La vita dolce di Alex Katz

Alex Katz – cui il MART dedica una mostra Alex Katz. La vita dolce, con opere che vanno dagli anni Novanta ad oggi, a cura di Denis Isaia (fino al 18 settembre) – è artista che sfugge a ogni netta definizione. Forse per questo la sua fortuna in Europa è stata alterna, fin dagli anni Settanta, quando si tiene la prima mostra alla galleria Thelen di Colonia nel 1971. Katz è infatti figurativo negli anni Settanta senza essere pop, sia per temi, sia per condotta pittorica, ma quando, negli anni Ottanta, c’è il ritorno alla pittura, non si volge alla tradizione con sguardo postmoderno, perché la sua pennellata mantiene ben impressa una traccia modernista, alla Clement Greenberg, con larghe campiture e un senso bidimensionale della forma. Sono tuttavia due pittori della Transavanguardia, Francesco Clemente e Enzo Cucchi a portare Emilio Mazzoli, nel 1990, nello studio di Katz; poi è Monica De Cardenas, dopo aver aperto la sua galleria a Milano nel 1992, ed aver letto un numero di «Parkett» dedicato a Katz, a entrare in contatto con l’artista tramite Bice Curiger e a dedicargli la mostra del 1996. Da allora si apre il rilancio di Katz in Europa sia tra i galleristi – Saatchi a Londra e Thaddeus Ropac tra Parigi e Salisburgo -, sia nei musei (il Museo d’arte Moderna di Francoforte, la Galleria Civica di Trento, la Fondazione Bevilacqua la Masa a Venezia, il MARCA di Catanzaro). Quest’anno mostre di Katz sono al Guggenheim di New York (dal 16 agosto), alla Fondazione Thyssen-Bornemisza di Madrid (dall’11 giugno) e, appunto, al MART (da un’idea del presidente, Vittorio Sgarbi). Per il 2023 lo attendono l’Albertina di Vienna e la Poetry Foundation di Chicago.

Alex Katz, Libby, 1991 (MART, Deposito collezione privata)

Ad accompagnare la lettura dell’opera di Katz è spesso lo stupore che generano i volti dei suoi personaggi sempre sorridenti, donne, uomini e adolescenti ritratti in un giardino o in un salotto o in un bar newyorchese – ad esempio Summer seven e After hours (in mostra, 1993) – familiari o amici, per una pittura che Isaia definisce «circondariale» ad evocare proprio un ristretto, e in fondo ripetuto uso, degli stessi modelli. Quadri che si concentrano sui momenti di disimpegno, quelli della domenica o delle vacanze, nella convinzione, espressa dallo stesso Katz che «se entri nel presente quella è l’eternità», ma che non disdegnano neppure altre occasioni di svago, un cocktail newyorchese come già in Pas de deux (1983) e in ambienti nei quali si muovono figure eleganti come quella dell’amica Ursula (in mostra, 1998), o altre che indossano abiti della stilista Norma Kamali. Se infatti lo scenario prediletto è quello dei boschi del Maine, Katz è attratto negli anni Novanta dal mondo della moda, rivolgendosi ad esso con un misto di fascinazione e di distacco: più che quel mondo sono ancora una volta gli esseri umani a interessarlo nel loro disporsi nello spazio di un giardino o di un luogo di ritrovo, con la differenza che quest’ultimo non è mai descritto, sostituito da un fondo di colore uniforme dal nero all’arancio più ardito, ed è richiamato soltanto dai gesti dei personaggi o da un bicchiere posato su un piano.

Alex Katz, After hours, 1993 (Collezione Mastrotto)

Ai quadri di figura – con rari nudi tra cui uno in mostra del 2005 – nei quali ricorre il volto della moglie Ada, si uniscono, essendone proprio il costante corrispettivo, i grandi paesaggi del Maine. Un intercalarsi ben tradotto nell’allestimento della mostra di Rovereto. Concepiti nel solco della grande tradizione statunitense di larghi orizzonti, quei paesaggi evocano talvolta nelle inquadrature i dipinti di Andrew Wyeth, dove la netta scansione bidimensionale rimanda anche all’arte europea tra Ottocento e Novecento di cui Katz si riconosce debitore. Tra i nomi spesso citati dalla critica vi sono Vuillard, Cézanne, Matisse, ma la disposizione ritmica dei tronchi di vari dipinti può richiamare anche   i boschi con le betulle di Klimt, specie Woods del 2004.

Alex Katz, Woods, 2004 (Collezione privata, Modena. Foto Paolo Terzi, Modena)

Ad avvicinarsi, la pittura di quelle tele muta però fortemente e si colgono più nette le tracce dell’espressionismo astratto nel quale Katz si è formato, con effetti quasi di dripping, che si ritrovano anche in opere recenti, memoria dei suoi esordi. «Mi sono ritrovato a lavorare come un vecchio maestro quando avevo iniziato dipingendo di getto come Jackson Pollock» afferma Katz, aggiungendo, in un’intervista di David Sylvester del 1997, di essersi sentito vicino alla pittura di Franz Kline e di aver guardato a Fairfield Porter, artista cui spesso è assimilato, solo più avanti. Non vi è contraddizione tra il richiamo all’ Ottocento francese e l’espressionismo astratto, se ricordiamo l’impatto che le mostre degli impressionisti ebbero negli Stati Uniti e che nelle opere di Katz si traduce nella forte attenzione ai riflessi e alla transitorietà della luce, sebbene non vi sia nulla della pastosità informale degli stagni di Monet, quanto semmai echi del «solidificatore dell’impressionismo», Cézanne. «Il pittore più interessante» per Katz in quei decenni resta comunque Edouard Manet ed egli cita anche un americano molto attratto da Manet, John Singer Sargent. Ma al di là dei nomi ricorrenti nei testi su Katz (anche il Seurat de La grande jatte) o a quelli citati dall’artista stesso, viene alla mente un enigmatico quadro di Fernand Khnopff, Memories (1889), dove le figure delle donne con le racchette di volano si stagliano in maniera bidimensionale sullo sfondo di un prato, apparentemente chiuse in sé stesse, pur se in relazione con altre, proprio come i personaggi nel giardino di Summer even, uno dei quadri più attraenti della mostra di Rovereto.

Fernand Khnopff, Memories, 1889

I dipinti di Katz si definiscono proprio in quell’isolamento delle figure, anche quando sono assemblate, e nelle emozioni rese minimali. Eppure, nell’intervista a David Sylvester del 1997[1], Katz insiste su quanto la vera costante del suo dipingere sia la modalità percettiva ed anche l’interesse per ciò che è fuggente: sia questo un sorriso, o il crepuscolo, da coglier nel suo rapido trascorrere come in Lake light. D’altronde il poeta James Schuyler, in uno dei testi pubblicati in catalogo, descrive il rapidissimo modo di dipingere dell’amico, concepito quasi come un happening fino a concludere la sua tela in poche ore. Al punto che, gli spiega Katz, alla fine «è come fare una zuppa [..] «i segni diventano inconsci»[2]. Una contraddizione netta rispetto al metodo seguito nei disegni preparatori, lunghi, accurati e addirittura compiuti con lo spolvero, come un ritratto in mostra ben documenta, testimoniando la fascinazione per la grande tradizione pittorica antica, da Piero della Francesca a Jacques Louis David. Tuttavia, il primato del disegno della scuola fiorentina, per dirla con Vasari, non è certo ciò che più affascina Katz, che finisce per prediligere, come spiega a Sylvester nell’intervista sopra citata, il primato del colore dei maestri veneti: Tintoretto («Ce n’è uno eccezionale al MET che sembra uno strofinaccio da cucina. Un grande dipinto»), Veronese («un grande pittore all over»), poi Rubens, perché barocco, e Fragonard, al quale giunge andando a ritroso, dopo aver visto Pollock e De Kooning, affermando che la sua comprensione dei maestri passa proprio «attraverso il prisma della pittura moderna».

Alex Katz, Song, 2004 (Collezione privata, Modena. Foto Paolo Terzi, Modena)

Nelle tele di Katz ben si coglie, inoltre, la sensibilità per quel momento in cui l’action painting si acquieta e distende nella colour field painting, con le larghe campiture di colore che vanno a raffreddare il corpo a corpo con la tela della stagione precedente. Nelle sue pennellate sembra infatti di ritrovare i veils di Morris Louis, ma anche le sbavature delle linee, solo apparentemente geometriche, di Barnett Newman; sbavature che tradiscono una vena di sentimento che non è neppure estranea a Katz, il quale infatti, a James Schuyler che lo vede all’opera, dice, a proposito di un pittore a lui contemporaneo: «La sua roba è concettuale. Mi piace più la solita pittura, è così che si ottiene una certa profondità emotiva». L’emozione quindi resta, pur nel minimalismo delle forme, anzi celato dietro di esso, pensa Grasskamp[3], sottolineando come una chiave di lettura del lavoro di Katz sia la poesia americana della sua generazione, quella che ha poi ispirato scrittori come Allen Ginsberg, da lui ritratto nel 1986. Tra i poeti Katz predilige William Carlos Williams, forse per quella sua capacità di attuare un’«impalpabile rivoluzione del quotidiano»[4].

Alex Katz, Alex, 2008 (Private collection, Switzerland)

A scrivere di Katz sono infatti anche due autori legati a Williams, ma della generazione successiva: il primo è il già ricordato James Schuyler, l’altro è Franz O’Hara, che figura tra gli autori dei saggi pubblicati nell’antologia del catalogo della mostra del MART, alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano. Al di là dei testi critici, nella poetica di entrambi si coglie quel senso del vivere giorno per giorno, del «qui ed ora» che emana anche dalle tele del Nostro («Il passato è passato, e se uno/ricorda quel che voleva/fare e poi non ha fatto, non/basta aver pensato di/fare?» scrive Schluyler[5]). Così anche in O’ Hara: «Quello che più di tutto mi interessa è il mondo così come lo vivo io»; Having a coke with you[6] è una lode al momento presente, nelle strade della città, insieme all’amato che indossa una camicia arancione («sembri un più beato più felice San Sebastiano»), e dove il motivo del piacere sta un po’ nei «tulipani arancio fluorescente attorno alle betulle» e un po’ nella «segretezza dei nostri sorrisi di fronte a persone». In questo caso le affinità sono quindi anche nelle immagini di figure, fiori, piante, e nelle cromie. O’ Hara scrive anche Orange 12 Pastorals e spiega a Edward Lucie Smith «My poetry is just like Pollock, De Kooning and Guston rolled into one great verb», aggiungendo che per lui, curatore per molti anni al MoMA, i due universi, pittura e poesia, si sovrappongono, sebbene la pittura richieda troppa concentrazione [7].

Alex Katz. La vita dolce, vista dell’installazione

Sorprende che tra i tanti nomi evocati a confronto (tra cui anche Larry Rivers e Andy Warhol, per sottolineare le differenze tra un approccio alla società contemporanea pop e quello più astratto e sospeso di Katz), mai compaia quello di David Hockney. Nell’artista britannico – che ebbe una breve ma significativa parentesi americana (west coast però) – ritroviamo, negli anni Sessanta, figure ritagliate su fondo, analoghe a quelle di Katz, sebbene poi Hockney costruisca presto le sue composizioni con un impianto più prospettico di matrice rinascimentale, specie nei quadri di interni. Tuttavia, ad accomunarli, pur nelle differenze, è quel trarre ispirazione da una ristretta cerchia di amici e di persone care e, parallelamente, la concentrazione sul paesaggio, in un tono sospeso che mai cede alla narrazione ma anzi reca quell’indugio contemplativo sotteso ai dipinti di Katz. In entrambi la cultura pop sta sullo sfondo, l’inglese R.B. Kitaj nei quadri di Hockney e forse James Rosenquist nei primi piani di donne ridenti di Katz.

Alex Katz. La vita dolce, vista dell’installazione (foto: MART)

«Non dipinge come se non ci fossero problemi. Dipinge nonostante i problemi, a causa dei problemi» notava Merlin James pittore amico di Katz, ed è proprio questo ostentato disinteresse sul quale si arrovella la critica. In Italia Achille Bonito Oliva parla di «realismo obliquo» e ne compie una lettura nella chiave del suo L’ideologia del traditore, quel saggio del 1976 che traccia una via dal manierismo all’arte contemporanea. Bonito Oliva coglie un punto essenziale della pittura di Katz, il non essere luogo dell’azione ma della contemplazione, e anche il luogo «in cui la realtà precipita in un’altra realtà, quella linguistica dell’arte dove l’applicazione di alcuni procedimenti promuovono un distanziamento e al tempo stesso un apprendimento». Katz afferma di concepire la pittura come qualcosa di strettamente legato all’ambiente in cui si vive, «un atto sociale», sia questa la provincia del Maine da cui proviene e a cui costantemente ritorna, o l’America mondana nella quale si butta «a capofitto», per usare una sua espressione. Tuttavia, quell’atto sociale lo porta a una concentrazione sulla pittura per la pittura, liberata dai vincoli nel senso greenbergiano del termine, che si avverte ben chiara percorrendo le sale del MART, dove la mostra è stata molto ben allestita, alternando momenti di concentrazione di opere con altri di studiate pause e soprattutto tenendo conto dell’ambiente esterno, oltre le vetrate di quegli spazi, a sollecitare una continuità tra le grandi tele di Katz ed il paesaggio che circonda Rovereto. Forse anche per questo, percorrendo le sale della mostra, vien da chiedersi se  quel voluto disimpegno, la coolness che emana dai dipinti di Katz, specie quelli più recenti, possa rimandare non tanto al disimpegno anni Ottanta, al tempo dell’edonismo reganiano e dell’ironia postmoderna, quanto rispondere allo spirito dell’attuale stagione post lockdown, in cui ritmi, azioni, rapporti umani e con l’ambiente, hanno subito una qualche notevole trasformazione, suscitando aspirazioni diverse da quelle finora considerate priorità. Nei dipinti degli ultimi tempi, Katz si sofferma su specchi di acqua, ombre nei boschi, vitalità di fiori giganteschi, ma anche finestre illuminate nella notte tra la vegetazione di un giardino; ciascuno di noi può spingere oltre la sua immaginazione anche perché, come Katz spiega a Sylvester,  «affermando che i miei lavori sono completamente astratti e figurativi esprimi esattamente quello che era il mio intento».

Alex Katz. La vita dolce
Da un’idea di Vittorio Sgarbi. A cura di Denis Isaia
Mart Rovereto
fino al 18 settembre 2022


[1] D. Sylvester, M.James, Alex Katz, twenty five years of painting, The Saatchi Gallery, London 1998, tradotta in Alex Katz. La vita è dolce cit.,pp. 134-147.

[2] J. Schuyler, Alex Katz paints a picture, febbraio 1962, in «Art news» on line, 22 febbraio 2019, poi in Alex Katz. La vita è dolce cit.,pp. 117-122.

[3] W. Grasskamp, Elegantemente in ritardo. Alex Katz, 2002, in Alex Katz, la vita dolce, a cura di Denis Isaia, p. 131.

[4] W.C. Williams, Poesie, a cura di C. Campo, V. Sereni, Torino, Einaudi, 1961, p. 13.

[5] J. Schuyler, Omaggio, in Collected poems, Noonday press, New York, 1998.

[6] F.O’Hara, Collected poems, Berkeley, University of California Press, 1971.

[7] F. O’Hara, Standing still and walking in New York, a cura di D. Allen, Grey Fox Press, Bolinas (Cal.) 1975, p.21. Vedi anche il poema: I’m not a painter, in F.O’H., Collected poems, cit., pp.261-262.

In copertina: Alex Katz, Dark brown hat #1, 2002, Collezione Ferrari Galassi

Insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee all'Accademia di Belle Arti di Brera. Si è occupata di argomenti di arte e di critica d’arte dal XIX secolo ad oggi (con particolare attenzione all’arte dell’età unitaria, al simbolismo tra Francia e Italia, all’Orientalismo e ai rapporti tra parola e immagine), pubblicando saggi e monografie e collaborando a diverse mostre. Membro della SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte), scrive da molti anni per il mensile “Il Giornale dell’arte” (Allemandi). Tra le sue ultime pubblicazioni “Un sogno fatto a Milano, Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo”, Johan&Levi, Milano 2018; “The gentle art of fake. Arti, teorie e dibattiti sul falso”, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2019.

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