Quando esce Occhio quadrato, nel 1941 per le edizioni di Corrente, Alberto Lattuada non è ancora il regista che insieme a Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica avrebbe diretto alcune delle pellicole più rappresentative del neorealismo cinematografico. Aveva comprato la sua Rolleiflex 6×6 insieme all’amico Luigi Comencini nel ’37 e alla fotografia si è dedicato attivamente per circa un decennio, ma del lavoro di quegli anni rimangono oggi pochissime stampe e perfino le fotografie confluite in Occhio quadrato restano a lungo dimenticate, evocate più che studiate e sostanzialmente non disponibili. Si tratta di 26 scatti in bianco e nero che riprendono principalmente Milano, dal centro storico alla periferia, dove la già evidente poetica realista dell’autore si contrappone all’ideologia affermativa del regime.
Ora il libro torna nella nuova edizione di Scalpendi, accompagnata da un lungo saggio di Antonello Frongia che si prefigge di rispondere ad alcune domande: «Come si sviluppa e come si forma il pensiero visivo del rapporto con il proprio “soggetto”? Come si definisce dialetticamente questo stesso “soggetto”, quando l’atto fotografico non venga inteso come semplice messa in pagina di un’idea, di un concetto o di un’immagine precostituita? Come si coagula la “decisione” di fotografare qualcosa? Come pensano, infine, i fotografi?».
Ma per iniziare a capire l’operazione fotografica di Lattuada sarà bene partire dai dati fondamentali. Innanzitutto il titolo: Occhio quadrato fu suggerito da Mario Soldati (col quale Lattuada collabora sul set di Piccolo mondo antico), con riferimento al formato tipico della Rolleiflex. Un titolo, perciò, che informa subito il lettore sul taglio delle fotografie, sull’inquadratura scelta. Informazione tutt’altro che banale, perché l’inquadratura determina “come” il fotografo guarda attraverso il mirino; è la misura del suo sguardo e presuppone una selezione – e quindi una valutazione – della realtà. Il fotografo guarda, limita e mette in prospettiva ciò che vuole cogliere, e l’inquadratura è ciò che ci ricorda che il concetto di “istantaneità” è meno libero di quanto siamo portati a credere, è ancorato a dei vincoli.
Poiché il modo migliore per definire un oggetto è osservarlo, è arrivato il momento di aprire il volume. Troviamo subito la dedica a Ernesto Treccani del quale in esergo è anche riportata la poesia Gli uomini dormono. Un indizio importante che evoca la rete di rapporti dell’autore, dove le persone rimandano ai luoghi della sua formazione. Un giovane che fa parte di un vivace gruppo di intellettuali milanesi, tra i quali Mario Ferrari, Gianni e Luigi Comencini, Luciano Emmer e Luigi Veronesi, che fondano la Cineteca Italiana. Un neolaureato in Architettura, un critico militante che scrive su numerose riviste letterarie e che ritroviamo sulla rivista di Treccani, «Corrente», alla quale collaborano fra gli altri Argan, Gadda, Quasimodo, Pratolini, Saba e Vittorini. L’apprendistato intellettuale di Lattuada non si svolge entro i confini di singole discipline, ma per Frongia la linea comune del suo ampio raggio di interessi è «l’attenzione per la concretezza del mondo e dell’arte, la ricerca di un punto di vista autonomo rispetto ai modelli dominanti della cultura di regime, il riconoscimento dei dubbi e delle inquietudini delle giovani generazioni cresciute dopo la guerra». È questo il clima storico e culturale che Frongia ricostruisce con dovizia di particolari, perché lo studio del contesto permette di ricostruire la storia dell’autore e pertanto la storia del libro. Affrontare le domande che si era posto, le stesse che pone al lettore, «significa riconoscere alle fotografie, malgrado la loro presunta trasparenza, tutto lo spessore, l’opacità e l’incertezza che caratterizzano ogni atto di riflessione sul rapporto tra sé e il mondo. Concretamente, significa tornare a osservare le fotografie – tutte le fotografie – come biografie di sé stesse».
Alla prima uscita di Occhio quadrato, è però piuttosto la prefazione dello stesso Lattuada a segnarne la ricezione; il che forse si è tradotto in un fraintendimento del valore segnatamente fotografico di quest’opera, accentuando l’aspetto più legato all’esperienza letteraria della poetica del suo autore. Certo, alcune indicazioni appaiono significative. Innanzitutto, l’amara constatazione di vivere in un’epoca in cui «gli uomini hanno perduto gli occhi dell’amore e non sanno più distinguere alcuna cosa», ottenebrati dalla «cappa nera dell’indifferenza». Gli intellettuali e gli artisti hanno la loro parte di responsabilità, troppo spesso chiusi in sé stessi «a coltivare fiori di serra, fiori rarissimi senza profumo», ovvero «troppo pedantesche ricerche di stile» e «questioni di gusto addirittura vetuste». Polemico contro il modernismo e contro il pittorialismo, Lattuada spiega che nel suo lavoro fotografico ha sempre cercato di «tener sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose». Ben lontano dai compiacimenti dello stile, inclina sul versante di un’estetica realista di carattere umanistico. Per lui «la fotografia è documento, è un’istantanea rivelazione della vita, è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale».

Per non allontanarsi da un discorso propriamente fotografico, Frongia incoraggia una lettura di Occhio quadrato come testo visivo. Queste 26 tavole fotografiche sebbene presentate singolarmente, ognuna separata dall’altra da una pagina bianca; non costituiscono un catalogo, bensì «un ideale movimento della camera che progressivamente si avvicina e si abbassa verso un microcosmo inequivocabilmente marginale» e si struttura in una sequenza d’immagini selezionate e disposte secondo un attento lavoro di montaggio. Un concetto di marginalità della città che non ha necessariamente a che fare con le sue estremità periferiche, ma con ciò che della città rimane, con ciò che è marginale, residuale, che resta e quindi che resiste. Frongia individua tre parti o tre generi di tessuto urbano, all’interno del libro: dai limiti fisici e sociali dell’ex gasometro milanese, attraverso lo smantellamento della città così come il fotografo l’aveva conosciuta (non solo Milano, ma anche Venezia e Torino), verso la Fiera di Sinigallia fino all’ultima tavola Fine della città, che può essere letta come «metafora dello stato esiziale in cui versa la civitas moderna».
Occhio quadrato ci racconta anche la formazione culturale e politica di Lattuada; e qui prende corpo una riflessione – attualissima – sulla città e sul paesaggio che deve molto ai suoi studi di Architettura. Una riflessione che nel 1941, a guerra iniziata, si oppone alla cultura dominante, all’estetica mussoliniana e agli “sventramenti” che il piano urbanistico del regime giustifica con ragioni d’igiene fisica e sociale. Agli occhi di chi sa guardare, Lattuada articola un discorso sulla tutela del patrimonio architettonico e culturale italiano, una lotta contro il tempo per trattenere la memoria di una città perduta. Ecco il valore di documento di uno scatto, in un libro dove «la presenza dell’uomo è continua; e anche là dove sono rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni».
Alberto Lattuada
Occhio quadrato. Ventisei tavole fotografiche
(anastatica dell’originale, Edizioni di Corrente 1941), pp. 70 n.n. ill. b/n
Antonello Frongia
Fine della città. «Occhio quadrato» di Alberto Lattuada
Scalpendi 2022, in cofanetto, pp. 242, € 45
Le immagini che accompagnano l’articolo sono scatti di Alberto Lattuada