sue conseguenze, che non si lascia penetrare direttamente: proprio così» (p. 47)
Ma la forza e l’integrità etica di Bousquet s’impongono chiare:
«Attualmente rimango, più che mai, impegnato dalle più impellenti ragioni morali ad unirmi agli uomini integri, quelli che sono liberi, intendo gli unici, la cui arte non è, consciamente o inconsciamente, asservimento a un ideale politico, a un ideale nazionale» (p. 50)
mentre il dialogo costante con l’arte dell’amico incide in profondità sulla propria concezione artistica ed esistenziale:
«Questa è la mia attuale ricerca. Vedrai che mi aiuterà a capirti. Si tratta per me di tentare, con un vero colpo di scena, un’abolizione della mia vita soggettiva; quando una volta sembrava dover essere tutto. Sto portando avanti la mia indagine poetica con un’affabulazione surrealista dei fatti» (p. 51)
poiché
«Lo sguardo che penetra la realtà e vi coglie alcune connessioni, attraversa e lacera inevitabilmente i miti che la mente portava alla luce per nascondere la realtà stessa. È grave, questo. Paradiso, inferno, fiamme, caduta, nomi che assume la realtà quando la menzogna se ne è adornata: l’operazione più riuscita dello spirito oppressivo» (p. 55).
L’arte di Joë Bousquet e la ricerca del Surrealismo si rivelano così atti di contestazione del sistema (politico, economico e di conseguenza culturale) oppressivo e di liberazione da esso, conquista di una realtà (e di una sur-realtà) affrancate da ogni dogmatismo e moralismo.
E il 29 settembre 1948 Bousquet scrive a Magritte:
«Non stupirti, Magritte, non pensare di essere dimenticato: la squisita e divorante tempera che mi hai mandato è in viaggio, adornando – temporaneamente e prima del mio ritorno – la stanza della mia più giovane e graziosa amica(18 anni) che ha voluto questo legame tra la mia stanza e la sua vita» (p. 57).
Jacqueline Gourbeyre (“Linette” o “Isel”) è una ragazza che il poeta aveva conosciuto nel 1946 e con la quale intrattiene un’intensa corrispondenza epistolare arricchita dal dono di alcuni dipinti, tra i quali Schéhérazade che Magritte ha dipinto nel 1947; il legame con Isel ispira a Bousquet numerose poesie d’argomento amoroso, toccando anche il tema dell’amore desiderato ma irrealizzabile sul piano del rapporto fisico e si può immaginare quanto significativo e prezioso sia stato il dono di un dipinto recentissimo di Magritte alla ragazza, suggellando un ulteriore legame all’interno dell’universo relazionale del poeta. La lettera (l’ultima di Bousquet a Magritte nel volume Mimesis) si conclude con il racconto di un incendio che è divampato tra le coperte del letto e che ha messo a repentaglio la vita dell’infermo, incidente che ha rallentato il lavoro a uno scritto meditato da tempo e dedicato all’opera magrittiana.
Un’unica missiva di René Magritte (Jette-Bruxelles, 3 agosto 1946) permette di affacciarsi sui sentimenti altrettanto affettuosi e colmi d’ammirazione da parte del pittore: è la risposta alla lettera del 28 luglio e contiene, preziosa, la testimonianza di prima mano di un momemto di svolta del movimento surrealista internazionale quando Magritte, Bousquet e altri rompono con il gruppo di Breton firmando un manifesto intitolato “Surrealismo in pieno sole” e Magritte in particolare dà vita a una serie di dipinti dai colori sgargianti e inondati da una luce smagliante e onnipervasiva:
«[…] sapevi che, quando si mangia un frutto, una specie di sole entra nel nostro corpo. Questo sentimento è dello stesso ordine di quello che dà senso a uno dei miei ultimi quadri: La Vie privée (o, una finestra affacciata su un paesaggio soleggiato si trova nel corpo di una donna nuda) e che rende comprensibile questa rivoluzione nella mia pittura (rivoluzione sentimentale anzitutto, che pretende di sostituire l’inquietudine con la gioia, il sole). Questa antica serenità non appare più. È più celata, più essenziale e deve essere in grado di resistere alla prova del pieno sole. È la dimostrazione (anche in pieno sole, bisognerà pensarci) dei “risultati” di una volontà di sconvolgere tutto ciò che la guerra ha permesso agli “uomini?” per quattro anni che mi ha fatto pensare che questi “uomini” fossero armati meglio di noi a seminare panico, disperazione e paura in modo tale da non potercisi sottrarre, ma che questi stessi “uomini” erano totalmente privi del potere di affascinare, per esempio. Mi è sembrato che questo potere siamo noi a detenerlo e che se cerchiamo modi per ottenere impatti grandiosi come quelli del male, ma questa volta quelli del bene (voglio dire: chi incanta, chi inebria) c’erano molte cose da rivedere, da rimuovere e da scoprire» (pp. 61 e 62).
Magritte ripudia esplicitamente certe tendenze del Surrealismo che gli appaiono diventate vieta maniera:
«Sai, la pittura “surrealista” come la pratica di innumerevoli “artisti” è diventata insopportabile: vediamo molte mani mozzate, il sangue scorre a fiumi, le invenzioni sono ripugnanti di ingegnosità. Tutti questi artisti mi fanno sentire come se fossi cieco e vivessi in un polveroso museo “surrealista” dove un vero mazzo di fiori farebbe scandalo» (p. 63).
Nella lettera a Parisot e a Gheerbrant Bousquet scrive tra l’altro:
«Avendo aderito al movimento surrealista fin dai suoi inizi ed essendo amico di Paul Éluard, Max Ernst, Yves Tanguye altri, ho potuto, nella solitudine in cui mi confinava il mio stato di salute, condividere un po’ della loro vita e, grazie ad essi, raccogliere le testimonianze più significative della loro azione rivoluzionaria» (p. 71).
Passaggio che ritorna, come ampliato, in un luogo della Prefazione al Catalogo della mostra tolosana: «Un uomo era tornato gravemente ferito dall’altra guerra. Come potevano Paul Éluard, Max Ernst, Yves Tanguy, André Breton considerare uno di loro, trattandolo immediatamente come amico e compagno di battaglia, un individuo la cui stessa esistenza era un insulto alla poesia? Tutto ciò che allora era nel mondo adornato di felicità insultava l’amore, insultava la speranza. Tutto ciò che si chiamava poesia insultava la poesia. Con il pretesto della religione, o del classicismo, si metteva in gabbia l’ispirazione. Tutto ciò che ha vissuto per respirare il futuro si è poi affermato all’ordine stabilito. Alcuni poeti, alcuni pittori, alcuni scultori avrebbero restituito alla parola “poesia” il suo significato primo. Ricordare e ricordare violentemente a tutti che la poesia non è un fatto del linguaggio, ma che il linguaggio è fatto di essa. Niente di più, ma niente di meno. Poiché l’esistenza sociale aveva pietrificato ovunque le sorgenti dello spirito, avremmo cercato insieme, cominciando agli antipodi della realtà, una via d’uscita verso la vita […] La vita, come l’hanno organizzata secoli di civiltà, non è che l’immagine della nostra fede nella vita, che è la vita stessa. I miei amici surrealisti mi hanno insegnato che tutto ciò che ci risveglia, e anche il corpo che siamo, appartiene al passato. Lo dovevo a loro vedere i miei giorni come un sogno da cui i miei sogni mi avrebbero risvegliato» (pp. 78, 79 e 80) – un sogno oltre il sogno, un’emersione dalla realtà più celata e profonda guida Bousquet verso uno stato di autenticità esistenziale che le arti figurative e la scrittura s’incaricano di rendere visibile.
Joë Bousquet
L’ombra di ciò che unisce. Lettere a René Magritte (1946-48)
A cura di Arlindo Hank Tosca
Mimesis Edizioni, Collana Minima Volti, 2022
116 pp, 9 €
In copertina: René Magritte, L’empire des lumières, 1961