Donatello, il Rinascimento, la mostra a cura di Francesco Caglioti a Palazzo Strozzi e al Museo Nazionale del Bargello, esprime, già nel titolo, la centralità assoluta assegnata allo scultore quale genio indiscusso dell’arte del Quattrocento in un progetto definito dallo stesso curatore «molto ambizioso, per dimensioni e scopi», che riunisce circa centotrenta tra sculture, dipinti e disegni con prestiti unici, provenienti da oltre sessanta sedi italiane e straniere, e con numerosi restauri compiuti per questa occasione. Dopo Firenze, Donatello, il Rinascimento si sposterà nei due musei in collaborazione coi quali la mostra è stata concepita, gli Staatliche Museen di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra, con qualche variazione: alcuni pezzi saranno infatti esposti solo in Italia mentre invece, ad esempio, il rilievo dell’Ascensione e consegna delle chiavi, un unicum iconografico, troppo delicato per viaggiare, sarà solo nella sua sede londinese.
A Donatello, artista per eccellenza ‘monumentale’, sono state dedicate di conseguenza poche iniziative di grande rilievo. Per esempio le celebrazioni nel 1887 per il quinto centenario dalla nascita, al Bargello, divenuto Museo Nazionale nel 1865: «come attesta il catalogo», spiega Caglioti, «quelle celebrazioni riunivano ben poche sculture dell’artista, insieme a molte copie e oggetti di vari generi e tecniche, per ‘ricreare un’epoca’. Per il sesto centenario furono organizzate, nel 1986, due mostre: una al Bargello, promossa da Paola Barocchi, il cui catalogo, concentrato sulle opere del museo, contiene importanti riflessioni sulla fortuna storica dell’artista, e l’altra a Forte Belvedere, Donatello e i suoi a cura di Alan Phipps Darr e Giorgio Bonsanti, che presentava opere del maestro ma soprattutto di vari scultori contemporanei. La mostra attuale permette di considerare in maniera più larga e approfondita Donatello grazie a prestiti importanti di opere mai concesse per mostre precedenti»[1].
Per una pura coincidenza, Donatello e il Rinascimento si tiene nello stesso periodo in cui sono editi in Francia, a cura e con postfazione di Andrea Cortellessa, gli scritti d’arte di Giorgio Manganelli[2], tra i quali è una recensione proprio a quelle mostre del 1986 uscita sul «Messaggero» del 23 settembre, Rissa di luce, un testo caduto pressoché nell’oblìo e che da poco è stato riproposto in traduzione francese, prima ancora che in italiano. La fortuita coincidenza sarà dunque occasione per farsi accompagnare, in maniera rapsodica, dalle parole di Manganelli in questo percorso fiorentino del 2022, ben più ricco di quello che lo scrittore visitò del 1986, ma con alcune opere in comune e che, allestito da Luigi Cupellini, si svolge in quattordici sezioni diacroniche, di cui undici sono a Palazzo Strozzi, con il contrappunto di opere di altri artisti del tempo, e altre tre al Museo del Bargello.

Ad accoglierci a Palazzo Strozzi, oltre al David vittorioso, scolpito da Donatello ventenne per la tribuna absidiale del Duomo, sono i due Crocifissi lignei di Donatello (Santa Croce) e di Brunelleschi (Santa Maria Novella). Due opere che subito ci rimandano all’aneddoto delle Vite in cui Vasari riferisce la critica fatta da Brunelleschi al suo «amicissimo», il quale sembrava «avesse messo in croce un contadino». A Filippo, Donatello replicava: «a te è conceduto fare i Cristi, a me i contadini». Dei due Crocifissi, Manganelli individua le differenze nella risoluzione di «un problema di rapporto lucidissimo» che quel soggetto pone a priori: «inscrivere un corpo, dunque una figura opinabile e imprecisa, sopra l’invenzione geometrica della croce». La croce «non è opinabile e non tollera varianti» essendo non una cosa ma un «segno mentale, una consacrazione intellettuale dello spazio». A questa geometria si sovrappone la «tragedia di un corpo; non solo la tragedia di un corpo martoriato, ma la pura e semplice tragedia di un corpo che viene a contatto con un segno geometrico». Così «affidato alla mani inconsapevoli e tragiche dell’artista, il conflitto si disvela nella sua violenza insondabile, immedicabile; ed il conflitto è anche il privilegiato momento della creazione». Manganelli apprezza l’«astuzia drammatica» di Brunelleschi che cerca di trattare con la «ferocia dei triangoli», ma predilige «la violenza implacata del Crocifisso di Donatello» perché «nessuna trattativa è possibile con la violenza di quegli angoli»[3].
Tuttavia, al di là della soluzione cercata al problema dell’inscrivere un corpo in una croce, magistralmente analizzato da Manganelli, il legame tra Donatello e Brunelleschi fu strettissimo e Laura Cavazzini, introducendo nel catalogo[4] la sezione sul rapporto tra «spazio dipinto e spazio scolpito» (la quarta), sottolinea quanto i congegni ottici brunelleschiani – perduti ma descritti da Antonio Manetti – siano all’origine di quel rilievo basso e stiacciato che diviene una peculiarità dello stile donatelliano. Così la complessa regia degli spazi, di matrice brunelleschiana, finisce per influenzare tramite Donatello la pittura luminosa e di tono contemplativo di Beato Angelico (in mostra con l’Imposizione del nome di Battista dal Museo San Marco), ma anche quella di Filippo Lippi (la Madonna col Bambino, sei angeli, dieci santi e il donatore dalla Fondazione Cini di Venezia), artista molto attento ai rapporti che legavano Donatello a Masaccio, la cui presenza è anch’essa ricorrente in mostra, e di Domenico Veneziano. Lo stiacciato, che compare per la prima volta nel rilievo della predella del San Giorgio (al Bargello), è ben presente nelle opere dagli anni Venti, sia nell’iconografia della Madonna col Bambino – tra cui sono capolavori come la Madonna Pazzi (dagli Staatliche Museen di Berlino) con l’intimo dialogo tra madre e figlio inquadrati in una scatola prospettica –, sia nel Convito di Erode (1427 circa), uno dei tre elementi in bronzo del Fonte Battesimale di Siena esposti a Firenze (in totale sono sedici)[5]. Qui la narrazione si dispiega su quattro piani diversi, dove nel primo le figure sono quasi a tutto tondo mentre nel fondo, pur splendidamente definite, sono a rilievo finissimo, stiacciato, dando vita, pur nelle dimensioni ridotte, a un ritmo ardito e tumultuoso.

La «preziosa e virtuosa invenzione» dello stiacciato permette a Donatello di assistere «alla fuoriuscita delle figure dalla pagina», nota Manganelli, creando la similitudine tra quanto avviene sulla superficie (marmorea o bronzea) e il foglio su cui appaiono «fantasmi di figure». Perché Donatello, a differenza di Ghiberti, non dà l’impressione di costruire le sue immagini ma di catturarle, di cogliere «il loro subitaneo e tacito accadere, come figure magiche, magari sembianti che hanno fatto sosta accanto a lui, gli sono apparsi in un lucido dormiveglia sempre ritenendo alcunché di ectoplasmatico». Anche nelle opere in marmo, come le Madonne prima citate o nel rilievo di San Giorgio che salva la principessa dal drago, lo stiacciato reca «una grazia aurorale e insieme segreta, notturna», nel «lievitare di forme esigue, nel loro squisito ostinato nascere, il proporsi come lievi addensamenti di luce, o una nuvolosa effusione di marmo, della pagina»[6]. Donatello dà la sensazione di consegnarsi «alla grazia ineluttabile delle forme, al loro urgere lieve, ventoso». La dialettica con la luce, o meglio la «rissa di luce» – come la definisce Manganelli – vede nascere sulla superficie «ombre luminose e abbaglianti», e interessa tanti scultori intorno a Donatello, ciascuno pronto a rispondere in modo originale, con «soavità petulca» (Desiderio da Settignano), in un «diafano sussurro» (Mino da Fiesole) o in «un corrucciato pallore» (Benedetto da Maiano).

Il ruolo svolto da Donatello nella genesi della statuaria moderna, concepita indipendente da ogni struttura architettonica per un senso più naturalistico della forma, si cala in un dibattito molto vivo a Firenze tra scelte linguistiche, il cui primo e più eclatante confronto era avvenuto nel 1401, in occasione del Concorso per la Porta del Battistero, dove la formella di Lorenzo Ghiberti e quella di Brunelleschi avevano svelato, non solo e non tanto un attardarsi di Ghiberti su stilemi gotici, quanto soprattutto due modi profondamente diversi di guardare alla cultura classica[7]. Pur nel riferimento all’antico, Donatello introduce una sempre maggior connotazione individuale dei volti, «pressoché persone vive e non statue», osserva Vasari, come d’altronde si nota nello straordinario Reliquiario di San Rossore (Pisa, Museo di San Matteo, in mostra alla sala 3), con l’espressione sensibilissima del martire guerriero, il capo recline e la fronte un po’ aggrottata.

Catalizza poi l’attenzione, in quella sala, il colossale San Ludovico di Tolosa col suo «maremoto di pieghe», per citare Aldo Galli nella scheda del catalogo. La scultura è frutto dell’assemblaggio di parti bronzee fuse separatamente, con ammaccature, spezzature, improvvisi affondi nell’ombra, fino ad offrire l’illusione del tutto tondo, pur essendo una sorta di guscio montato su una struttura e vuoto dietro. Ed è proprio nella decorazione del pastorale del San Ludovico che compaiono, in piccole nicchie a conchiglie, fanciulli nudi alati che conversano: un motivo antico molto ricorrente nella produzione donatelliana cui infatti Caglioti dedica un’intera sezione della mostra, la quinta, incentrata sul «Ritorno degli spiritelli», motivo che si trova nei sarcofagi antichi e che compare già nel Sepolcro di Ilaria Del Carretto di Jacopo della Quercia, a Lucca, e poi nella Fonte per il Battistero di San Giovanni a Siena, di Donatello.
Spiritelli danzanti (come quelli sfrenati nella Cantoria del Duomo di Firenze al Museo dell’Opera del Duomo), spiritelli con pesce, con tamburello, spiritelli portacero che ornavano la Cantoria di Luca Della Robbia per il Duomo (e non quella di Donatello stesso, come testimoniano dinamiche relative alla loro esecuzione, chiarite da Caglioti nel 2001, e riferite da Cavazzini nel catalogo a p. 200). Al centro della sala è l’Amore Atys (1435-40 circa): il bronzo che appare a Vasari, nella casa di Agnolo Doni, come un «Mercurio vestito in un certo modo bizzarro». Neville Rowley, nel catalogo, sottolinea l’assenza (confermata dal recente restauro) di oggetti tra le mani del putto, e sostiene quindi impossibile «attribuire un significato preciso e definitivo a questa moltitudine di prestiti iconografici». La «moltiplicazione degli indizi» che la statua presenta – il bambino alato vestito con una lunga cintura decorata con bacche di papaveri e pantaloni che lasciano i genitali ampiamente scoperti, nell’atto di calpestare un piccolo serpente, mentre, sorridendo, alza le mani in un gesto misterioso – esprimerebbe quindi la consapevole volontà di Donatello «di creare confusione». Una dichiarazione che sgombra il campo da tante supposizioni fatte nel tempo sull’opera, sebbene lasci un po’ insoddisfatti il tono sottilmente ironico del pannello esplicativo nella sala della mostra, sugli storici dell’arte che si sono «arrovellati» nel cercare soluzioni interpretative, svelando forse un’avversione preconcetta verso studi di iconologia ormai storicizzati dedicati alla complessa simbologia dell’arte rinascimentale.

del Bargello. Su concessione del Ministero della Cultura; ph. Bruno Bruchi
Il percorso si focalizza poi sugli anni centrali dell’attività donatelliana, tra Firenze, Prato (dove ritroviamo gli spiritelli nel Pergamo del Sacro Cingolo) e Padova, con la bellissima pausa di fronte alle porte per la Sagrestia di San Lorenzo (Porta degli Apostoli e Porta dei Martiri), la cui disinvoltura compositiva turbò anche ammiratori di Donatello, quali Antonio del Filarete e Brunelleschi stesso, che ne trovò «arrogante» l’inquadratura, o Baccio Bandinelli che li paragonò, giudicandoli brutti, a «schermidori» (sulla bruttezza non aveva certo ragione, ma sulla scherma sì!). Non sono tuttora chiare le ragioni del soggiorno padovano, e neppure la data esatta del trasferimento, circa 1444, ma l’importanza è «incalcolabile» (Rowley) per il destino dell’arte Settentrionale. Sono infatti proposti numerosi confronti con opere di altri artisti, pittori e scultori, da Giorgio Schiavone a Liberale da Verona, da Andrea Mantegna a Giovanni da Pisa, da Marco Zoppo a Pietro Lombardo, la cui dipendenza da Donatello, specie nel motivo della Madonna col Bambino, è costantemente variata e ribadita.

Il prestito dei bronzi padovani è davvero una grandissima conquista, se si considera la qualità e il rilievo delle opere provenienti dalla Basilica del Santo, tra cui lo strepitoso Miracolo della mula, uno dei quattro miracoli scelti da Donatello per illustrare l’altare maggiore della basilica (montato tra il 1446 e il 1450 e smontato nel 1579), che Vasari annota per «i belli e variati componimenti e tanta copia di stravaganti figure e prospettive diminuiti». Qui lo stiacciato tocca alti vertici di virtuosismo e la folla che assiste al miracolo – la mula che si genuflette di fronte all’ostia consacrata – si muove in una grandiosa ma anche inquietante architettura: «un po’ Basilica di Massenzio, un po’ sogno albertiano», nota Aldo Galli, maestosa e claustrofobica al tempo stesso. Dei rilievi dell’altare di Padova, Manganelli annota la «qualità ariosa ed acre, forse tempestosa» e, sebbene da molti Donatello sia descritto come gran narratore, quel che più incanta lo scrittore è «lo splendore imprevedibile di quel che avviene».
Nella sala padovana è anche il Crocifisso dell’altare maggiore della Basilica del Santo, con la figura molto consunta di Cristo, le ossa del costato in terribile evidenza, il volto emaciato e l’invenzione straordinaria del perizoma mosso dalla folata di vento che preannuncia la tempesta sul Monte Calvario: un particolare da alcuni creduto di epoca barocca e che invece, anche per ragioni meramente tecniche chiarite da Caglioti, appartiene all’esecuzione donatelliana, tra il 1443 e il 1449. Il tema della Crocifissione torna poi in alcuni rilievi come quello del Louvre della collezione Camondo (che influenza la pittura di Marco Zoppo), ma il motivo iconografico che avrebbe segnato la scultura e la pittura coeva è soprattutto quello dell’Imago Pietatis, posta al centro del paliotto dell’altare maggiore, con gli angeli disperati che sorreggono il Cristo morto, e che trova nella Pietà di Giovanni Bellini (in prestito dal Museo Correr di Venezia) una delle più belle interpretazioni del modello donatelliano. All’influenza di Donatello si deve inoltre il monumentale complesso di cinque sculture in bronzo di Niccolò Baroncelli e Domenico di Paris, Crocifisso, Madonna e San Giovanni dolenti, San Maurelio e San Giorgio, provenienti dalla Cattedrale di San Giorgio a Ferrara, preziosi elementi per il confronto con le opere donatelliane riguardo la tecnica di esecuzione.

Si giunge così agli anni della maturità di Donatello, tra cui è il Compianto di Cristo morto (dal Victoria and Albert di Londra), opera posta in relazione con l’ambiente senese, a giudicare dai riflessi che lascia in artisti quali Francesco di Giorgio Martini, Lorenzo Vecchietta o Neroccio di Bartolomeo Landi. Caglioti mette invece in dubbio la committenza senese per il San Giovanni Battista della Cattedrale di quella città, bronzo anch’esso fuso per tranches dopo il 1455, ma iniziato a Firenze per esser forse destinato, suggerisce il curatore, a uno dei portali del Battistero fiorentino. Nel Battista troviamo quei caratteri di asprezza, con la resa dell’epidermide arsa, i profili incisi e lo sguardo febbrile, già presenti nelle opere giovanili quali il già citato Crocifisso contadino, ma anche nel Profeta Abacuc, detto lo Zuccone, per il campanile di Giotto (scolpito negli anni Trenta), e soprattutto nella tarda Maddalena penitente, in legno, purtroppo non in mostra ma esposta, come lo Zuccone, nel vicino Museo dell’Opera del Duomo. «Grande modellatore di immagini umane», Donatello, agli occhi di Manganelli, compie in questa stagione della maturità un’operazione contraria: «Individua una forma distruggendo il personaggio. La Maddalena come il Battista vengono decomposti in membra discontinue, in vesti imprecise, e la selvatica capigliatura, lunghissima e precipitosa, contrassegna l’abolizione della figura, la sua esplosione». Per Manganelli, Donatello coglie il personaggio nel momento della sua «catastrofe» e le figure celebrano una «tragedia centrifuga».

Tra i grandi bronzi della vecchiaia troneggia la Protome di cavallo del Museo Archeologico di Napoli. Nonostante le imponenti dimensioni, la scultura doveva essere un frammento del monumento equestre che Alfonso il Magnanimo, re di Napoli, voleva far erigere nel nicchione superiore dell’arco trionfale di Castel Nuovo. Abbandonata da Donatello nello studio fiorentino dopo la morte di Alfonso nel 1458, la grande testa equina, con la rete di vene in evidenza sul muso, il ciuffo di peli e le pieghe nel collo, è posta a confronto con una Protome di cavallo della collezione Medici Riccardi, che già doveva aver ispirato Donatello per il suo Monumento al Gattamelata a Padova e per quello ad Alfonso d’Aragona, a siglare ancora una volta quanto la conoscenza e l’interesse per la classicità non fosse mai disgiunta da una originale capacità interpretativa, di grande maestria e spregiudicatezza.

Alcune opere del Museo Nazionale del Bargello sono temporaneamente migrate a Palazzo Strozzi, ma altre sono rimaste nel Salone centrale del museo al primo piano dove le ritroviamo raggruppate, perché prive delle loro compagne, esiliate per il tempo della mostra. Oltre al già ricordato San Giorgio per una delle nicchie di Orsanmichele, è il David vittorioso (1435-40 circa) per il quale Caglioti insiste sull’importanza della visione di sottinsù prevista dall’artista, sottolineando un torto spesso fatto a Donatello: non riconoscere quanto sia stato «un grande maestro della prospettiva non solo nelle storie di rilievo (cosa che sappiamo tutti), ma anche e soprattutto nelle statue». Le sue sculture, insiste Caglioti, «vanno tutte considerate in rapporto allo sguardo originario dell’osservatore, e il non tenerne conto può portare a gravi equivoci. Il David bronzeo al Bargello, ad esempio, non è un giovinetto gracile, dallo sguardo timido (addirittura innamorato di Golia che ha appena ucciso, come è stato scritto), perché quella statua era in origine su una colonna e quindi si vedeva dal basso, trionfante, in maniera totalmente diversa rispetto a oggi». Lo stesso si può dire del Marzocco sempre al Bargello, il leone protettore di Firenze, «che poggia con totale negligenza una zampa sullo scudo pubblico, mentre il suo sguardo era proiettato verso l’infinito; la scultura era in origine sopra una colonna ai piedi dello scalone dell’appartamento papale in Santa Maria Novella e non sembrava certo, come invece oggi, quasi un progenitore dei pelouches», commenta Caglioti.

Tornando al David, al di là dell’importante indicazione di lettura offerta da Caglioti, resta il fascino per la straordinaria interpretazione che Donatello compie dell’eroe biblico, unendo ai riferimenti alla statuaria classica, ad esempio nel contrapposto della posa, notazioni originalissime quali l’ala dell’elmo di Golia che sensualmente accarezza la coscia del giovane, come osserva Patricia Rubin in Seen from behind[8]. Il David vittorioso ha ampio seguito sia in pittura (il ciclo degli uomini illustri di Andrea del Castagno) che in scultura e gli sta accanto infatti, nel salone del Bargello, il David vittorioso di Andrea del Verrocchio, di circa trent’anni successivo e datato poco dopo la morte di Cosimo il Vecchio e di Donatello stesso. Pur nella vicinanza al modello donatelliano l’eroe biblico, commissionato a Verrocchio da Piero de’Medici in omaggio al padre, è un ragazzo che indossa un’elegante tunica all’antica, non stringe, nella mano posata sul fianco, alcuna pietra, mentre l’altra mano impugna una piccola spada (quella attuale risale al Settecento, ma l’originale non poteva certo avere le dimensioni della scimitarra donatelliana). Ai suoi piedi, il gigante Golia ha un volto sofferente e assai poco minaccioso, al punto che, ricorda Neville Rowley, quando la testa era stata separata dal David (preso a sua volta per Marte), si credeva che fosse quella di San Giovanni Battista appena decapitato.
Quanto le invenzioni donatelliane offrano poi materia per divagazioni ai secoli successivi lo dimostra la parte conclusiva della mostra, scendendo al piano inferiore del Bargello, in cui Donatello si presenta «allo specchio della maniera moderna», come recita il titolo della sezione. La fortuna di Donatello continua e si amplia infatti a tal punto che sue tracce sono ben leggibili nel Cinquecento, in Alonso Berreguete, Giovan Francesco Rustici, Jacopo Sansovino, Francesco da Sangallo o nei dipinti di Francesco Granacci. Ma l’opera che ebbe un seguito amplissimo, e che solo nel 1992 Caglioti ha ricondotto al corpus di Donatello, essendo stata per molto tempo riferita a Desiderio da Settignano, è la Madonna col bambino detta Madonna del Pugliese-Dudley del 1440 circa. Quel minuscolo marmo di dimensioni tascabili, quindi certamente destinato a devozione privata, gode però di una fortuna straordinaria, ripreso in dipinti, disegni, marmi, bronzi da Leonardo a Michelangelo – in mostra è infatti la celebre Madonna della scala – e a Bronzino. Fino ad arrivare al Seicento con la Madonna col Bambino conservata a Palazzo Pitti, attribuita ad Artemisia Gentileschi e connessa ad altra sicura opera della pittrice e ad altre ancora di suo padre Orazio e della sua bottega (il prototipo, del 1609, si trova a Bucarest).

La mostra non ha novità attributive, presentando opere sulle quali la critica è generalmente concorde. Va semmai ricordato che, nella sezione dedicata alla giovinezza di Donatello, Caglioti sottolinea l’attività di coroplasta intrecciata a quella possibile di Brunelleschi, secondo una proposta già formulata da Luciano Bellosi. A quel nodo sono però state collegate, negli anni, molte – forse troppe – altre opere; per questo Caglioti, con Cavazzini, Galli e Rowley, ha colto l’occasione per «sottoporre questa produzione a una sorta di ‘giro di vite’ per rendere il corpus più coerente», potendo peraltro godere di un prestito come quello della Madonna col bambino del 1414 circa, concesso da Alan Phipps Darr, conservatore del Detroit Institute of Arts (prestito eccezionale se si pensa che Darr non la richiese in occasione della mostra, pur da lui stesso curata a Firenze, nel 1986).
Il ribaltamento culturale compiuto da Donatello è dunque cruciale, non solo per il Quattrocento ma per l’immaginario occidentale nei secoli, nell’unicità d’«intendere l’antico, nel sovvertire il rapporto tra figure e pubblico, nel giocare coi tempi della rappresentazione, prefigurando soluzioni che verranno comprese appieno solo nel Cinquecento o nell’Ottocento, o attuate addirittura nel Novecento (senza però conoscerne ormai i precedenti donatelliani)». Come ribadisce Caglioti, la lezione donatelliana è compresa in modo esteso dai suoi contemporanei e nei secoli successivi, ben più che da certi allievi diretti quali Agostino di Duccio, Bertoldo, Bartolomeo Bellano, «perché non di rado la troppa vicinanza crea ipermetropia». E nel Cinquecento anche Pontormo «guarda all’ Annunciazione Cavalcanti di Donatello quando affresca la lunetta con Vertumno e Pomona nella villa di Poggio a Cajano, come testimoniano alcuni disegni preparatori agli Uffizi».
In un passo conclusivo della Vita di Donatello Vasari riporta quel che Vincenzo Borghini, trovandosi di fronte a due carte di disegni «di mano di Donato e di Michelagnolo Bonarroti», scherzosamente commenta in greco e in latino (e Vasari traduce): «O lo spirito di Donato opera nel Buonarroto, o quello di Buonarroto anticipò di operare in Donato». D’altronde, ricorda Caglioti, «in un brano privato della corrispondenza di Lorenzo il Magnifico, Gentile de’ Becchi, suo precettore, a proposito della Villa di Poggio a Cajano, lo invita a non fare nell’arte come Donatello, ovvero a saper ‘bozzare’ ma anche ‘finire’; a prova che la ‘sprezzatura’ donatelliana tanto amata nel Cinquecento era troppo avanti per il Quattrocento».
Possiamo chiederci allora come mai Donatello sia stato messo così poco in risalto da un grande storico dell’arte quale Roberto Longhi. «L’Officina ferrarese di Longhi, dovrebbe recare il nome di Donatello quasi in ogni frase – nota il curatore della mostra – ma la scultura non consentiva quella pirotecnica traduzione verbale che è propria della scrittura longhiana; la scultura non permette di soffermarsi sulla finzione immediata dello spazio, sul paesaggio, sulla perlustrazione della natura, e così via». Tornando così per un’ultima volta a Manganelli, potremo non stupirci della sensibilità da lui mostrata verso Donatello, laddove Longhi non pare invece esaltarne la grandezza. Infatti, come sottolinea Andrea Cortellessa in più punti della sua postfazione al volume francese, Manganelli non entra mai in conflitto con Longhi, ma la distanza effettiva tra lo storico dell’arte e lo scrittore è notevole e più volte verificabile[9].
Il grande seguito di Donatello – che la mostra suggerisce e documenta per exempla fino sullo scorcio del Seicento – conduce a compiere un salto cronologico nel secolo che molto guardò al Quattrocento: il Diciannovesimo. È noto il revival non solo neogotico ma anche neorinascimentale che diede luogo a interpretazioni così sottili, da parte di maestri e restauratori ottocenteschi, da porre in discussione ancora oggi la provenienza di certe opere: originali del Quindicesimo secolo oppure rimeditazioni o semplicemente falsi destinati alla vendita, per soddisfare la richiesta nei confronti di un secolo alla moda? Senza entrare nella amplissima questione di ciò che Riccardo Nobili definiva in un libro del 1922 «the gentle art of faking» – delineando nella pratica del falsificare una forte capacità di rilettura e comprensione dei secoli antichi – mi soffermo invece su quanto, negli ultimi decenni del XIX secolo, l’arte di Donatello e di artisti a lui vicini, quali ad esempio Michelozzo (anch’egli presente nella mostra fiorentina), segni un vero e proprio spartiacque tra due «ideologie» rispondendo a due concezioni diverse dell’arte, l’una più formalista, l’altra di contenuto politico.
La prima corrisponde infatti all’indirizzo néoflorentin che trionfa ai Salons parigini intorno al 1870 e che legge nell’arte fiorentina, da Desiderio da Settignano fino a Giambologna, l’espressione di un’emozione «perpétuellement humaine» e tutta contemporanea. Avviene così che, proprio in seno alle Accademie di Belle Arti francesi, i modelli rinascimentali italici vadano a sostituire quelli della statuaria classica: riferimenti indiscussi nell’insegnamento della scultura per tutta la prima metà del secolo, nonostante l’avvento del Romanticismo e poi del Realismo. L’altra via, che si afferma a Parigi soprattutto in seno all’École du Louvre ed è sostenuta da figure quali Louis Courajod e Louis de Fourcaud, ha un’impronta tesa a rivendicare un’arte più vicina ai bisogni del popolo, lontana dalle eleganti nevrosi della scultura rinascimentale, ma radicata piuttosto nella tradizione della scultura francese del Trecento[10].
Donatello sfugge però, nella Francia di fine Ottocento, all’etichetta rinascimentale; così se il suo esempio era stato indicato nel 1872 come importante per l’indirizzo néoflorentin appena evocato, apprezzato tra quei «barbari che avevan saputo vedere ben chiaro nell’animo umano» (Paul Mantz), quasi vent’anni dopo, per salvarlo dalle critiche sempre più frequenti nei confronti dell’arte elitaria d’Oltralpe, Marcel Reymond nella Sculpture florentine (1898-1899), ne contrasta il legame con l’influenza «nefasta» del Rinascimento: che si voglia o no, tuona il critico, «la sua opera è la più energica voce che un artista abbia espresso contro le dottrine dell’antichità». Donatello finisce così per essere indicato quale degno erede di una cultura francese, borgognona, in virtù di elementi presenti anche in Jacopo della Quercia, forse penetrati dalla Francia attraverso Siena. Ne sarebbero traccia la «brutalità inattesa» dei Profeti, ma anche le pieghe delle vesti simili a quelle dei Pleurants di Digione. Dei modelli fiorentini, in cui dominava l’esigenza di preservare a ogni costo la bellezza dalle scorie dei fragori dell’esistenza, si apprezzano quindi sul finire del XIX secolo solo gli aspetti che legano quell’arte a una tradizione medievale francese, espressione dei bisogni degli umili; Louis Courajod firmerà in tal senso, nella «Gazette des Beaux-Arts» del 1888, un saggio intitolato Les véritables origines de la Renaissance. Donatello dunque, ma depurato da opere che potrebbero nuocere all’immagine di artista interprete del popolo: nel Bambino scolpito da Jean Dampt, «che guarda attento davanti a sé il tempo che viene», il critico Paul Adam vede l’influenza non dell’autore del David vittorioso, «di cui Donatello precisò la personalità troppo dura e combattiva», ma di quello dello Zuccone e dei ritratti, le cui fattezze sono lette come molto attuali. Il naso del fanciullo di Dampt è appiattito e la bocca, protesa a gustare i sapori della gioia, è animata più dal desiderio di conoscere che da quello di godere: «egli s’arma contro il dolore presagito e sembra munirsi di scienza e di osservazione. Poche cose lo sorprenderanno […] la delusione degli antenati l’ha fin troppo avvertito. Sarà saggio e austero»[11].
Donatello, il Rinascimento
a cura di Francesco Caglioti
Firenze, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello
Fino al 31 luglio 2022
In copertina: Donatello, Predella: Combattimento di san Giorgio col drago e liberazione della
principessa, 1415-1417 circa; Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Su concessione del Ministero della Cultura; ph. Bruno Bruchi
[1] I virgolettati di Francesco Caglioti presenti in più punti di questo testo sono tratti da un’intervista a cura di chi scrive: L. Lombardi, Il padre vero del Rinascimento, «Il Giornale dell’arte», n.426, marzo 2022, p. 54, oppure:https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/donatello-il-padre-vero-del-rinascimento/138635.html
[2] G. Manganelli, La mort comme lumière. Écrits sur les arts du visible, a cura di Andrea Cortellessa, traduzione di Vincent d’Orlando, Paris, «Cahiers de l’Hôtel de Galliffet», III série, 2022. Gli scritti sono editi nel centenario della nascita di Manganelli, che ricorre il 15 novembre di quest’anno, e vedranno la luce l’anno venturo nella loro veste originaria in italiano.
[3] Giorgio Manganelli, Rissa di luce, «Il Messaggero», 23 settembre 1986.
[4] I diversi rimandi alle schede delle opere fanno tutti riferimento a Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra a cura di F. Caglioti con L. Cavazzini, A. Galli e N. Rowley, Venezia, Marsilio 2022.
[5] I rilievi del Fonte Battesimale sono stati restaurati grazie alla collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure sotto la direzione di Laura Speranza, nell’ambito di una campagna più ampia che riguarda tutto il complesso; figurano a Palazzo Strozzi prima di far rientro a Siena.
[6] Queste notazioni di Manganelli muovono dalla predella del San Giorgio e del Convito di Erode del Museo di Lille, attribuito a Donatello ma sono del tutto consone ad altre opere.
[7] Cfr. C. Del Bravo, Brunelleschi e la speranza, in Id., Le risposte dell’arte, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 11-28.
[8] P. Rubin, Seen from behind. Perspectives on the Male body and Renaissance Art, Yale University Press, 2018, p.68.
[9] A. Cortellessa, Les saints voyous, postfazione a Giorgio Manganelli, La mort comme lumière,cit, pp. 213; 215-216.
[10] Vedi L. Lombardi, La riscoperta della tradizione medievale nella scultura francese dopo il 1870, «Predella. Journal of Visual Arts», 41-42 (2017), Pisa 2018, pp. 203-216, a cui si rimanda per le numerose citazioni di critica francese di fine secolo presenti in quest’ultimo paragrafo.
[11] P. Adam, Les Salons de 1896, «Gazette des Beaux-Arts», I, 1896, 454 e 456.