Dopo aver visto la grande esposizione a Palazzo Strozzi e al Museo Nazionale del Bargello, ho capito l’intento della mostra: restituire a Donatello tutto ciò che gli spetta. Un’occasione unica per vedere opere da sempre ancorate ai luoghi d’origine, ora presentate a così poca distanza l’una dall’altra. Ho incontrato il curatore a Firenze e gli ho rivolto alcune domande.
MONICA BIANCARDI: Conoscendola e avendo avuto modo di conoscere il suo pensiero, all’inizio non capivo la sua scelta di far viaggiare opere concepite per i loro luoghi d’origine, ma dopo aver visto la mostra tutto si è chiarito, e questa mostra era necessaria. Vorrei dunque cominciare da alcune considerazioni. L’opera d’arte non esisterebbe senza il suo fruitore. Il medesimo discorso vale a teatro, per la relazione attore-spettatore. Entrambe le esperienze artistiche costituiscono mediazioni che avvengono in un contesto spaziale ben chiaro all’artista. Donatello è stato un artista capace di teatralizzare storie bibliche, sia a livello scenografico che luministico. Tanto che lei ne parla come anticipatore delle arti più recenti, finanche la fotografia e il cinema. Potremmo definire Donatello il padre dello spazio moltiplicato?
FRANCESCO CAGLIOTI: Ho qualche esitazione a maneggiare simili espressioni assiomatiche, ma direi di sì, uno spazio moltiplicato ad infinitum. Donatello, al più tardi dalla predella del San Giorgio e il drago del 1415-17 circa, quando ha trent’anni, prova ad applicare, e ci riesce, la prospettiva razionale di Brunelleschi, facendo una pittura “in” e non su marmo. Dieci anni dopo è però infinitamente più avanti di Brunelleschi e di chiunque altro (anche degli artisti nati dopo di lui), avendo capito che la prospettiva brunelleschiana costringe lo spettatore a star fermo e a usare quasi un solo occhio per ottenere una visione che faciliti l’approccio piramidale: un principio che ottiene largo seguito con Paolo Uccello, Piero della Francesca, e in maniera meno fanatica con Beato Angelico e Domenico Veneziano. Donatello, invece, non vuole bloccare l’osservatore a un solo punto di vista fisso, e inventa uno spazio moltiplicato che permette al pubblico visioni plurime. Chi guarda i dipinti degli artisti appena citati rimane al di fuori di essi, a differenza di chi si trova dinanzi a un rilievo di Donatello, e viene fagocitato al suo interno. Qui siamo quasi al cinema: al cinema realizzato con le fusioni in bronzo del Quattrocento.
MB: Si parla tanto di Caravaggio come del primo direttore della fotografia. Rispetto al rapporto con la luce, è azzardato dire la stessa cosa di Donatello (penso alla Maddalena penitente, non in mostra e custodita presso l’Opera del Duomo, il cui movimento ondulatorio nel pioppo crea una serie di effetti luminosi)?
FC: è audace, in effetti, fare la storia con questi paragoni tra secoli tanto distanti, però direi che, se l’espressione si usa per Caravaggio, la possiamo applicare anche a Donatello.
MB: La differenza che c’è tra la fotografia statica e quella cinematografica è la messa a fuoco: la prima è fissata in un solo punto; la seconda si realizza in una serie, resa grazie alla funzione del focus-puller, ovvero il fuochista, il che rende la fotografia cinematografica più creativa di quella statica. Le variabili che concorrono a determinare il punto di vista sono tre: altezza, angolazione e inclinazione. Ora, grazie al fatto di vedere per la prima volta ad altezza d’occhi e non a terra la magnifica formella bronzea del fronte battesimale di Siena che raffigura il Banchetto di Erode, ci rendiamo conto che tutto questo è all’interno di una stessa opera. Viene in mente la medesima raffigurazione su di un lato dell’Altare d’argento del Battistero fiorentino (Antonio di Salvi, 1480 circa) in cui, nonostante i personaggi siano disposti anch’essi su più piani, appaiono ingessati come burattini. Al contrario, quelli rappresentati da Donatello sembrano muoversi dietro una macchina da presa, offrendo allo spettatore un punto di vista che varia da sopra a sotto e da destra a sinistra, consentendo di scoprire dell’altro.

FC: Donatello si è divertito in varie occasioni a scorciare molto il rilievo per offrire effetti speciali all’osservatore obbligato a un determinato punto di vista (per esempio nel tabernacolo eucaristico in Vaticano, o nella lastra funeraria del vescovo Giovanni Pecci nel Duomo di Siena). Ma tutte le volte che prima della mostra avevo analizzato la storia del Battistero senese da terra, avevo verificato che non c’erano deformazioni particolari che assecondassero un preciso sguardo dall’alto. Quest’opera funziona da ogni punto di vista perché Donatello ha scelto che nella posizione bassa, così speciale, cui il Banchetto era destinato doveva e poteva lasciare allo spettatore una facoltà più ampia e mobile di approccio, capace di garantirgli sempre e comunque uno sfondamento infinito all’interno.

MB: La mostra consente l’opportunità di fare la spola, andando su e giù tra un’opera come il Convito di Erode del 1423-27, quella del Miracolo della mula, un bronzo del 1446-50 della Basilica del Santo a Padova e quella, che chiude la mostra, del Calvario del Bargello del 1455-60 circa, in bronzo, oro, argento e rame, in cui cielo e nubi gonfie d’acqua s’intervallano nei diversi materiali, restituiti con tale morbidezza, quasi fossero cera. Mi chiedo quanto Donatello abbia riflettuto sulla luce, assorbita o riflessa, dall’utilizzo di questi materiali.

FC: Sono sempre un po’ recalcitrante rispetto a questo tema: chi l’afferra la luce, chi l’addomestica? Chi la incatena, chi la comanda? Parlare di “catturare la luce” prima della nascita della fotografia mi turba un po’.
MB: La scelta dei personaggi di Donatello cade su attori giovani, adolescenti, a cui viene affidato, in ambito sacro, perfino il ruolo di profeti. Spesso si tratta di bimbi; basti pensare all’Amorino-Attis. Osservandolo da dietro temiamo perda l’equilibrio, e la sensazione aumenta quando puntiamo lo sguardo sui piedini che faticano a liberarsi da una presenza animalesca, un serpente, che vi si attorciglia. Oppure al David vittorioso bronzeo realizzato per i Medici, che poggia la sua fierezza sia sulla testa di Golia che sulla corona d’alloro; o al David marmoreo con ai piedi la testa del gigante. Secondo lei, tale scelta equivale a rappresentare i destinati a portare il peso del mondo sin dalla giovine età?
FC: Risponderei di sì, ovviamente per i soli protagonisti della storia sacra. In ambito profano, l’Amorino-Attis, che non è un semplice bambino essendo dotato di ali, per Donatello è un vettore irresistibile di movimento, così come tutti gli spiritelli, sua grande passione. Donatello ha lavorato un’intera vita per dare moto alla scultura, arte di cui avvertiva l’essenza ben più primitiva rispetto alla pittura, e per forzarne i limiti. Gli spiritelli donatelliani sono quasi sempre elementi cruciali al servizio di un’opera monumentale (il Fonte battesimale di Siena, la Cantoria del Duomo di Firenze, il Pergamo di Prato, il Gattamelata, la Giuditta, i due pergami di San Lorenzo, e così via), e vi s’insinuano dappertutto. La loro prima attestazione è nel nodo del pastorale del San Ludovico di Tolosa, nei primi anni ’20. Essi fanno da ponte tra l’opera d’arte e il pubblico, tengono sempre desta l’attenzione dello spettatore, ma soprattutto rompono gli argini tra finzione e spazio reale, permettendo all’arte di invadere l’ambiente vitale di chi la guarda. L’Amorino-Attis, anche lui con l’argento vivo addosso, è l’unico caso a noi noto di uno spiritello solitario di mano di Donatello, una sorta di arci-spiritello che l’artista carica per l’occasione di tutti i più bizzarri attributi iconografici ammirati nell’arte del paganesimo antico, rubandoli a Cupido, a Mercurio, ad Attis, a un fauno, a Ercole.
Spiritelli a parte, nelle sue figure Donatello persegue per tutta la vita la libertà più assoluta, alla ricerca di soluzioni che rinnovino continuamente l’iconografia tradizionale. Ne è esempio tra i più memorabili il San Giovanni di casa Martelli, nel quale l’autore s’inventa un’età inedita per il protagonista. Il santo era stato rappresentato fin lì solitamente come adulto, in veste di predicatore e “Battista” in senso stretto, o come bambino, pronto quasi a farsi compagno di giochi del Redentore cuginetto. Qui Donatello escogita una terza via iconografica al Precursore, l’adolescenza, una soluzione che anticipa ancora una volta Caravaggio e che nel frattempo viene profondamente meditata da Michelangelo Buonarroti, il quale ha sempre guardato a Donatello come al suo principale interlocutore tematico. Dovendo fare un San Giovanni per i Medici del ramo secondario (quelli diventati poi duchi e granduchi), Michelangelo gli assegna una quarta età, quella di un bambino di otto-nove anni, mai esplorata sino allora (e si tratta del marmo a Úbeda, in Andalusia, quasi interamente distrutto nel 1936). La bizzarra scelta michelangiolesca di creare una Madonna coetanea del figlio nella Pietà scolpita in gioventù per la basilica di San Pietro in Vaticano è dettata anch’essa dal desiderio di muoversi nel solco dell’originalità di Donatello, il quale, per parte sua, raffigura tuttavia sempre la Vergine della Passione come molto vecchia e segnata dal dolore.
MB: Nella prima edizione delle Vite (1550) Vasari scrive che «piacque al cielo in questo secolo pieno di bontà [il Quattrocento] mandar Donato a operare in terra, acciò trovando gli artefici buoni, trovasse ancora gli uomini volenterosi di farlo operare». Ho sempre riflettuto su quanto il fare squadra (l’opposto di quanto invece fece Michelangelo) abbia creato le condizioni ideali per consentire di svolgere il lavoro al meglio e in armonia.
FC: Certamente. Tutto ciò suona un po’ raffaellesco: e il modello di Donatello dovette infatti servire a Raffaello. Donatello con Brunelleschi, con Jacopo della Quercia, con Nanni di Banco, con cui si è trovato molte volte a competere. Seppur rivali, erano molto amici; ci sono documenti, per esempio, che attestano che Nanni di Banco faceva volentieri da fideiussore al collega nei contratti per le sue opere.
MB: Poi, però, le fonti letterarie antiche riportano l’interruzione della lunga amicizia con Brunelleschi: gelosia per la plasticità delle formelle sporgenti dalle porte della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, che s’intromette prepotentemente nel tempio brunelleschiano?
FC: Antonio Manetti, biografo di Brunelleschi, nel secondo Quattrocento racconta la vicenda dei sonetti canzonatori composti da Brunelleschi su Donatello a proposito delle porte della Sagrestia Vecchia.Ma non fu gelosia. E la lite per le porte non fu per i bronzi dei battenti, ma per le incorniciature lapidee, i cui disegni Cosimo il Vecchio, non si sa per quale motivo, commissionò a Donatello, dopo che la sua famiglia aveva fatto fare a Filippo tutto quell’edificio. È più che comprensibile il risentimento di Brunelleschi, che non solo si vedeva sottrarre una commissione così importante, ma ancor di più sentiva il suo spazio invaso e messo a repentaglio dal plasticismo donatelliano (che noi tanto apprezziamo anche in questo luogo). Manetti scrive una cosa molto significativa: Donatello mise le porte «sotto l’autorità della scultura» e non dell’architettura; e ripete più volte che Donatello non era un architetto.

MB: Altro aspetto è la forte introspezione psicologica dei personaggi donatelliani, che suscitano l’empatia del fruitore: pensiamo alla tragica Madonna Pazzi o ancora alla Madonna Dudley, la cui divaricazione delle gambe su piani e livelli diversi consente il comodo posizionamento del bimbo. Oppure l’Imago Pietatis al Victoria and Albert Museum di Londra, la cui disperazione dei putti è tale da coinvolgerci in un profondo pathos; oppure, sempre dallo stesso museo, la Madonna col Bambino sul seggiolino interracotta, il cui movimento ondulatorio a S è tanto veritiero. Lo stesso bellissimo San Giorgio guarda il mondo in modo assai profondo.

Vasari afferma che Michelangelo volendo contraffare la mano di Donatello, ancora stella polare dell’arte (e chiaramente allude alla Madonna Dudley), partorì la Madonna della scala: Madonna di profilo che non ci degna, seduta sul cubo con i piedi inguainati nella calza leggerissima e la scala che cita il bassorilievo donatelliano del Convito di Erode a Lille. Dunque il modello donatelliano viaggia tanto, sino ad arrivare ad Artemisia Gentileschi?
FC: Sì, per ben due secoli ininterrotti, fino a Nicolas Poussin, lo hanno indagato, esplorato e interrogato in tantissimi. In scultura nessuno è arrivato a eguagliarlo, tranne in qualche modo Michelangelo. La scultura è un’arte mille volte più complicata della pittura. Come spero quest’esposizione dimostri, Donatello era più facile da trasporre in pittura, ma non perché fosse uno scultore dal tratto “pittorico”, come spesso si dice. Il primo a tradurre la sua introspezione psicologica in un’arte nuova è stato Masaccio, così come le sue trovate teatrali hanno trovato il primo vero seguito grazie a Mantegna. A Firenze bisogna aspettare Verrocchio e Leonardo per rimettersi sullo stesso piano di Donatello. Leonardo, di cui abbiamo, se ho ragione, un’unica opera plastica sopravvissuta, la Madonna col Bambino che ride del Victoria and Albert Museum a Londra, ci ha donato un’opera donatelliana e anti-donatelliana al tempo stesso, per il fatto di aver ripreso il rapporto intenso madre-figlio della Madonna Pazzi, ma con un bimbo gioioso come uno spiritello donatelliano che trascina la mamma di conseguenza: Leonardo, come poi Raffaello, s’ispira a Donatello rinnovandolo. Leonardo non esprime mai la preveggenza della Vergine: le sue sono portatrici gioiose di maternità, a differenza di Donatello, che in questo senso sta a metà tra lui e Michelangelo, maestro di Madonne sempre tristi.
MB: L’arte è costruzione pensata e quindi artificio, cosa che Donatello dimostrò mirabilmente non ancora quarantenne con la realizzazione del San Ludovico di Tolosa per Orsanmichele, riuscendo a trasformare genialmente difetti in virtù.
FC: Esatto, questa è la prima figura monumentale in bronzo di Donatello: un mirabile ammasso di pezzi assemblati attorno a un sostegno nascosto. Proprio mentre Lorenzo Ghiberti lavorava anche lui ad altre statue bronzee per Orsanmichele, ma fuse tutte d’un pezzo, e compiute anche dietro. A volte cerco di immaginare gli umori di questi artisti all’opera. Di Ghiberti, il quale negli anni Venti vide Donatello imporsi velocemente nell’arte del bronzo, penso che dovette patire molto, rendendosi conto che, pur non avendo la sua stessa capacità tecnica, il suo ex-allievo era in grado di realizzare cose di grandissimo effetto e successo.
MB: Quindi il rapporto tra Ghiberti e Donatello s’interruppe a causa della rivalità sorta quando Donatello si cimentò nell’arte del bronzo?
FC: Non ci sono pervenuti documenti su questo punto, tranne una lettera di Ghiberti che nel 1425 attesta l’amarezza causatagli da qualcuno che l’aveva tradito. Tutto lascia supporre che si riferisse a Michelozzo, uno dei suoi aiutanti migliori, il quale aveva abbandonato la bottega ghibertiana per unirsi a quella di Donatello. Le fonti letterarie e archivistiche ci dicono che, a differenza di Ghiberti, di Michelozzo, di Verrocchio e più tardi di Cellini e di Giambologna, Donatello ha sempre fuso avvalendosi grandemente dell’opera altrui.
MB: Eppure Donatello si è dedicato tanto al bronzo, soprattutto nella seconda parte della sua vita. E viene da riflettere su quanto il genio, la strategia, occultino la tecnica.
FC: Non solo. Pensi alle porte della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, tra i momenti più significativi della mostra: sembrano appartenere alla bronzistica dell’Otto-Novecento. Sono grezze, imperfette, e i loro difetti diventano potenza d’espressione. Non oso immaginare quanto possano essere state criticate da Ghiberti, che negli stessi anni lavorava al capolavoro metallurgico dell’epoca, la Porta del Paradiso.
Nonostante sia stato grandissimo in tutto, Donatello era vocato in primo luogo al marmo, e lo ha mostrato in infinite occasioni: dalle statue di Orsanmichele a quelle del Campanile di Giotto, dalla predella del San Giorgio al Convito di Lille (che non abbiamo in mostra perché dal museo proprietario non lo prestano più), fino alla Madonna Dudley. Nel bronzo non era un virtuoso come nel marmo. Si potrebbe dire che sta al bronzo come la Callas al canto sopranile: un’abilità consumatissima e un senso performativo superiore nascondono e nello stesso tempo quasi sfruttano certe imperfezioni tecniche, facendo di necessità virtù.
MB: Anticipatore ingegnoso di tempi e di correnti artistiche recenti, Donatello adatta il solo utilizzo della forma alla sostanza: mi vengono in mente, presenti qui in mostra, i due ben nutriti Spiritelli del Museo Jacquemart-André di Parigi, che svolgono la funzione di reggi-candele. Ma più di tutto penso alla valva di conchiglia, elemento a lui caro attinto dal repertorio classico, che sovrasta come una grande aureola la giovanissima Madonna col Bambino e due angeli in terracotta del 1417 circa a Prato. O l’utilizzo che ne fa per il fregio della Cantoria (conservata nel Museo dell’Opera del Duomo e non in mostra). È corretto dire che tale elemento, così presente nelle opere di Donatello, venga ripreso in seguito da Luca della Robbia e, addirittura, dal genio di Filippo Brunelleschi per le tribune alla base della meravigliosa cupola di Santa Maria del Fiore da lui stesso realizzata?
FC: Già nel nodo del pastorale del San Ludovico c’è una prima idea per la lanterna della cupola. Però qui sarei molto cauto, dal momento che si sono persi tutti i disegni di Brunelleschi così come di Donatello (centinaia, anzi migliaia). Non dimentichiamo mai che guardiamo ormai quest’epoca della storia dell’arte attraverso una sorta di buco della serratura.
MB: Pensando al lavoro di uno scultore, così bisognoso di forza fisica, Donatello è comunque arrivato in tarda età a compiere opere che non mostrano alcun cedimento in tal senso.
FC: Dopo il Battista Martelli, scolpito non molto prima della partenza per Padova (1443), Donatello ebbe la saggezza di osare poco nel marmo. Con un’intelligente organizzazione del proprio tempo, e dosando bene le proprie forze, egli proseguì soprattutto nel bronzo, cioè con l’aiuto di tante persone: una grande differenza rispetto a Michelangelo, che, da solitario, sino verso la fine affaticò il proprio corpo nel marmo, accumulando molte frustrazioni con opere come la Pietà Bandini o la Pietà Rondanini.
MB: Non ricordavo che il Victoria & Albert Museum avesse tanti magnifici pezzi, come l’Imago Pietatis.
FC: Questo è un pezzo arrivato nel suo museo circa 160 anni fa, e sempre attribuito a Donatello, ma da alcuni anni l’attuale conservatrice della scultura italiana lo presenta come ignoto del Cinquecento.
MB: E resterà tale l’attribuzione al V&A?
FC: Immagino di sì. Poi, magari, recupererà l’attribuzione tradizionale, e inesorabile, con le nuove generazioni di conservatori.

MB: Al principio della mostra c’è scritto «l’osservatore è coinvolto e sedotto da un gioco ambiguo e perciò più efficace». Questo mi fa pensare al modello in terracotta della Flagellazione e Calvario (il cosiddetto “Altare Forzori”, del 1450 circa), dove la pupilla dell’osservatore si sposta di continuo, stimolata dalle tante presenze all’interno delle due scene e della loro architettura, dominata da spiritelli reggifestoni. Lo guardiamo assieme?
FC: Certo. Questo rilievo è geniale perché è una riflessione di Donatello sulla finzione nella finzione. La Flagellazione si svolge all’interno di un edificio di respiro imperiale che lo spettatore non può non interpretare come il palazzo di Pilato; dopo di che esso si accorge che anche il Calvario ha luogo nello stesso edificio, il che non avrebbe senso in senso strettamente storico e narrativo. A quel punto deve chiedersi se non stia piuttosto assistendo a una messinscena teatrale, con attori che recitano la propria parte, e se gli spiritelli che popolano animatamente gli arconi sono attori anch’essi o parte dell’ornato architettonico. E il punto essenziale è che l’alternativa deve rimanere senza una risposta.
MB: Per la collocazione delle opere, le altezze, il colore alle pareti, ha lavorato in gruppo?
FC: Per la distribuzione e la collocazione delle opere, così come per l’impaginato e le riproduzioni del catalogo, ho avuto carta bianca dagli enti promotori, mentre la scelta del colore è stata frutto di un dialogo, sempre fruttuoso, con l’architetto Gigi Cupellini.
MB: Le opere prestate dai musei stranieri furono vendute a metà Ottocento da un mercante fiorentino?
FC: Più mercanti, ovviamente, e non solo fiorentini. Quasi tutto il nostro Rinascimento di committenza privata è finito all’estero. Quando gli italiani si sono resi conto che gli inglesi, i francesi, i tedeschi o i russi erano interessati ai loro oggetti antichi, se li sono venduti senza esitare.
MB: Guadagnandoci anche poco?
FC: Magari. Ancora adesso, quando scoprono di possedere un’opera di valore, gli italiani pensano in primo luogo a una vendita all’estero, anche ricorrendo alla clandestinità. Sono fatti così.
Donatello, il Rinascimento
a cura di Francesco Caglioti
Firenze, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello
Fino al 31 luglio 2022
In copertina: Donatello, David vittorioso, 1408-1409; 1416, Firenze, Museo Nazionale del Bargello (particolare)