Solastalgia, o le emozioni della Terra

22/07/2022

Esprimere lo sconforto

Hunter Valley, Nuovo Galles meridionale a nord di Sydney: un’area boschiva devastata dalle miniere di carbone e dalle centrali termiche, un paesaggio devastato dagli incendi del settembre 2019, domati dopo 240 giorni. Gli abitanti della regione si trovano di fronte alla distruzione di un orizzonte che, in quanto tale, consideravano immutabile, perlomeno nell’arco della loro esistenza. L’orizzonte, così ci sembra, è lì per orientarci; che di colpo possa scomparire genera un vuoto difficile da colmare ed esprimere a parole. Tra i membri della comunità figura il filosofo Glenn Albrecht, che oggi ha 64 anni e, una volta ritiratosi dall’Università di Newcastle (Australia), si è trasferito con la sua compagna in una fattoria. È lui a dare un nome a quanto patito dalla collettività: solastalgia.

Non una variante australiana della saudade o dell’unheimlich, non un semplice stress post-traumatico, piuttosto un mal du pays lontano dalla nostalgia. Lontano dalla nostalgia perché il paese d’origine che si rimpiange non è situato a una distanza siderale ma coincide con quello in cui si vive e che si calpesta ogni giorno, lo stesso in cui si (ha) dimora e che tuttavia subisce una trasformazione tale da renderlo irriconoscibile. Detto altrimenti una nostalgia che, perso il legame col domicilio fisico e spaziale, si estende alla dimensione temporale, a quel momento storico precedente il divampare dell’incendio.

La solastalgia è insomma un sentimento che si manifesta non solo verso il proprio Paese ma anche nel proprio Paese, quando la vita, nei suoi molteplici aspetti, è minacciata e il senso del luogo compromesso in ciascuno dei suoi quattro elementi. È il frutto di una “shifting baseline syndrome”, come gli ecologisti chiamano la nostra capacità di dimenticare i paesaggi mutati dall’intervento umano.

Albrecht cerca a lungo un termine che esprima “una emozione cronica, situata e dolorosa, provata davanti a un cambiamento ambientale negativamente percepito”, in cui sia esplicito il richiamo alla dimensione domestica. All’inizio parla di “placealgia” (riferendosi al “place” e alla “algia” o dolore), poi si rivolge al solacium, ossia alla privazione di consolazione, di conforto in momenti difficili, di sollievo da una forma di disagio e di abbandono.

La definizione si affina col tempo: “La solastalgia si riferisce tanto alla perdita di un luogo naturale unico causato dal riscaldamento climatico che alla trasformazione delle città e altri complessi urbani dalle forze dello sviluppo”. Se la nozione è in circolazione sin dal 2005, è solo nel 2019 che Albrecht pubblica Earth Emotions. New Words for a New World (Cornell University Press) da cui traggo i passi qui citati.

Basta sfogliare la prefazione per misurare l’ambizione del saggio: riflettere sul senso della vita umana al tempo dell’Antropocene, in particolare sulle reazioni emotive suscitate dal ritmo e dall’ampiezza dei cambiamenti ambientali e climatici, in Australia o, per citare un altro esempio trattato, nella Nuova-Orleans dopo l’uragano Katrina del 2011. Reazioni che costituiscono quelle che chiama, sin dal titolo, le “emozioni della Terra”. E basta gettare un occhio ai ringraziamenti per cogliere l’eccentricità del libro: la nottola di Minerva si accompagna a Kookaburra, uccello totemico dei popoli indigeni australiani. Infatti Albrecht s’ispira al popolo aborigeno australiano che da 80.000 anni vede la loro esistenza ed ecosistema stravolte e messe in pericolo sin dall’arrivo dei coloni nel 1788.

L’Antropocene è una forza colonizzatrice, su questo Albrecht non ha dubbi, al punto che la situazione drammatica vissuta dagli aborigeni è simile a quella che l’umanità si trova ad affrontare oggi (un’idea ripresa dal filosofo Edward Casey). Che l’Australia sia il paese delle environmental humanities, un approccio capace di tenere assieme scienze umane e scienze naturali, non sorprenderà. Nata in Australia, la solastalgia ha una vocazione planetaria in quanto manifestazione d’indigenza, simile a quella che gli Inuit dell’Artico chiamano “uggianaqtuq” per designare gli effetti del cambiamento climatico, ma anche un comportamento imprevedibile o un amico che agisce in modo curioso, o a quello che gli indiani Hopi chiamano “koyaanisqatsi”, uno stato di vita in disequilibrio o disintegrazione.

Promettere felicità

Ora, la solastalgia è un neologismo di sicura presa che mi auguro si diffonda presto nel dibattito italiano, ci tengo a sottolinearlo. Peccato che, scrivendo, ad Albrecht sfugga il controllo e la tenuta del libro. Al di là di un ottimismo venato d’ingenuità e al di là di un tono profetico – entrambi stridenti ma passabili per il lettore indulgente che sono, vista l’empatia con l’argomento –, il libro rigurgita di neologismi che hanno un solo risultato: produrre un crescente fastidio. Una pletora scarruffata di nuovi termini con cui Albrecht paga omaggio alla sconfinata capacità plastica della lingua inglese. Con una cieca strategia nominalista, davanti a un fenomeno sconosciuto l’autore si affanna a cercare una parola per designarlo, ignorando che, in questo modo, indebolisce la tesi principale del libro, ossia la solastalgia.

Rileggendolo mi accorgo che Albrecht miscela spesso il latino, il greco e lo spagnolo nella stessa parola. In ordine sparso, m’imbatto nella “Generazione Simbiocene”, cui l’autore si rivolge con grande enfasi, che vivrà in una “Simbioregione” la quale, al di là del bioregionalismo classico, designa “uno spazio biofisico, culturale e geografico identificabile dove gli umani vivono insieme e collaborano al restauro e alla creazione di nuovi rapporti simbiotici tra gli umani, gli altri esseri viventi e i paesaggi”. M’imbatto nella “simbiografia” dell’autore, “la descrizione e la spiegazione di tutti gli eventi della vita di una persona, che la legano alla ‘natura’, alle persone e agli altri esseri viventi”, un approccio studiato dalla “simbiologia”.

M’imbatto in emozioni “psicoterrene”, nell’“endemofilia” o amore per tutto ciò che è unico ed endemico, e nel suo contrario, il “terracidio”, l’esperienza dell’omicidio della Terra, fino alla “disbiosi”, opposta alla simbiosi come l’ecocidio si oppone al “terraliben”.

M’imbatto nella “mermerosità” (dal greco mermeros, gravoso), uno stato cronico d’inquietudine o ansia nei riguardi dell’estinzione possibile del mondo familiare e della sua sostituzione con elementi che perturbano il nostro senso di luogo, e nel “tierratrauma”, l’esperienza diretta di un evento traumatico di distruzione ambientale, un’emozione acuta causata da un cambiamento brusco diversa da quella cronica e permanente della solastalgia. M’imbatto nell’“ecoagnosia”, l’oblio del passato ecologico di un luogo, e nell’“eutierra”, sentimento di essere tutt’uno, in armonia totale con quanto ci circonda, e nella “terrafuria”, forma di rabbia estrema provata da chi vede le tendenze distruttrici della società tecno-industriale. E ancora nell’“ecoparalisi”, nella “meteo-ansia”, nella “soliphilia” (il glossario alla fine del libro è incompleto). Alternative di termini già esistenti come necrofilia (Erich Fromm, 1964), ecocidio (Arthur W. Galston, 1970), biofilia/biofobia (Stephen Kellert, Edward Wilson, 1993), ecofobia (David Sobel, 1996), toponesia (Liam Heneghan, 2013) e così via.

Mere questioni lessicali? Non credo. Dietro la furia demiurgica alligna una visione manichea secondo la quale è in corso una guerra tra forze della creazione e forze della distruzione – “la terza guerra mondiale sarà una guerra delle emozioni che deve concludersi con la vittoria delle forze della creazione”. Per vincerla, la Generazione Simbiocene avrà bisogno di una forza speciale, il “Muscolo verde” (qui mi è venuto in mente l’incredibile Hulk, temo un effetto del caldo severo di questi giorni). Attraverso due neologismi particolarmente maldestri, Albrecht stabilisce l’oscillazione tra la “terraphthora” e la “terranascia”, cioè l’insieme delle due forze universali della Terra, quella distruttrice e quella creatrice.

A questo punto introduce la “ghedeist”, vale a dire la “coscienza di uno spirito o di una forza che mantiene tutti gli esseri viventi assieme; sentimento di una interdipendenza simbiotica profonda tra il sé e gli altri esseri viventi (umani e non-umani) e il loro raccogliersi per vivere insieme nei luoghi e negli spazi condivisi su Terra”. Update dello spiritus mundi e del Soffio vitale, accorpa “ghehd” e il tedesco Geist, al fine di “esprimere un sentimento positivo secolare per l’unità della vita e per esprimere l’intuizione che tutte le cose sono legate nel condividere una forza vitale comune”.

Tale interconnessione tra noi e gli altri esseri viventi assume i contorni di una pseudo-spiritualità secolare che l’autore sostiene di aver fondato ex nihilo, in sostituzione alle altre fedi esistenti (!).

Non ci resta che aderire, farci neofiti e adepti – che siate atei o credenti poco importa, oh lettori: convertitevi al ghedeist di Albrecht! In fondo non è richiesto alcun atto di fede: basta immergersi nella natura o in un microscopio per vedere la simbiosi al lavoro nei microbiomi. Il bioma intestinale diventa il modello – mi viene da dire il presepe – della spiritualità ghedeistiana. Religione secolare, il ghedeist è anche un’etica fondata sulla cooperazione, l’interconnessione e la condivisione. Perché la vita funziona come una cooperativa.

Uscire dall’Antropocene

Riprendiamo. In sintesi, Albrecht è abile nel dare nome a emozioni e sensazioni che abbiamo difficoltà a esprimere o a comprendere. A tal fine si rifà a figure conosciute al pubblico italiano come Aldo Leopold e ad altre come Elyne Mitchell (1913-2002), filosofa australiana dell’ambiente contemporanea di Leopold, autrice di Soil and Civilization (1946) e, a detta di Albrecht, sconosciuta persino in Australia. Se da Leopold trae la capacità della terra di rigenerarsi, da Mitchell, influenzata dalla psicologia di Jung, trae il legame tra salute mentale e salute dell’ecosistema, tra destabilizzazione psichica e degrado dell’ambiente. Entrambi lo aiutano a rispondere alla domanda che soggiace al libro: come esprimere quelle emozioni di sconforto quando una forza esterna invade il nostro ambiente, la nostra sfera biofisica? Come pensare il legame tra salute mentale umana e salute degli ecosistemi compromessi – una questione psicologica più che filosofica o medica? Tenendo insieme il pensiero presocratico e l’ipotesi Gaia di James Lovelock, quella di una biosfera come organismo vivente, Albrecht considera il pianeta organicamente unificato e la Terra un “bioma simbiotico ultimo”. Ecco la sua contro-proposta alla solastalgia.

“Sono nato all’inizio dell’Antropocene”: sono queste le prime parole di Earth Emotions. Per Albrecht si tratta di uscire il più rapidamente possibile da un’era che gli è coetanea in quanto, come la solastalgia, non si tratta di un processo irreversibile. Basterebbe abbracciare la simbiosi del mondo vivente. L’amore, Albrecht ne è convinto, tornerà al centro delle nostre emozioni della Terra, compiendo un viaggio, accennato dal libro, dall’attuale solastalgia alla Generazione Simbiocene. La conclusione avanza persino una data: gli anni 2070. Solastalgia ed emozioni psicoterratiche negative scompariranno, come il termine solastalgia scomparirà dai dizionari verso il 2100 (nel dizionario Treccani è entrato nel 2018: “Stato di angoscia che affligge chi ha subito una tragedia ambientale provocata dall’intervento maldestro dell’uomo sulla natura”).

Il PNL (prodotto nazionale lordo) sarà sostituito dal PSL (prodotto simbioregionale lordo); abbandoneremo le città per vivere nelle “simbipolis”; su internet commercio e comunicazione saranno divise come Chiesa e Stato nelle democrazie; la conoscenza della sequenza genetica e del nostro microbioma ci permetterà di trovare l’alimentazione e la salute ottimali – la generazione Simbiocene sarà “simbiovora”. Nessun allarme: non mancherà un erotismo simbiotico, “sensuale e ghedeistuale”. Così la Generazione Simbiocene compirà la sua missione e allora anche Albrecht potrà, come afferma, riposare sereno in una tomba ben compostata.

Io glielo auguro di cuore, ma a molti lettori non sfuggirà il lato delirante di tante sue affermazioni. In un inciso Albrecht riporta la reazione di un dottore che, sentendo parlare di solastalgia, pensa a una brutta insolazione. Sulla scia di questo aneddoto, continuo a interrogarmi su come mettere a frutto l’intuizione della solastalgia – centrale per il pensiero ecologico – senza farsi ghedeistiani, senza “comprare” ovvero la promessa del Regno dell’amore universale. Come metterla a frutto prima di essere tutti compostati.

Le immagini che accompagnano l’articolo sono tratte da: Anthony McCall, Landscape for Fire, film 16mm, 1972

Riccardo Venturi

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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