Traslato, spaesato – in presenza di un dolore remoto

Al centro di The Lebanese House: Saving a home, Saving a city, evento presentato dal Victoria & Albert Museum di Londra (fino al 22 agosto 2022), c’è la ricostruzione della facciata di un edificio di Beirut. Nello specifico, si tratta della copia a grandezza naturale di una trifora del diciannovesimo secolo, esempio raffinato dello stile ottomano-veneziano che caratterizza un gran numero di edifici della capitale libanese.

La facciata originaria era stata gravemente danneggiata dalla drammatica esplosione avvenuta nell’area del porto di Beirut il 4 agosto 2020, proprio mentre l’ente museale londinese ne stava sovvenzionando il restauro. Nella trifora si ricostituisce una scena intima di vita cittadina e si mette a nudo, a ritroso, la genealogia – dunque la narrazione – estetica – di un mondo trasferito, quello dei dominatori ottomani, seminato a sua volta dal gusto della società mercantilista veneziana. Questa linea di discendenza, questo discorso polifonico, sono tutti condensati nella fusione degli stili architettonici, che nel contesto del museo vengono resi in modo asettico, come su un tavolo anatomico.

Nell’installazione emergono però diversi elementi dissonanti. Da un lato, la presenza di tracce di un passato coloniale ancora lontano dall’essere concluso, suggerite anche dalla figura di Annabel Karim Kassar, l’architetta franco-libanese sovrintendente del restauro. Dall’altro, il fatto – esplicitato in sede museale – che il dramma della distruzione sia stato vissuto in prima persona dai manovali libanesi impiegati nel restauro, tutti presenti nel cantiere di Beirut al momento dell’esplosione.

C’è anche un terzo elemento, meno appariscente ma tuttavia essenziale. È la comparsa, in filigrana, della città occidentale sede dell’appropriazione di architetture appartenenti ad altri tessuti: la ferita ancora aperta riguardante i marmi del Partenone al British Museum, la facciata dell’Altare di Pergamo conservata a Berlino, i cinque chiostri medievali riassemblati al The Cloisters a Manhattan e così via.

Si ha l’impressione, insomma, che non ci si riesca a disabituare alle fascinazioni di una pratica controversa, causa di un retrogusto non armonico all’interno di una cornice pure virtuosa come quella del finanziamento di un progetto culturale. E del resto, è solo in virtù della distanza, e quindi della messa in scena pacificata di un dramma reale, che i curatori dell’evento possono scrivere: “si può contemplare la facciata rilassandosi su un divano che evoca il tradizionale salone d’ingresso di una residenza libanese, poi ci si può accomodare nel mini auditorium per assistere a una serie di film appositamente commissionati che approfondiscono gli effetti fisici e sociali dell’esplosione del 2020 sugli edifici e sugli abitanti di Beirut.” Il senso sta tutto in quel “rilassandosi” e “accomodare”, evidentemente possibili solo nella ricca Londra e non appunto a Beirut.

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Diverso, più armonico e complesso, è il tentativo di ricostruzione dei luoghi da parte di si è spostato in prima persona, indipendentemente dal modo con cui questi ha raggiunto il paese ospite. Negli ultimi anni diversi musei hanno mostrato interesse nei confronti di installazioni di artisti stranieri (si tratti di ascriverle ai vari filoni del post-coloniale, del migratorio, delle risultanti dei cambiamenti climatici e così via) che fossero sensibili al tema della replica architettonica.

Questa diviene strumento narrativo dell’artista in diversi modi: si va dall’evocazione-denuncia della propria condizione in patria (si veda la ricostruzione della cella di Ai Weiwei all’interno della mostra Evidence, Martin-Gropius Bau, Berlino, 2014), dall’esplosione e messa in mostra dell’intimità domestica come in Waste Not (MoMA, 2006) di Song Dong, fino alla riflessione sui punti di incontro tra inconscio e immaginario collettivo, tema fondativo dell’opera di Sol Calero.

Song Dong, Waste Not, MoMA, 2006 ph. Andrew Russeth / Flickr

Il lavoro dell’artista venezuelana, in particolare, è basato non tanto sulla riproduzione fedele di uno spazio allogeno, quanto nell’interpretazione soggettiva di quello che si ritiene l’insieme delle caratteristiche più riconoscibili di quello spazio per gli spettatori: il discorso verte sulla manipolazione dell’immaginario, sulla sua esagerazione. La ricerca di una surreale quanto fittizia dimensione esotica scimmiotta l’idea del turista in panciolle, lo straniamento nasce proprio dal sovvertire l’idea della visione plastificata, si fa tutt’uno con il riconoscimento dei cliché.

In tutti i casi, l’elemento controverso – qui dichiarato e quindi trasparente – trova legittimità tanto per l’artista quanto per il pubblico. In altre parole, l’espediente non è cercare di sostituire il dolore della perdita con un suo surrogato, ma di condividerlo in modo più o meno mediato con il fruitore. Si afferma che la trasposizione dello spazio è la testimonianza di un problema che sussiste altrove, il segmento terminale di fughe, esili, distruzioni.

La casa ricostruita rappresenta prima di tutto il bisogno di saggiare la propria provenienza, le proprie trasformazioni. Qui il termine casa non è sinonimo di luogo domestico, ma piuttosto di un momento che si è rivelato decisivo nella formazione e nella vita dell’artista, e da cui si irradia la sua azione. Solo in una nuova sede, grazie quindi all’allestimento, è possibile mutuare questi elementi di precarietà con altri più stabili e definiti.

Il secondo atto è dunque il riconoscimento, la cui prima forma è lo status protettivo dell’istituzione museale, con il suo corpo che si offre come porto sicuro. E qui torna la differenza primaria tra un museo sponsor, che ha spesso interesse a trasformare il dolore in esperienza vendibile, e quello che mette al centro l’esperienza mediandola il meno possibile.

C’è poi porsi al cospetto del pubblico. Questo, se da un lato richiede la necessità di intercettare i suoi gusti e di rispondere ai suoi bisogni specifici, e quindi implica nuove problematiche che accentuano la posizione di precarietà di cui l’artista è depositario (il limite di questa operazione è la casa-corpo di Marina Abramovic in The artist is present, Moma, New York, 2010), dall’altro è quasi sempre la forma più riconoscibile di legittimazione. I crocevia interiori dell’artista si popolano di spettatori che a loro volta li interiorizzano, in un transfer che, per la natura dell’allestimento, diviene interrogativo, parziale, insoddisfacente.   

Come detto, gli spettatori sono invitati a constatare la fine di un processo, l’anello estremo di una problematica remota (temporalmente e spazialmente) che non si è ancora conclusa. Nello spazio ricreato si sintetizzano raccordi e rotture, si suggerisce la compresenza di significazioni più profonde in modo indipendente dalla sua convenzionalità e dalla sua rappresentazione. La radice di questa capacità è da rintracciare proprio nella traslazione e nello spaesamento, e soltanto a margine, in misura molto minore, dalla specificità della collocazione all’interno di strutture dedicate all’arte.

Sol Calero, Agencia Viajes Paraíso, Kunstpalais Erlangen, Germania, 2017

Una conferma può venire dai tentativi di ricostruzione del proprio immaginario negli spazi non museali, o dove la presenza di una progettualità di carattere espositivo non è del tutto esplicita. A riguardo, si possono citare i casi delle città del Nuovo Mondo che presentano elementi architettonici o addirittura riproduzioni precise dei paesi d’origine dei coloni fondatori (come il quartiere francese di New Orleans e le innumerevoli città statunitensi in cui svettano mulini a vento, fachwerkhäuser e canali) e, a un livello di dettaglio maggiore, le repliche di landmark e monumenti.

Ad ogni modo, la differenza sostanziale è che qui manca quasi sempre l’elemento del dolore, il problema più o meno marcato che rende necessario lo spostamento. Si può al massimo parlare di nostalgia, tradotta nel volersi ri-circondare di forme conosciute, visto che nel caso dei coloni la frontiera rimane quasi sempre un mondo più desiderabile di quello che si è lasciato. Ci si trova lontani dal migrante che è stato costretto a mettersi in viaggio e che, anche se potrà godere di maggiore sicurezza, ricchezza o, in generale, di una migliore qualità della vita, continuerà a sentirsi privato della sua terra.

Il progetto A design to live (2017) è il prodotto di un progetto triennale congiunto del Future Heritage Lab del MIT e dei rifugiati siriani del campo profughi di Azraq, sostenuto da CARE-Giordania e dall’Università tedesca della Giordania. Nel documento si descrivono le creazioni dei rifugiati durante la loro vita al campo.

Il complesso ha una struttura centralizzata, simile a quella di una città (o, al limite, di un carcere) dove i rifugiati godono di una discreta libertà di auto-organizzazione. Un risultato di ciò è che l’assetto del campo non sia modellato su criteri puramente funzionali, ma che vi si siano riprodotte le strutture civili, anche accessorie, di una città siriana in tempo di pace: vicoli, piazzette, mercatini, majlis.

Di queste strutture, gli esempi più appariscenti sono senza dubbio delle imitazioni, in scala ridotta, delle mura della cittadella di Aleppo e dell’Arco Monumentale di Palmira, che i rifugiati hanno edificato sui camminamenti del campo davanti ai tendoni. Nell’ironia amara della costruzione – parliamo di “castelli” di terra cruda compattata a mano, di fronte ai monumenti originali in pietra e marmo – sono contenute diverse implicazioni che ha senso analizzare.

Castello del deserto di Majid Al-Kanaan (Abo Ali), fatto a somiglianza delle mura della cittadella di Aleppo; ph. Zeid Madi, Nabil Sayfayn e il team di Azraq Journal, luglio 2017

C’è un discorso iniziale che riguarda le motivazioni dietro la loro costruzione. Risulta difficile, forse addirittura inutile, sondare fino in fondo il confine tra desiderio giocoso di ricostruire un landmark (nel campo sono stati sperimentati dei laboratori di upcycling che avevano anche la funzione di creare oggetti utili altrimenti difficili da reperire) e reale bisogno di identificarsi con esso per esorcizzare il dramma della perdita.

Ma è interessante anche notare che questa perdita è a sua volta doppia, perché l’Arco Monumentale di Palmira al momento della sua ricostruzione giaceva in rovine, distrutto due anni prima dai miliziani dello Stato Islamico. Di nuovo, cimentarsi nella sua ricostruzione significa non solo riappropriarsi della dimensione strettamente materiale (poterlo ammirare, passare tra i suoi archi, ecc.) ma soprattutto di quello simbolico, che va di pari passo con il riconoscimento dell’identità di siriani.

L’Arco Monumentale di Palmira è inoltre al centro di un ulteriore episodio di ricostituzione a distanza che ci riporta all’inizio del discorso. Si tratta di un progetto dell’Oxford’s Institute for Digital Archaeology che ha realizzato una copia leggermente più piccola dell’originale, costruita in Italia con marmo di Carrara ed esposta a Trafalgar Square e ancora in Italia, sul Lago Maggiore, ad Arona.

Copia in scala ridotta dell’Arco Monumentale di Palmira, Trafalgar Square, Londra, 2016 ph. Manateedugong / Flickr

L’insieme di queste esperienze sembra suggerire che, sia dove la ricostruzione di un luogo venga situata all’interno di una cornice museale o in generale possa essere considerata un’opera d’arte, sia nel caso della riappropriazione eterogenea da parte di migranti, rifugiati o coloni, in ogni caso da questa non si può scindere la manifestazione di un problema. L’eco di questo problema acquista una risonanza che va di pari passo con l’impossibilità di una riconciliazione.

In copertina: la trifora originaria, a Beirut, ricostruita nel Victoria & Albert Museum di Londra

(1980) si occupa principalmente di letteratura e di arte. I suoi contributi sono apparsi su diverse riviste (Doppiozero, L'Indiscreto, Nuovi Argomenti, Altri Animali, Minima&Moralia, Nazione Indiana e altre). Da marzo del 2020 è caporedattore di Singola Rivista. Vive e lavora a Berlino.

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