Dostoevskij, l’occhio e la penna

Dostoevskij fu un grande divoratore di immagini. Utilizzo questa espressione non a caso, perché il rapporto che lo scrittore intratteneva con le immagini d’arte fu talmente intenso da provocare in lui emozioni e reazioni fisiche talvolta convulse. La meticolosa Anna Grigorevna, nel suo libro di memorie, annota fedelmente il ricordo del momento in cui Dostoevskij incontra due delle opere che più influenzeranno la sua immaginazione, la Madonna Sistina di Raffello e il Cristo morto di Holbein. Come spesso capitava allo scrittore dopo un’emozione intensa, la sua mente cedeva a quegli stati di quasi incoscienza che accompagnavano gli attacchi epilettici cui era soggetto.

Un’esperienza bulimica in cui lo scrittore, attraverso le suggestioni dell’esperienza visuale, immagazzinava senza sosta idee e riflessioni che avrebbe poi versato nei personaggi dei suoi romanzi. La rielaborazione del dato visuale, che comprendeva un repertorio ampissimo di opere d’arte, seguiva uno schema complesso che può essere semplificato nella figura della circolarità, a suo tempo indagata da Vittorio Strada per stabilire un preciso percorso ermeneutico all’interno del romanzo L’idiota:non solo nell’organizzazione dell’intreccio (temi e personaggi) ma anche in senso operativo, dal momento che è altresì categoria dell’immaginazione poietica che si trasferisce attraverso il medium visivo nella produzione di segni che non sono ancora “scrittura” ma a questa preludono. In questa circolarità, la stessa che a suo tempo George Poulet riscontrò in autori come Flaubert e Valéry, si dispiega il sistema della scrittura dostoevskiana, multiplanare e carsico, fondato su rimandi e scatole cinesi che seguono meccanismi retorici in prevalenza ecfrastici. 

L’ekphrasis riveste in Dostoevskij due funzioni: una metanarrativa, con la quale anticipa, chiarisce o prefigura il senso di una narrazione che in essa si rispecchia; e una intertestuale, che si invera non soltanto nella banale dialogizzazione di due o più testi interpolati nella narrazione ma innesca ulteriori comparazioni fra le immagini di una tradizione figurativa che si rivela così ipotesto del romanzo. Tra i temi che Dostoevskij elabora attraverso la citazione di immagini d’arte ricorre per esempio quello mitologico dell’Età dell’oro, che si presenta nel racconto Il sogno di un uomo ridicolo del 1876 per poi essere poi ripreso nei Demoni e nell’Adolescente, dove viene introdotto rispettivamente da Stavroghin e Versilov. Altro snodo visivo di grande importanza è quello relativo all’incontro tra l’Idiota, il principe Myškin del romanzo omonimo, e l’immagine del livido Cristo di Holbein:

Nel quadro il viso era orrendamente sfigurato dai colpi, enfiato, con tremendi lividi sanguinolenti e gonfi, occhi dilatati, pupille stravolte. […] Ma, cosa strana, mentre guardi quel corpo di uomo straziato, ti sorge in mente un singolare e curioso quesito: se tutti i Suoi discepoli, i Suoi futuri apostoli […] e tutti quelli che in Lui credevano e Lo adoravano, videro realmente un cadavere in quelle condizioni, […] come mai poterono credere, contemplandoLo, che quel martire sarebbe risorto?

L’immagine è tanto inquietante da instillare il dubbio nella fede, l’incredulità nel dogma della resurrezione corporale, l’aporia insolubile della sostanza umana del figlio di Dio: questioni capitali che nei Fratelli Karamazov fanno vacillare il percorso spirituale del novizio Alësa Karamazov.

Hans Holbein il Giovane, Cristo morto nel sepolcro, 1521

Schematizzando, si possono così riassumere i significati che per Dostoevskij riveste l’immagine artistica: a) motivi generatori dell’idea fondativa del romanzo (per esempio nell’Idiota); b) modi di esplicare determinati concetti e renderli “visibili” (è il caso del problema della fede); c) modi per vincere la materia e concretizzare un’idea (s’è visto il tema dell’Età dell’oro); d) spunti per raccordare più temi attorno a una semantica dominante (per esempio il tema della sofferenza innocente e della teodicea). La strategia retorica adottata da Dostoevskij individua un ruolo dell’immagine non meno significativo di quello accordato alla parola; i due momenti (l’osservazione delle immagini d’arte, l’elaborazione dell’idea/parola) sembrerebbero non seguire l’uno all’altro ma apparire simultanei se, come afferma Baršt, «nella produzione di Dostoevskij gli eroi che presentano tratti e inclinazioni artistici sono moltissimi e particolarmente numerosi nelle sue primissime opere, dove praticamente ogni protagonista ha la capacità di pensare per immagini».

Proprio a Konstantin Baršt si deve il lavoro di ricerca più corposo e sistematico mai compiuto sulla mole di materiali iconografici, visivi e grafici che costellano il mondo dostoevskiano: Disegni e calligrafia di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta in traduzione italiana, a cura di Stefano Aloe, da Lemma Press, a cura di Stefano Aloe. Il volume è una versione rinnovata degli studi quarantennali dell’autore, al quale si deve l’inizio del filone di ricerca dedicato alla “grafica letteraria” di Dostoevskij. Il merito di quest’opera è di avere anzitutto raccolto l’enorme quantità di disegni che Dostoevskij produceva nei quaderni di appunti e di averli raccolti in uno studio sistematico in grado di illuminare assetti genetici testuali e tematici delle sue opere (così fra l’altro definitivamente infrangendo l’ostracismo stalinista nei confronti degli studi dostoevskiani, che fa data almeno dal 1953).

L’eredità grafica dello scrittore non è circoscrivibile al solo ambito del “disegno” e dello schizzo. L’ampiezza e la varietà della produzione grafica è riconducibile a tre categorie: ritratti, elementi architettonici dell’arte gotica e composizioni calligrafiche prevalentemente ispirate a nomi propri. Il rapporto tra questi segni grafici e il loro significato poggia su uno slittamento tropologico («metonimie ideografiche») che dalla materialità devia verso un senso spirituale: per cui il volto è espressione della moralità, mentre gli archi e le volte evocano l’idea della tensione verso Dio. Interessanti anche gli appunti verbali che Dostoevskij annotava a margine delle bozze dei romanzi e che, insieme alle pagine e agli ideogrammi, compongono un complesso sistema semiotico già nella fase preparatoria precedente alla stesura finale del romanzo. Se si pensa alla densità e alla complessità costitutiva dell’architettura dei romanzi di Dostoevskij – a strati, circolari, “verticistici” – il risultato finale è uno spazio saturo, tanto strutturalmente che semanticamente.

Una parte del saggio è dedicata ai ritratti dedicati dallo scrittore a personaggi della vita culturale russa ed europea; tra i più interessanti, quelli dedicati a Turgenev, a Madame De Staël e al fratello Michail. Questa modalità compositiva, la formazione del volto di un’idea, fa parte di un processo più ampio che dal segno porta appunto all’idea, e da questa alla struttura del romanzo. Proprio il ritratto sembra giocare un ruolo cruciale: basti pensare che quasi tutti i materiali preparatori ritraggono almeno il volto di uno o più personaggi del romanzo in fieri. Baršt afferma che queste immagini prefigurano l’idea, in senso bachtiniano, del romanzo. Secondo la teoria fisiognomica di Lavater, il ritratto articola il rapporto tra esterno e interno, creando quell’armonia etica e fisica che Dostoevskij pare ricercare con meticolosa cura nelle sue grafie.

Vasilij Perov, ritratto di Dostoevskij, 1872

Di converso il celebre ritratto di Vasilij Perov, conservato oggi alla galleria Tretjakov di Mosca, fu realizzato dal pittore nel 1872 dopo una lunga permanenza a fianco dello scrittore: e pare davvero cogliere la sua essenza. E lo stesso Dostoevskij, nell’autoritrarsi in una pagina di appunti, pare riprendere questa lezione visiva. Il ritrattista fa sedere davanti a sé il modello, si prepara, lo osserva. Ma perché fa così? Perché sa che una persona non è sempre simile a sé stessa. Perciò cerca «l’idea principale della sua fisionomia», il momento in cui il modello “somiglia più a sé stesso”: nel saper cogliere questo momento consiste il dono del ritrattista.

Nell’Occhio e il segno Claudia Olivieri (Rubbettino 2003), ispirandosi all’opera di Baršt prima che fosse tradotta in italiano, ha analizzato la triangolazione visiva del rapporto di Dostoevskij con l’arte: tra Dostoevskij soggetto d’arte e Dostoevskij oggetto d’arte intercorre un momento mediano, quello dell’arte soggettivizzata, in cui l’autore pensa per immagini e domina la materia grezza dell’idea attraverso il disegno.

Se il grande Bachtin ha centrato le sue ricerche sulla parola dialogizzata del romanzo polifonico, Baršt ha il grande merito di restituire la vasta sensibilità visiva di Dostoevskij, nutrita dalla parola stessa e con essa in vivo rapporto.

Konstantin Baršt
Disegni e calligrafia di Fëdor Dostoevskij
a cura di Stefano Aloe, traduzione di Giorgia Pomarolli
Lemma Press, 2017, pp. 468, € 99

vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante e si occupa di critica letteraria.
Ha pubblicato una monografia dal titolo “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij" (Franco Angeli 2010), e “Metafisica del sottosuolo. Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze 2020) oltre a svariati articoli su riviste come “Kaiak-A philosophical Journey”, “Il Maradagàl”, “Kainos”. Suoi racconti si trovano nella raccolta “L’ultimo sesso al tempo della peste” (NEO 2020) e nell’antologia “Gli appetiti del pangolino” (Exlibris 2021) e un suo scritto satirico è stato pubblicato sul blog “Bottega di narrazione” di Giulio Mozzi. Gestisce il blog letterario “Bibliovorax”, collabora con la pagina Cultura Italia-Russia ed è direttrice di collana Augeo-dialoghi di scienze umane per la casa editrice Divergenze.

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