Sono trascorsi alcuni giorni dal nove giugno, data di inaugurazione della mostra dei sei finalisti del Mario Merz Prize, che alla sua quarta edizione vede esposte le opere e le visioni di Yto Barrada, Paolo Cirio, Anne Hardy, He Xiangyu, Koo Jeong A e Christina Forrer. L’espressione ‘alcuni giorni’ indica qui una precisa indefinitezza: la giusta dilatazione di tempo che permette di ritornare e ricostruire, misurare un’esperienza e provare a restituirla nella scrittura. Occorre allora concentrarsi su alcune densità, scovare nella matassa i fili che, per motivi per lo più ignoti, ci si trova a dipanare. Nel mio caso si tratta di quelli – simbolici e reali – delle due opere di Christina Forrer (Zurigo, 1978): ultimo nome della lista e primo ‘incidente visivo’ capitatomi non appena entro nello spazio della Fondazione Merz. Al primo passo il mio sguardo si distende sulle linee e sul bianco delle pareti, al secondo si contrae orbitando dentro le trame di Intervisions e Distant Afflictions: i due grandi arazzi che, in accordo con la ricerca portata avanti dall’artista, tentano di far emergere in superficie l’insondabile, profonda verità del conflitto che muove ogni relazione.
Le immagini di Forrer diventano lo spazio mediano in cui la consapevolezza di questo nodo primordiale si materializza nell’intreccio dei fili, dei corpi, degli istinti e dei desideri che popolano questo ecosistema di attriti. Guardo Intervisions e provo a trarne una sommaria genealogia: le figure femminili esasperate dalla fisionomia stilizzata che inseriscono la pratica di Forrer nella tradizione dell’arte popolare; i violenti contrasti cromatici che rimandano agli arazzi espressionisti di Ernst Ludwig Kirchner e Lise Gujer; la densità narrativa delle monumentali opere tessili di Hannah Ryggen, qui spogliate di quell’abito politico che intrecciava la mani dell’artista svedese con i traumi storici del secolo breve, primo fra tutti il totalitarismo e le sue degenerazioni. Eppure quello che si intuisce negli intrecci di Forrer è un ‘politico’ diverso, non più diluito nelle risonanze di precisi eventi storici, quanto fissato nella consapevolezza di una verità antecedente al bene e al male che, della storia, ne rappresenta il motore intrinseco: la verità del conflitto, corollario di un’inevitabile relazione che lega tutti gli esseri, prescindendo dal libero arbitrio di ciascuno.

In Intervisions il collante è, nello specifico, quello del conflitto familiare: una catena intergenerazionale di figure femminili che Forrer fa collidere in uno spazio-tempo onirico e perturbante, dove il ritmo lineare del divenire sembra esplodere e l’immagine che si crea non lascia alcuna via di fuga. Inciampo nei fili di questo tempo accumulato in cui diverse epoche si guardano e dove tutto sembra innestarsi sul regime dell’inconscio, fatto di sussurri, urla, sproporzioni e occhi sbarrati, decisamente troppo grandi. Le silhouettes di Intervisions (solo alcuni minuti dopo ripenso a questo titolo emblematico) sembrano infatti condannate a vedere e a condividere il fardello di questa responsabilità. Gli occhi si proiettano nel loro rispettivo campo visivo, contornando la porzione di spazio su cui si posano e scontrandosi inevitabilmente con un altro sguardo vicino: l’aspetto silenziosamente tellurico di queste inter-visioni è che tutto si dimostra esplicito e con una fisicità difficile da sostenere, perché quando uno sguardo si materializza in un filo che ritorna su se stesso allora l’occhio diventa un tassello ontologico di responsabilità. Vedo ed esisto, esisto e incontro, incontro e sono chiamato e muovermi in questa verità. In questo spazio cerco un centro che non esiste; ognuno è esposto – fermo nei nodi materiali dei fili e in quelli invisibili della famiglia e della vita – in questo arazzo che si manifesta come anti-topografia.
Impossibile mappare il climax del conflitto tra generazioni, di cui Forrer sembra tuttavia condensare il momento più intenso dove l’intreccio del tempo diventa la materia di un’immagine tanto immediata quanto indifferente. I fili di Intervisions diventano allora parti di un telaio spettrale, arricciano il tempo lineare e incrinano ogni teleologia dinastica, dando vita a una visione di tipo estatico quando la propagazione del trauma familiare di generazione in generazione non scivola più nel silenzio e nell’accettazione, ma assume il tono dell’incommensurabile: l’abisso che si rende materia visibile.

Di estasi parla anche Rainer Maria Rilke nelle sue Lettere a una giovane signora, scrivendo di “quanto l’incommensurabile esistenza d’ognuna delle nostre più profonde estasi si liberi dalla durata e dal decorso: sorgono esse veramente perpendicolari sopra le vie della vita, come anche la morte le sovrasta a piombo, hanno esse molto più di comune con lei che con tutti gli scopi e moti della nostra vitalità”[1]. In Intervisions di moti ne sono evocati tanti, ma è come se ritornassero in una forma calcificata, oramai senza la fluidità tipica di quel tempo quotidiano che di solito si dimentica e che Forrer fa ritornare come imploso, quasi disperato, nella grammatica di ogni incontro. Una madre e una figlia che si guardano, nell’angolo in basso a sinistra, con la prima leggermente protesa in avanti e la seconda che sembra indietreggiare, con il braccio sinistro teso che punta a un corpo bambino, spettatore incredulo di quel vincolo appena sopra di lui; ma anche il gruppo centrale dei due volti che, nonostante guardino in direzioni opposte, riescono comunque a ‘toccarsi’ con le protuberanze dei loro sguardi.
Forrer enfatizza tali contatti attraverso fasci di colori in cui si delineano le traiettorie di questi rapporti oltre le parole, ed è a questo punto che, con un balzo forse troppo audace, ripenso all’iconico e abusato aforisma di Paul Klee: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. In Intervisions a rendersi visibile è l’aria che unisce – vincola – i fili dei corpi; è lo spazio intermedio, la regione mediana attraverso cui l’alterità del mondo si rende percepibile, richiamando una tra le prime definizioni di medium, ossia il metaxu di cui Aristotele parla nel suo De Anima. Anche in questo caso l’aria non lascia scampo – ognuno vi è immerso – e Forrer ne cuce i contorni, come ad esempio nel vincolo tra le due figure che si manifesta nella parte destra dell’arazzo: a diffondersi qui non è uno sguardo, quanto più una parola, una frase, un’ammonizione (le ipotesi sono aperte) che letteralmente ingloba la totalità di un altro corpo. Presumibilmente si tratta anche qui di due generazioni familiari differenti: madre e figlia bloccate in un legame a senso unico, dove la seconda è come paralizzata nella bolla verbale della prima, ne tocca il perimetro mentre il suo sguardo color giallo canarino non riesce ad andare oltre a quello che è il suo passato.

Considerando il tema centrale del conflitto è come se Forrer dilatasse la potenza di questo attimo che si ripete – sganciato ormai da una specifica successione di eventi – e ne mostrasse la sua intensità perpendicolare: non la cronaca storiografica di una specifica famiglia, bensì l’azione alla base della storia di ogni famiglia e di ogni cosa. Sono emblematiche le parole della stessa artista, in occasione di una mostra tenutasi nel 2017 presso lo Swiss Institute di New York e intitolata Grappling Hold[2], che esprimono chiaramente questa dilatazione: “From the first second we are born, conflict kind of guides our lives. I think it’s what makes people do things, good or bad”. Forrer mantiene vivo lo stato di attrito e le sue potenzialità, riportando ogni relazione a un’origine organica in cui l’interconnessione diventa lo stato primario. Forse quest’ultima coincide con il conflitto, che a sua volta diviene un destino che chiama al di là del bene e del male: alla fine Intervisions rende questa catena esplicita – interconnessione, conflitto, destino – e nel farlo invita a seguirne le trame nascoste.
Tra filo e destino, Intervisions è l’intreccio nel mezzo: un’immagine-moira di cui, ‘alcuni giorni’ dopo, provo a rintracciare il fuso mentre continuo, inevitabilmente, a perdermi sulla sua superficie.
Mario Merz Prize edizione 4: Yto Barrada, Paolo Cirio, Christina Forrer, Anne Hardy, He Xiangyu, Koo Jeong A
A cura di Claudia Gioia e Samuel Gross
Fondazione Merz, Torino
Fino al 25 settembre 2022
[1] R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta. Lettere a una giovane signora. Su Dio (1929), Adelphi, Milano 1980, pp. 87-88.
[2] https://www.swissinstitute.net/exhibition/swiss-in-situ-christina-forrer/
In copertina: Christina Forrer, Intervisions, 2020 (particolare), cotone, lana, lino, acquarello, cm 365,8 × 278 cm; courtesy Burger Collection, Hong Kong e Fondazione Merz, Torino; ph. Andrea Guermani