Filippo Tuena, cartigli di sogni

07/07/2022

La voce della Sibilla di Petronio dice che vuol morire, ma sarà pur vero? La maledizione che le è inflitta, la punizione d’amore di Apollo, le impedisce di porre fine alla propria vecchiezza. Una decadenza infinita, un materiale mitico-radioattivo che non termina mai la propria spoliazione d’isotopi. È a questa vita quasi beckettiana, a questa fine che non finisce, a questo eschaton negato che la Sibilla è condannata: eppure, dentro la sua prigione di anagrafe infinitesimale si cela anche l’immensa possibilità di continuare a ricordare – e a raccontare – oltre ogni appassimento, oltre ogni oblio, oltre la rimozione e la ristrutturazione fisiologica del ricordo.

Così, proprio sullo scontro dialettico fra impossibilità di riproduzione dal passato e possibilità di continuare a estrarne germogli che saranno fiore e carne da romanzo, si basa l’ultimo lavoro di Filippo Tuena, La voce della Sibilla. Insomma «memory and desire», citando ovviamente i versi di T.S. Eliot. E ancora: «puoi avere tempo davanti a te ma desiderare il tempo trascorso (questo è inevitabile e forse è la condizione necessaria)».

Un passo indietro. La voce della Sibilla, ricostruisce, con la consueta forma di prosimetro narrativo, le vicende biografiche, storiche ed editoriali che hanno condotto il giovane T.S. Eliot dagli Stati Uniti, attraverso Parigi, verso Londra, da una promettente cattedra in filosofia ad Harvard alla frequentazione bohemienne della casa – decisiva – di Ezra Pound, «lo migliore fabbro» (con calcolata aggiunta dell’articolo determinativo che nell’originale dantesco non c’è), dalla tragedia della Grande Guerra ai primi stentati ma già impressionanti passi verso la maturità espressiva. Insomma, il tortuoso cammino verso la scrittura di quel poemetto di «ordine e mito» (espressione dello stesso Eliot rivolta a un altro campione di modernismo e «metodo mitico»: il James Joyce le cui preview dell’Ulisse condussero il giovane poeta a interrompere la scrittura della sua opera per sentimento di aver perso ai punti ancor prima d’iniziare) che è The Waste Land (prima apparizione: 1922).

James Joyce e Ezra Pound

1910-1922. Ma non solo: le date oscillano quando si maneggia un materiale così arroventato come la memoria. La voce della Sibilla inizia con i due ritratti gemellari e divergenti di Pound ed Eliot, dipinti da Wyndham Lewis rispettivamente nel 1939 e nel 1938. E ancora: se è in quel fatidico 1922 che The Waste Land vide la luce, soltanto nel 1925, nel volume Poems, appaiono l’esergo (di Petronio, sulla Sibilla appunto) e la dedica (a Ezra Pound, qui Arnaut Daniel) nella loro forma definitiva. La Fata Morgana della filologia impazza: perché, si domanda l’autore, esergo e dedica appaiono invertiti, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe? Ma ogni storia parte dalla fine, dice Tuena, e proprio lui apre una soglia dietro l’altra, come le vittime dell’Angelo sterminatore di Buñel che non riescono a uscire proprio dalla soglia primaria.

Wyndham Lewis, Ezra Pound, 1939 © Wyndham Lewis and the estate of Mrs G A Wyndham Lewis by kind permission of the Wyndham Lewis Memorial Trust

Eppure la domanda cruciale forse pare un’altra: da quant’è che il «third» man cammina accanto a Tuena? La vertigine di questo riferimento si comprende solo seguendo il filo di una citazione iper-infra-testualizzata. In Ultimo parallelo, forse il suo libro più rappresentativo e certamente uno dei suoi esiti più felici, la spedizione Scott che tenta di raggiungere il Polo Sud ha la sensazione di essere seguita da un «terzo uomo». Questa suggestione viene dai resoconti di celebri spedizioni polari, una su tutte quella di Schakleton. Ma non solo: pur ispirandosi alle cronache antartiche è proprio Eliot che offre la citazione primaria, in un passo della Waste Land appunto, dell’impressionante parvenza di un terzo uomo, invisibile e presente, immanente e fantasmatico, che la spedizione Schakleton, come quella Scott, ebbe con sé per tutto il tempo dell’avventura («Who is the third who walks always beside you?… Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?»).

Scrive Carmen Gallo, traduttrice e curatrice dell’ultima edizione della Terra devastata (con questo, risolutivo, cambio d’aggettivo): «[oltre all’episodio di Schakleton] Sono tuttavia chiari i rimandi al racconto dei discepoli verso Emmaus di Luca 24, 13-35, che ribadiscono – come per la Sibilla – la marginalità di un divino qui nemmeno riconosciuto come tale». È lecito dunque pensare che un libro sulla Terra devastata fosse nella mente di Tuena da un bel po’, non foss’altro per far esplodere quella «descrizione di descrizione» che dal 2007 (anno di pubblicazione di Ultimo parallelo) infestava il suo immaginario.

T.S. Eliot

Già, l’immaginario di Tuena: un album planetarium che ha bisogno della sequenza, di consegnare al lettore più che un plus di documentabilità un vero e proprio atlante warburghiano. Anche se il pensiero corre subito a W.G. Sebald come exemplum eccellente è pur vero che quello di Tuena è un utilizzo originale e autonomo che Giuseppe Carrara indica come tripartitico: la riproduzione del segno visivo in mezzo al segno testuale ha, secondo lo studioso, il triplo valore di memoria storica, memoria letteraria e infestazione spettrale. Tutti e tre i vettori contribuiscono a rendere le opere di Tuena percorsi oscillanti dentro il labirinto della memoria. Ma la memoria, come i granelli di sabbia che stringe in mano la Sibilla, percorre strade tortuose: «il passato si allontana, ancorché sia stabile, immutabile […] ma si allontana e si modifica costantemente sulla base dei ricordi. Così ogni ricognizione offre panorami differenti prodotti da punti di vista differenti».

Da poco ho riletto un romanzo ‘antico’ di Tuena, Cacciatori di notte, un romanzo di pura narrazione, quasi un romanzo di genere (ristampato da Corrimano nel 2017, con un’utile postfazione dell’autore). Lì, nelle battute finali, emerge la ricostruzione memoriale delle vicende che hanno portato alla stesura di quello strano romanzo colmo di ricordi, racconti, ricostruzioni, licantropi (ma senza immagini: l’uscita iniziale di Cacciatori di notte risale al 1994 e «allora non usavo corredare i miei testi di immagini esplicative»), ma la postfazione si chiude proprio con un’immagine-epitome. Di fronte all’ultima riproduzione fotografica – quella di un gruppo di giovani ragazzi degli anni Sessanta ritratti a una festa – più che un generico effetto nostalgia si attiva la sensazione di star per entrare in una terra di mezzo dove fluttuano fenomeni spettrali appartenenti tanto a, poniamo, una canzone di Edoardo Vianello arrangiata da Morricone che a Shining. Ma è precisamente questa caratteristica inquietante – quella che altrove Mark Fisher ha chiamato hauntologia, ma che mi piacerebbe chiamare adesso postmodernismo critico – che rende l’utilizzo delle immagini, in Tuena, problematico e, in un certo senso, politico.

Affrontando ora il suo «third man» faccia-a-faccia, dopo averlo inseguito per trent’anni, Tuena ci dice che quello che stiamo per leggere è solo «un piccolo libro su memory and desire». Ma non è solo questo. Leggiamo ancora dalle note di Carmen Gallo, proprio in corrispondenza dell’incipit eliotiano (April is the cruellest month, breeding / Lilacs out of the dead land, mixing / memory and desire, stirring / Dull roots with spring rain… «Aprile è il mese più crudele, genera / lillà dalla terra morta, mescola / memoria e desiderio, pungola/ radici ottuse con pioggia primaverile»): «la memoria del passato, la vita già vissuta (dead land), è mescolata crudelmente con il desiderio che spinge ad altra vita (lilacs)». Il germogliare… l’origine di una opera, come l’origine du monde. Nella Voce della Sibilla è un continuo germogliare: Eliot fiorisce a Parigi, Parigi lo cambierà per sempre trasformandolo da aspirante professore di filosofia in un poeta; a Parigi conoscerà Ezra Pound e Jean Verdenal. E proprio Verdenal, questo medico che morirà «aux Dardanelles», provocando in Eliot la ferita decisiva che lo condurrà alla Waste Land – l’appuntamento mancato in prima persona col redde rationem della propria generazione, la ferita bianca, il vuoto antartico al centro della propria esistenza –, Verdenal scrive in una lettera a Eliot del 22 aprile 1912: «Spero che germoglino fiori radiosi».

Jean Jules Verdenal, courtesy of Dr George Watson

Ma sappiamo, dai versi del poemetto, che il germogliare si contrappone alla morte, alla vita già passata. Eppure, la vita passata è il demone che da sempre s’incarna nelle parole di Tuena, nel fraseggio della sua voce, nel discorso ritmico tra parole e figure. Ma, ancora più precisamente, il demone-licantropo di Tuena pare essere proprio: ciò che di questa vita passata non va perduto nella dialettica del desiderio, ma viene salvato nel disco fisso della memoria, grazie al conflitto perpetuo fra i due poli.

In altre parole, Tuena vuol indagare il passato, ma siccome questo è sempre modificabile, come sappiamo, offre sempre nuovi punti di vista; inoltre c’è il desiderio per la nuova vita che germoglia (lilacs), che vorrebbe cancellare quei rami secchi. Una tempesta si prospetta all’orizzonte, eppure qualcosa sopravvive: si trasferisce nel regno del sogno, dell’elaborazione fantasmatica, hauntologica o di postmodernismo critico delle immagini. Ogni volta che un’immagine interferisce con un testo (di parole) il nucleo che si ricompone acquisisce subito una valenza, o meglio, una ‘posizione’ politica. Scrive Gherardo Bortolotti in un libro-intervista, curato da Maria Teresa Carbone, appena uscito per Italo Svevo Edizioni e che s’intitola chatwinianamente Che ci faccio qui?:

la letteratura è il luogo dell’immaginario: ci sono le storie, ci sono i suoni e ci sono soprattutto le immagini. […] Un tempo la parola era la regina del creato, tutti sognavano con le parole, ma oggi la nostra relazione con il mondo avviene principalmente attraverso le immagini, tant’è che secondo me uno degli effetti della loro diffusione è che la grande macchina del romanzo si è smontata. Scriviamo romanzi magari molto belli che però girano in uno spazio vuoto: la relazione tra narrativa e umano è solo il pallido residuo di una vicenda ormai conclusa, il meccanismo della trama non regge più perché le immagini hanno bisogno di un accostamento, non di una sequenza, e il testo si riduce dal momento che le immagini ci hanno abituato a lettura rapide e immediate.

Viene da pensare che le immagini, in Tuena, più che rincorrere un’esattezza archivistica (giacché – e su questo si potrebbe aprire una lunga parentesi – le immagini utilizzate sono, in gran parte, immagini d’archivio) siano cartigli di sogni. Eppure, anche il sogno ha una profondità politica: proprio nel caleidoscopio onirico – fin da Kafka, lo sappiamo – si nascondono le chiavi di decrittazione del presente; perché possiamo anche fingere che La voce della Sibilla sia scritto solo in omaggio al centenario della (prima) uscita della Waste Land di Eliot (ma poi sappiamo, dopo la lettura del libro, che la storia che ha generato il poemetto è piena di false partenze, di ritorni all’indietro, di errori, di ripensamenti, di atti mancati), ma dovremo presto far cadere anche questo velo opaco e vedere che la nostra West Land è sempre più «waste», come guasta è la Creta degl’infernali versi danteschi: «“In mezzo al mar siede un paese guasto”/ diss’elli allora, “che s’appella Creta, / sotto il cui rege fu già ’l mondo casto. / Una montagna v’è che già fu lieta / d’acqua e di fronte che si chiamò Ida; / or’è diserta come cosa vieta».

Nei sogni fatti d’immagini – e dentro gli archivi si sogna, sembra di capire – leggiamo con più chiarezza le scorie nucleari del Novecento che ancora rendono impossibile concludere il ciclo di «sepoltura dei morti» aperto a inizio del xx secolo. Cento anni dopo la pubblicazione di un poema emblematico – certo più dichiarativo e minerale della de-sacralizzante epopea joyciana dell’Ulisse – della devastazione d’Occidente (sempre Gallo c’informa di aver preferito mutare l’ormai consolidato «desolata» in «devastata» perché in esso c’è il vastus geografico di un dolore che lacera infinitamente) siamo di nuovo di fronte al suo corpo maciullato; le ferite suppurano ancora: mai come ora sembra di poter dire che viviamo in un «passato che non passa».

Filippo Tuena
La voce della Sibilla
il Saggiatore, 2022
pp. 272, € 19

In copertina: Wyndam Lewis, T.S. Eliot, 1938 (particolare) courtesy of Durban Art Gallery. © The Wyndham Lewis Memorial Trust/Bridgeman Images

Filippo Polenchi

è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, "Le parole e le cose", “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”, “Collettiva”.

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