Sempre pericolose – proprio in quanto sempre più à la page – le mésalliances del Contemporaneo nei musei di tradizione. Se già un medio artista del presente per sopravvivere deve farsi competitivo, per non dire brutale, figurarsi di cosa possano essere capaci quelli che tengono botta da secoli. Più volte ho visto contemporanei, anche illustri, schiacciati senza pietà dal macigno della tradizione: Nietzsche ci aveva pur messo in guardia. Ma se il pericolo non lo sfidiamo restiamo sue vittime due volte (e qui la parola definitiva l’ha detta invece Henry James, nella Bestia nella giungla). Forse la soluzione sta nel non insistere nel tentativo impossibile di annullare la distanza, che dalla tradizione ci separa, per viceversa enfatizzarla al massimo – sino a cortocircuitarla in un’allucinatoria coincidenza.

È quanto hanno provato a fare due fotografi, Fabio Barile e Domingo Milella, che all’agone collo scenario imponente (Manganelli direbbe «tirannico») delle Terme di Diocleziano giungono dopo lunga elaborazione in luoghi e contesti diversi (riassunti qui nel dialogo col loro curatore, Alessandro Dandini de Sylva, estratto – per la cortesia loro e delle Terme che lo pubblicano – dal piccolo quanto polito catalogo edito da Malaspina). Non è un caso, forse, che l’altra mostra di riferimento, in questi giorni a Roma, sia quella di Giuseppe Penone, Idee di pietra, nell’ancor più gigantesco complesso delle Terme di Caracalla.

Le foto “archeologiche” di Milella e quelle “geologiche” di Barile, molto diverse fra loro, sono però accomunate dal mettere in discussione non solo le diverse scale cronologiche (il titolo della mostra, Le forme del tempo, parafrasa quello di un saggio classico di George Kubler) ma, più alla radice, la distinzione fra Naturale e Artificiale oggi al centro della discussione. Più che al vexato Antropocene, così spesso tirato in ballo a sproposito, si guarda qui a come i tempi storici si siano spesso conformati alla stratificazione di quelli geologici (secondo una grande lezione foucaultiana), così come le figure plasmate dall’uomo, quanto più si sono volute “astratte”, spesso sono sembrate mimare le forme della natura (e reversibilmente, allo spettacolo della natura, non possiamo guardare senza un pensiero all’arte umana).

Dice bene introducendo al catalogo Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano del quale fa parte lo spazio delle Terme di Diocleziano, che «vedere le opere di Barile e Milella in questo contesto monumentale ci spinge a guardare diversamente anche le collezioni del museo, a ritrovare in alcuni frammenti iscritti e in alcuni ritratti, rovinati dall’erosione o frammentati dalle distruzioni, i processi geologici che gli artisti hanno colto nei paesaggi e nei siti archeologici monumentali esplorati»: la testa di un presunto «Diomede», questo Giano imperfetto che nella penultima sala espositiva separa le iscrizioni nel sito di Arsemia in Turchia, fotografata da Milella, dall’incredibile vortice di pietra scoperto da Barile in quello di Sa Giuntura in Sardegna, presenta una faccia levigata e imperturbabile e una abrasa e “informale”. Nella loro incommensurabilità entrambe autentiche, ma anche tutte e due minacciose. Perché ci ricordano che, nel volgere incurante del tempo, l’umano non è che una parentesi: seducente, e fragile, come ogni miracolo.

Andrea Cortellessa

Le forme del tempo, Terme di Diocleziano, Roma, vista dell’installazione, ph. Eleonora Cerri Pecorella

ALESSANDRO DANDINI DE SYLVA  Le forme del tempo sono un viaggio al di là del mondo presente. Un viaggio strutturato in forma di dialogo per immagini che solleva gli interrogativi più antichi del mondo: chi siamo? o piuttosto, che cosa siamo? Le fotografie di Fabio mostrano forme geologiche in perenne evoluzione, fin dall’origine del tempo profondo della Terra. Quelle di Domingo affondano le loro radici nella pietra dell’arcaico, in segni e rovine i cui significati si sono perduti o si perderanno nel tempo. Entrambi cercate un modo per dare un senso ai resti del passato e ipotizzare il nostro posto nella natura e nella storia.

DOMINGO MILELLA   Le forme del tempo sono un dialogo tra diverse forme di Archeologia. Al centro della mostra penso ci sia questo rapporto tra il mio lavoro e quello di Fabio, e tra la Fotografia stessa e il Tempo.

FABIO BARILE     Quando abbiamo scelto il nome della mostra, abbiamo cambiato il titolo del libro di George Kubler La forma del tempo in Le forme del tempo. La declinazione plurale scolpisce un’idea mentale e fisica del tempo molto precisa, ovvero che il tempo non sia una cosa uniforme, e la relatività ci dice che non lo è affatto. In una prospettiva di scala, il tempo può avere varie forme: il tempo dell’universo, il tempo della terra, il tempo dell’uomo. O forse ha una struttura frattale, e non importa a che scala lo percepisci, è sempre uguale.

DM   Che sia Tempo geologico e sperimentale, della domanda scientifica, o simbolico e spirituale, della domanda religiosa, questo è difficile da dire. Fabio cerca crepe nel Tempo Totale, io nel Tempo Reale, ma direi che entrambi i lavori si domandano dove l’Uomo sia andato, se ci sia mai stato o sia già scomparso.

FB     Guardando i nostri lavori assieme, mi viene in mente che abbiamo messo in atto un discorso che allo stesso tempo va a favore e contro l’entropia. Da un lato mostriamo quel temporaneo ordine della materia che si organizza sotto forma di vita, cultura e costrutto, e dall’altro quel costrutto, un volto scolpito nella roccia, diviene maceria e di nuovo geologia. La Post-Geo-Logia e la Post-Archeo-Logia sono intrecciate assieme, sono la stessa cosa, è un tempo circolare, che però percorre tutte le traiettorie possibili in tutte le direzioni.

Fabio Barile, Sa Giuntura, Supramonte, Italia, 2019

ADS  Le vostre fotografie, per quanto diverse, possiedono la stessa capacità di riflettere il Tempo. Non fermano il suo fluire in frazioni di secondo ma lo abbracciano interamente e lo comprimono in singole immagini davanti ai nostri occhi. Osservarle è come guardare il nostro passato (o forse sarebbe meglio dire tutto il passato) in uno specchio.

DM   Strano che tu dica questo Alessandro, è simile al principio della Fotografia stessa e della Camera Oscura. Sia io che Fabio proviamo a comprimere e a comprendere con delle Immagini Spazio e Tempo. Uniamo il Tempo spaccato nello Spazio delle nostre Fotografie? Facciamo in questo qualcosa di Archeologico, forse.

ADS  L’archeologia è sicuramente un terreno comune. L’osservazione stratigrafica del paesaggio, così come ci appare da evidenze geologiche e archeologiche, è un viaggio alla scoperta della storia della vita. Le vostre immagini ci mostrano storie di eventi che portano ad altri eventi, storie di successi e sconfitte, di cambiamenti e di stasi. Tuttavia, ciascuna di queste storie è un’isola remota persa in un immenso mare di tempo, e i suoi rapporti con gli altri frammenti di tempo e il nostro presente restano spesso oscuri.

Domingo Milella, Tomba di Re Mida, Turchia, 2011

DM   Pezzi di Frammenti, Pezzi di Pezzi del Tempo a cui noi proviamo a dare un’immagine Dialettica, Armonica; ma cosa unisce queste Forme? Cosa unisce questi Tempi? Questo Tempo? Noi e questo Spazio: quale Riverbero?

EPPUR TUTTI QUESTI FRAMMENTI SI PARLANO ANCORA.

FB     Schopenhauer scrive che lIo è il punto oscuro della coscienza, come sulla retina è cieco proprio il punto dattacco del nervo ottico, come il cervello stesso è del tutto insensibile, il corpo solare è buio e locchio vede tutto, ma non sé stesso. Come l’uomo allo specchio di Magritte guardiamo noi stessi, ma mai dritti negli occhi.

DM   Penso che sia io che Fabio siamo vicini all’Invenzione della Fotografia stessa (guarda il nostro attaccamento alla Camera Oscura), adiacente all’Archeologia, come alla Macchina al Vapore e agli Orologi Meccanizzati, non sono forse tutte scoperte coeve?

FB     Siamo dei contemporanei antichi, antiquari del rituale della camera oscura, ma vedo il nostro utilizzo della camera di grande formato come un bisogno del rituale del guardare, dove la macchina non è intesa come uno strumento di appropriazione dell’immagine del mondo, ma come uno strumento di relazione con il mondo. Il grande vetro ti costringe a una relazione con l’immagine proiettata, e modula il tempo di relazione. Al contrario il digitale trasforma l’atto di fotografare in un riflesso di acquisizione. O forse sono solo legato al rito.

DM   Assolutamente Fabio, e non dimenticherei che noi fotografiamo sotto un panno nero, sotto un velo direi, questa non può esser una coincidenza, un velo tra quello che si vede e non si vede, tra Spazio e Tempo. La fotografia analogica, aggiungo, oltre all’argento e all’acqua che mancano completamente nel processo digitale, ha un aspetto sacro, a modo suo… si misura con il Buio.

FB     E vediamo anche tutto al contrario. Queste condizioni, penso, favoriscano un uso simbolico del linguaggio fotografico. Per questo credo tu abbia fatto questo viaggio alle origini del pensiero simbolico. Nonostante la loro configurazione documentaria, le nostre immagini sottintendono un uso della fotografia molto vicino a quel pensiero dove il paesaggio non si esaurisce in un luogo ma rappresenta un’immensa stratificazione di idee.

Fabio Barile, Affioramento dolomitico nell’altopiano di Campo Imperatore, Italia, 2015

AD    Aver portato questa stratificazione di immagini e idee alle Terme di Diocleziano a Roma, amplificandola con l’aggiunta di una selezione di reperti archeologici riscoperti negli archivi del Museo Nazionale Romano insieme al direttore Stéphane Verger e alle sue collaboratrici, è il risultato di un percorso che ci ha spinto nel tempo a individuare spazi espositivi non convenzionali, diametralmente opposti ai neutrali spazi bianchi dell’arte contemporanea, con l’intento di assorbirne le vibrazioni dal passato. Il primo capitolo è stato realizzato al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, un vecchio mercato ittico costruito all’inizio dell’Ottocento secondo lo schema del tempio pagano e la adiacente seicentesca chiesa del Suffragio, chiusa al culto verso la fine dell’Ottocento e destinata a mercato delle erbe. Il secondo capitolo è stato realizzato nella Sala delle Preghiere (o Tempio) della Sinagoga di Pesaro, costruita nel XVI secolo e celata nel tessuto urbano del ghetto. Il terzo capitolo, pensato per le Grandi Aule coperte delle Terme di Diocleziano, è un archivio di testimonianze archeologiche: da un lato la natura stessa del complesso monumentale costruito dall’imperatore Massimiano tra il 298 e il 306 d.C., insieme ai frammenti o schegge di tempo riportate alla luce dai magazzini del museo, dall’altro le archeologie del paesaggio di Fabio e le archeologie del linguaggio di Domingo.

DM   Siamo anche noi dei reperti? Alla fine la fotografia fa sempre perennemente di ogni istante archeologia del tempo, archeologia del presente, mi domando sempre ma Instagram che reperti produrrà? Le tre Teste in mostra (mi fermerei un secondo con loro) e per esempio le mie tre opere in mostra in cui c’è questa figura davanti a varie rovine, mausolei, altari… mi domando io stesso se quella figura sia intenta a dare le spalle al presente, o a guardare in faccia il passato. Come riuscire a tenere lo sguardo fisso sul futuro? Vedere nella cecità…

FB     La fotografia è fossile luminoso, reperto visivo, segno significante e insignificante.

DM   È strano che nell’allestire la mostra abbiamo voluto celare, velare, forse una delle immagini più potenti dell’archeologia nelle Terme stesse, abbiamo protetto con un muro, che ospita la foto di una sepoltura, il misterioso mosaico del 200 AD, che ritrae uno scheletro con sotto la famosa frase greca «γνῶθι σαυτόν» ovvero «conosci te stesso». Non mi voglio dilungare su Delfi e le origini arcaiche del motto, ma direi che non è un caso che abbiamo sofferto un’immagine tanto potente, che si potrà vedere solo andando attorno al muro, oltre l’ostacolo. Al di là di un’immagine della più alta vetta della Mesopotamia, a Nemrut Dagi. Un dialogo segreto tra il mausoleo di Antioco I di Commagene, forse sepolto dentro la vetta artificiale di un monte naturale, e il dito indice dello scheletro nel mosaico, che come per ironia vive ancora indicando con la mano destra il Sottomondo. Alto e Basso qui si congiungono nel Tempo e nello Spazio. Ma sono solo delle coincidenze, vero? O forse, come a qualcuno piacerebbe dire, sono solo delle fotografie…


Domingo Milella, Nemrut Dagi, Turchia, 2013

FB     Questa idea della morte e dell’ultraterreno ha caratterizzato da sempre mitologie e religioni. Il prima del mondo e il dopo del mondo hanno sempre convissuto, Origine e Destino. Questo mi fa pensare alle nostre ricerche e ai percorsi intrapresi. Io sono partito dall’idea del Premondo, dove la roccia è l’origine di tutto: ogni idea legata alla cultura umana ripone le proprie radici nella roccia, l’architettura, la religione e la tecnologia hanno emanato il loro primo soffio vitale nella roccia e attraverso la roccia così come l’arte. Tu invece hai fatto il viaggio inverso, partendo dal contemporaneo per tornare indietro attraverso il paesaggio e l’archeologia fino alle origini del linguaggio. Forse le archeologie in mostra riassumono quest’idea, i ritratti sono cancellati dal tempo e tornano Premondo. È una cancellazione rivelatrice, la roccia che si è trasformata in linguaggio nel tempo torna a rivelare la sua origine. Anche il luogo della mostra funziona più o meno nello stesso modo (avevo scritto nello stesso tempo). La materia è in continua trasformazione e le geologie e le archeologie in mostra non fanno altro che evidenziare questo aspetto.

DM   Tutto questo mi fa pensare all’aria di famiglia che questa mostra e queste immagini hanno con un’altra opera del Guercino presente a Roma, a Palazzo Barberini, intitolata Et in Arcadia ego, del 1618-22. Tutte le immagini hanno un legame con la morte, la fotografia ha con essa una relazione strutturale, impossibile sfuggirne per quanto la telefonia cellullare e le onnipresenti nuove immagini ci vogliano far credere il contrario. In questo dipinto due giovani pastori, in Arcadia, trovano un teschio. Un memento mori sotto cui campeggia la frase: «Et in Arcadia Ego», cioè «io sono anche in Arcadia». L’anagramma della frase incisa sotto al teschio nel dipinto potrebbe anche dire «I! Tego Arcana Dei», cioè «Andate via! Nascondo i segreti di Dio».

FB     Credo che nei nostri lavori, anche se sono solo delle fotografie…, sia ancora incarnato questo aspetto legato alla prima funzione dell’arte, ovvero rispondere alle più antiche domande del mondo (e anche alla prima domanda di Alessandro): chi siamo? O, piuttosto, che cosa siamo? Utilizziamo l’arte come strumento di ricerca sull’Origine e sul Destino delle cose.

Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano, Ritratto maschile, provenienza ignota, I secolo d.C. (età augustea)

Fabio Barile-Domingo Milella
Le forme del tempo
A cura di Alessandro Dandini de Sylva
Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano
fino al 31 luglio 2022

In copertina: Fabio Barile, Piramidi di terra a Zone, Italia, 2022

è nato nel 1980 a Barletta e si è diplomato alla Fondazione Studio Marangoni a Firenze nel 2007. Ha iniziato la sua ricerca fotografica nel 2005 con un progetto sull’erosione che interessa 1500 km di costa italiana. Questo progetto dà il via ad un percorso di ricerca incentrato sull’indagine dei processi naturali del paesaggio. Tra il 2019 e il 2020 partecipa alla grande mostra itinerante "On Earth. Imaging, technology and the natural world" tenutasi alla 50a edizione dei Rencontres d’Arles, e poi al FOAM Museum di Amsterdam e a Le Lieu Unique di Nantes. Nel 2020 un portfolio dei suoi lavori più recenti è stato pubblicato sul numero 57 di “FOAM Magazine”. Negli ultimi anni ha esposto al MAXXI Roma, L’Aquila e all’American academy in Rome. Le sue opere sono nelle collezioni della Fondazione MAST di Bologna, dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma, MAXXI e del FOAM Museum di Amsterdam.

è nato nel 1981 a Roma, dove lavora come artista e curatore. Le sue opere sono state esposte in istituzioni pubbliche e private tra cui la Flowers Gallery a Londra, la Humble Arts Foundation a New York, il Bund 33 Art Center a Shanghai, l’Istituto Italiano di Cultura a Parigi e Operativa a Roma. Tra i riconoscimenti ricevuti il Premio Shanghai, Les Promesses de l’Art e il Talent Prize. Il suo primo libro d’artista, “Paesaggi”, è presente in collezioni pubbliche come la Tate Library a Londra e l’ICCD Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione a Roma. Dal 2011 al 2016 è stato curatore di Fotografia Festival Internazionale di Roma al Museo MACRO di Roma. Nel 2013 e nel 2014 è stato curatore ospite alla Fondazione Pastificio Cerere di Roma e alla Fondazione Ermanno Casoli di Fabriano. Dal 2016 è direttore artistico alla Fondazione Malaspina e dal 2017 curatore alla Fondazione Pescheria di Pesaro. Negli ultimi anni ha curato mostre in diverse istituzioni pubbliche tra cui il MAXXI di Roma e L’Aquila, l’Istituto Italiano di Cultura a Londra e il Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro.

è nato nel 1981 a Bari. Dopo essersi trasferito a New York, ha studiato fotografia alla School of Visual Arts sotto la guida di Stephen Shore. Thomas Struth è poi stato per lui un mentore fondamentale. Oggi vive fra Bari e altrove. I suoi lavori sono stati esposti in mostre personali alle gallerie Brancolini Grimaldi, Londra (2012), Tracy Williams, New York (2008, 2013) Grimaldi Gavin, Londra (2015), e al Foam Museum, Amsterdam (2008). Ha partecipato a varie mostre collettive tra cui la 54a Biennale di Venezia e i Rencontres della Fotografia di Arles (2011). Dal 2015 si dedica esclusivamente a una ricerca sulla preistoria e il pensiero astratto. Nel 2022 i suoi lavori sono visibili al pubblico presso la Margulies Collection a Miami, e Borusan Contemporary, Istanbul.

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