«L’intellettuale arte della combinazione e della riapparizione del mito», inteso come ciò che riesce a creare nuove stanchezze e nuovi terrori – si leggeva in un libro di molto successo di alcuni anni fa, che invitava a lasciarsi andare all’ascolto delle dissonanze che la Vienna otto/novecentesca rivelava e diffondeva – «rare volte ha raggiunto la figura così compiutamente» come nel ciclo di Max Klinger, Parafrasi sul ritrovamento d’un guanto. Se Giorgio de Chirico, nel 1920, dalle colonne del «Convegno», osservava come in quest’opera «al senso romantico-moderno» l’artista tedesco avesse aggiunto «una fantasia di sognatore e di narratore, tenebrosa e infinitamente malinconica», già qualche anno prima Alfred Kubin, scoprendo a Monaco la medesima serie klingeriana di acqueforti, aveva appuntato come, insieme al «torrente di visioni e di immagini in bianco e nero», dovesse rilevarsi l’ironia che avrebbe impedito di immedesimarsi nella finzione, permettendole così di raggiungere una perfetta forma, ancorché del tutto aliena da ogni decorativismo. In Klinger, infatti, Kubin trova – ha scritto Philip H. Rhein in The Verbal and Visual Art of Alfred Kubin – «un artista che ha creato immagini che combinano la realtà sperimentata otticamente con la realtà simbolica immaginata», dando vita a un’allucinazione permanente.
L’attribuire un significato a questo mondo strettamente imparentato a quello del sogno, indagandone la genealogia attraverso numerosi confronti, ma suggerendo anche la possibilità di «abbandonarsi all’impensabile, di toccarlo, di catturare con gli occhi le visioni e di guardare, guardare, guardare», come Kubin stesso scrive in un testo del 1922 (pubblicato con altri in una silloge apparsa qualche anno fa da Castelvecchi, col titolo Disegnatore di sogni), è l’intento che anima la mostra organizzata presso il Leopold Museum di Vienna, e che si concentra in particolare sulla produzione grafica di Kubin degli anni Dieci e Venti del secolo scorso.

L’affinità dell’arte di Kubin con autori come Bosch, Goya e Odilon Redon era già stata sottolineata da altre mostre, ad esempio quella del 1988 allestita alla Fondazione Mazzotta di Milano. L’esposizione viennese si concentra su altre possibili agnazioni, di matrice prettamente tedesca: si evoca Dürer ma allusivamente, senza esporlo, così come accade per Martin Schongauer e Hans Baldung. Da loro Kubin avrebbe ereditato la sicurezza del tratto, l’ossessione per il dettaglio, il piacere del disegno, da cui nascono «impressionanti accenni ai veri prodigi». A far da contrappeso a tale minutissima precisione dell’intaglio grafico si porrebbe, accanto al repertorio satanico e lascivo di Félicien Rops, quello di James Ensor, contraddistinto da una corrosiva forza disgregatrice, che – ha affermato Walter Benjamin – fa emergere la riposta infinità delle cose: la pietra smangiata, la carne decomposta mostrano la sterminata molteplicità della loro struttura granulare. In lui – come in Macht (1903) di Kubin – la massa scoperta lascia scorgere «il brulichio del groviglio verminoso che scopriamo con disgusto sotto una pietra sollevata».

È proprio questa Entartung, questa «degenerazione» (termine che ricorre non di rado negli scritti teorici di Kubin) dei tegumenti a costituire uno dei motivi attorno ai quali insiste la struttura dell’esposizione del Leopold Museum. Se ne trova esempio nell’acquarello Schicksalgöttin o nel disegno a china Der Schlaf (fig. 3), dove, tuttavia, già si attesta un altro dei nuclei tematici più caratteristici della produzione di Kubin: l’intercambiabilità – sotto l’egida di una figura femminile sovente egra e adusta – del mondo umano come di quello vegetale ed animale. Può così osservarsi, accanto a una chiara influenza degli studi sul matriarcato di Bachofen e delle pagine di Otto Weininger, pregne d’una misoginia così greve da sembrare d’accatto, quella – ancora poco indagata, fatti salvi i cenni qua e la lasciati da Angelo Maria Ripellino – che sembra discendere dal Diderot del Sogno di D’Alembert, e che fa riconoscere come «ogni animale sia più o meno uomo; ogni minerale sia più o meno pianta; ogni pianta più o meno animale», sicché «nascere, vivere, morire, vorrebbe dire soltanto cambiare forma».

Nell’ideale dialogo che la mostra viennese intesse fra l’arte di Kubin e quella di molti dei suoi contemporanei, a partire da Rops, List ed Engelhart, sembra però volersi soprattutto ribadire quanto già riusciva evidente a un lettore d’eccezione dell’autobiografia, Demoni e visioni notturne (troppo spesso preterita in favore del suo unico romanzo, L’altra parte, nato come ecfrasi dei propri disegni) dell’artista boemo, quale fu Giacomo Debenedetti. Nell’accompagnarne la prima edizione italiana, questi aveva sostenuto come nei disegni di Kubin si finisse per illustrare un solo, inquietantissimo testo: «la storia di una generazione destinata a scontrarsi, in un misto di atavico terrore e di inaudita lucidità, col caos, i mostri, le rivelazioni informi o sublimi della psiche». Ma se è certo vero che, del mondo onirico, Kubin offre una delle trascrizioni più immediate, non sembra essere meno vero un certo suo indulgere in giochi immaginisti, che fanno ronds de jambe e gara di turgori (ne sono esempi i disegni Gefräßigkeit und Entsagung beim Satan e Das malajisische Varieté, fig. 4), e dove perciò conta soprattutto trovare la prossimità di cose distanti per mezzo di metafore che si affastellano sulla tela come fuochi d’artificio sul nulla.

Questa vocazione di Kubin al bric-à-brac delle immagini per coprire il vuoto ha trovato significativa consonanza in Franz Kafka. Questi, rivolgendosi al suo editore Kurt Wolff, nell’ottobre 1915, si augurava che nell’illustrare La metamorfosi non si disegnasse giammai l’insetto protagonista del racconto: «non lo si può far vedere neanche da lontano» – si raccomandava. L’illustratore Ottomar Starke esaudì la richiesta; ma contraggenio. Egli del resto era solito fare delle «effettive illustrazioni». La poetica di Kafka, introducendo a un mondo senza sonno, al mondo del dormiente sveglio ove tutto è chiaro di una chiarezza spaventosa, richiedeva invece che si sapesse restituire il senso di un’esperienza che accogliesse e saldasse in sé parodia e terrore. Nel 1911, dell’incontro con Kubin – come Kafka stesso ebbe espressamente a riportare nei suoi Diari – gli rimase impressa soprattutto la complessione fisica molto robusta, la consuetudine a ripetere le ultime parole dell’interlocutore, i consigli sui carminativi, ma soprattutto gli onirismi sbandellati, che, secondo Klaus Wagenbach, ebbero non modesto influsso su molti dei racconti kafkiani, a cominciare proprio dalla Metamorfosi. Kubin dal canto suo parve lasciarsi suggestionare dall’universo letterario kafkiano, al punto da voler illustrare la raccolta Un medico di campagna, trovandone l’atmosfera magica ed enigmatica molto congeniale al suo intento di «fissare in immagini il sogno secreto dalla memoria al primo risveglio».

Ma al di là di queste notazioni biografiche, ciò che sembra utile considerare, anche grazie all’allestimento viennese che torna a mostrarlo traendolo dagli archivi delle edizioni Bruno Cassirer, è la prossimità che lega e spiega vicendevolmente il personaggio di Gregor Samsa a quello della Morte, nel disegno Der Maler. Si tratta di due figure del tutto irreali; nondimeno entrambe sono da considerare nei termini della più chiara e concisa logica: esse sono. Come è stato opportunamente notato, in esse si ha epitome di quel «trattamento logico dell’irreale» che può constatarsi tanto negli scritti di Kafka quanto nei disegni di Kubin, nel loro essere capaci di portare rispettivamente il lettore e lo spettatore nell’interstizio che si apre fra la realtà e l’irrealtà, senza che vi sia mai un punto di intersezione fra loro, perché si è ormai persa ogni paura e non si tende più alla dissoluzione, ma alla beatitudine dell’annullamento.
Alfred Kubin
Bekenntnisse einer gequälten Seele
Vienna, Leopold Museum
fino al 24 luglio 2022
In copertina: Alfred Kubin, Der Mensch, um 1902 © Leopold Museum, Wien | Foto- Leopold Museum, Wien © Eberhard Spangenberg, München/Bildrecht, Wien 2022 (detail)