È in libreria Napoli. Contro il panorama di Giovanna Silva e Lucia Tozzi (nottetempo, pp. 139 ill. a col., € 18). S’incontrano così le prospettive, diverse ma alleate, di una fotografa chirurga, che negli ultimi anni ha notomizzato la sua Milano (con la mostra dal titolo saviniano City, I listen to your heart, alla Triennale l’anno scorso) e la non sua Roma (col libro Never Walk in Crowded Streets; c’è da sperare che quando Giovanna dedicherà un libro suo a una città americana lo intitolerà, finalmente, nella sua lingua d’origine), e della studiosa di architettura e urbanistica dall’intransigenza più radical (memorabile, e apocalittico sino a posizioni per me poco condivisibili, il suo Dopo il turismo). Alleate, si capisce, contro «il vecchio e il nuovo pittoresco» (così nel risvolto), quello d’en haut della tradizione del Grand Tour e quello d’en bas di Gomorra e suoi derivati: schierando le esperienze passate e recenti di architettura civile, che a Napoli hanno installato un laboratorio permanente, contro quella che Tozzi chiama l’«urbanistica neoliberista» del nostro tempo. Scrive all’inizio del suo testo (del quale, per cortesia sua e dell’editore, proponiamo qui l’ultimo capitolo): «Giovanna Silva fa come Thomas Jones. Alla fine del Settecento, quando Napoli era una tappa fondamentale del Grand Tour e gli artisti accorrevano da tutta Europa per dipingere le eruzioni spettacolari del Vesuvio e le vedute del golfo a volo d’uccello, riempiendole di pittoreschi popolani e dettagli stucchevoli. Thomas Jones come un punk occupava la sua tela con il muro scrostato del palazzo di fronte alla sua stanza e una striscia di cielo». Ecco. Non ho certo le competenze tecniche per valutare, nel suo risoluto praticismo, la proposta di Lucia di fare, dell’area industriale dismessa di Bagnoli, la Tempelhof di Napoli; ma non vedo motivo di resistere al desiderio di costruire con lo sguardo e con l’immaginazione, se non coi decreti e le ruspe, una città diversa.
Andrea Cortellessa
Il problema dello stato garante del benessere sociale è quello della sua mancata realizzazione, non già quello del suo declino o del suo superamento.
Federico Caffè, In difesa del welfare state
Per quanto mi riguarda, meglio non fare niente che fare male.
Finché c’è abbandono c’è speranza.
Vitaliano Trevisan, Works
La frustrazione aleggia non solo tra gli architetti e gli ingegneri, ma anche tra tutti gli smaniosi adepti del fare, e in generale tra gli attoniti spettatori del grande spettacolo globale della crescita urbana neoliberista. Cooptati in una gara perenne tra metropoli situate in regioni, stati e persino continenti diversi, i cittadini si sentono sminuiti, addirittura deprivati, se sul territorio non atterrano nuovi quartieri smart e green, musei ibridi e polifunzionali, torri iconiche in grado di alimentare il proprio “orgoglio”. Non è più una pura questione di traffici locali, di affari e appalti da spartire tra la borghesia consolidata e i nuovi, più o meno loschi, attori sul mercato, e neppure solamente il solito desiderio di progresso e modernità. A muovere le passioni tristi di questa non piccola parte di napoletani, l’odio per quello che chiamano “immobilismo” e il complesso di inferiorità nei confronti di Milano, la città che è riuscita a farsi passare per modello in Italia, è la patetica rivendicazione di una sorta di diritto alla coolness, che essi immaginano di potere soddisfare per mezzo di un dinamico flusso di progetti dai nomi demenziali.

Il grande imputato, l’oggetto principe di un così profondo risentimento, è il piano regolatore del 2004, esito di un lavoro decennale impostato da Vezio De Lucia durante il primo mandato di Bassolino, mentre ricopriva il ruolo di assessore. Un piano che è effettivamente e apertamente fondato sul vincolo, contro il consumo di suolo e a tutela del tessuto urbano storico – definito dall’estensione della città fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che occupa il 20% circa del territorio comunale – e delle aree agricole e a verde, che con il nuovo Parco Regionale Metropolitano delle Colline raggiunge la superficie di 4750 ettari, il 41% del totale. Anche se il prg destinava una quota equivalente alla trasformazione urbana, concentrata soprattutto nell’area est, fu considerato – e lo è ancora – un piano eretico perché conservatore, addirittura reazionario.
Il suo contenuto più odioso, agli occhi dei cosiddetti innovatori, è l’idea che la trasformazione debba continuare a essere pianificata e governata dall’istituzione pubblica e in particolare dal Comune, dai suoi politici eletti e dai suoi funzionari. E questo, nell’ottica della governance neoliberale (che corrisponde pienamente all’idea di progresso cosmopolita cui i suddetti innovatori ambiscono ad aderire), è il peggiore dei mondi possibili, perché le decisioni devono, al contrario, essere concertate con gli stakeholder: il che, tradotto nella pratica urbanistica, significa che il Comune avalla e difende gli interessi degli sviluppatori e delle società immobiliari accollandosi anche l’onere di organizzare la sceneggiata di un falso “ascolto” degli abitanti spacciato per partecipazione.

Lo scontro tra queste due posizioni sul governo del territorio non è banale, né riconducibile a piccole controversie locali. A Napoli è stata vinta, sorprendentemente, l’ultima battaglia dell’urbanistica “riformista”, quella incarnata da De Lucia insieme a Edoardo Salzano più di ogni altro, che ha lottato per più di mezzo secolo contro la rendita fondiaria in nome dell’ambiente e di quella che oggi chiamiamo giustizia spaziale. Ma le conquiste ottenute sul fronte della casa, della pianificazione democratica e della tutela negli anni settanta, grazie alla convergenza con le lotte sociali, sono state distrutte a una a una, legge dopo legge, dall’avvento dell’urbanistica neoliberista. Per mezzo di vere e proprie controriforme si è riusciti a fare passare lo smantellamento del welfare abitativo e una deregolamentazione che spiana la strada alla grande e media proprietà immobiliare, travolgendo le vite degli abitanti meno ricchi, per una conquista dei cittadini contro l’autoritarismo urbanistico. E nel periodo di massima affermazione di questo nuovo corso, cioè tra gli anni novanta e l’inizio del millennio, Napoli ha messo a punto, controcorrente, un piano che inceppa la macchina della rendita.
Il capitale non l’ha presa bene. In un momento storico in cui il potere e il prestigio delle società di real estate non hanno fatto che aumentare, in cui i loro amministratori delegati illustrano il futuro della città come se fossero il sindaco o l’assessore, l’imposizione di regole è considerata un affronto da punire. Gli investimenti sono stati spostati altrove, in contesti più “attrattivi” perché più condiscendenti.
Nessuna città nell’ultimo trentennio ha potuto ignorare o sfidare il nuovo principio della concorrenza: chi voleva crescere, trasformarsi o anche solo manutenere le costruzioni, le infrastrutture, i parchi e i servizi non aveva più a disposizione finanziamenti pubblici diretti, ma doveva dimostrarsi capace di catturare fondi privati, curare la propria reputazione di città aperta a ogni richiesta, docile e accogliente, o meglio facilitante, e praticare il classico gioco al ribasso sugli oneri.

L’area dell’ex Italsider a Bagnoli è uno spettacolare terrain vague, un inaccessibile ma ben visibile monumento al thatcheriano tina. There Is No Alternative: chi pretende di immaginare, che dico, di pianificare un’alternativa alla solita sceneggiatura della smart city funzionale alla rendita è condannato all’immobilismo e alla damnatio memoriae, perché è su di lui che ricadranno le colpe e le responsabilità dei progetti non realizzati, della stasi economica, del futuro negato. Non sul demenziale modello di sviluppo urbano che ci costringe ad accettare, per ogni metro quadro di erbetta, decine e centinaia di metri cubi di case e alberghi di lusso, inutili uffici vetrati, obsoleti centri commerciali e poli tecnologici di dubbia consistenza scientifica. Non sulla politica del debito che costringe le pubbliche amministrazioni a tagliare il personale oltre ogni ragionevole misura, e a ridursi così in uno stato di impotenza gestionale. Non sulla privatizzazione dei servizi e del welfare, che ormai con ogni evidenza è una piaga sociale e una delle prime cause della disuguaglianza crescente nella popolazione e, in campo urbano, del solco sempre più profondo tra centro e periferie.
E la cosa più triste è che gli argomenti centrali di questa campagna di discredito non appartengono solo al ceto politico-tecnico affarista – cui è rassicurante attribuire tutti i mali dell’umanità – ma sono il frutto della migliore critica di matrice anarchica, postmoderna e poststrutturalista. L’identificazione della pianificazione con l’esercizio di un controllo autoritario e con la repressione della progettualità spontanea degli individui e del mercato risale, come documenta Anthony Fontenot nel suo brillantissimo libro Non-Design. Architecture, Liberalism and the Market, ai più venerati critici e teorici dell’architettura e dell’urbanistica. Da Vita e morte delle grandi città di Jane Jacobs (1961) a Non-Plan: An Experiment in Freedom di Reyner Banham, Paul Barker, Peter Hall e Cedric Price (1969), dalla rivolta del Team x contro il ciam nel 1953 fino ai saggi cult sulle città senza piano per eccellenza, Los Angeles e Las Vegas, dello stesso Banham e di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour, sono state le avanguardie a descrivere i pianificatori come veri e propri dittatori dello spazio. In un complesso gioco di rimpallo ideologico, i “ribelli” dell’architettura nel Dopoguerra assorbivano le idee antisocialiste propugnate dai pensatori neoliberali, fondate sulla teoria della complessità e sull’ordine spontaneo scaturito dal caos degli interessi individuali, e le rielaboravano sotto forma di passione per l’architettura vernacolare antica e moderna, per l’organizzazione spaziale emersa dalle antiche tradizioni rurali ma anche dalle forme più triviali del consumo contemporaneo, come le mitizzate insegne al neon della Strip di Las Vegas. E dagli anni settanta i think tank neoliberali oramai consolidati si appropriarono a loro volta delle idee delle avanguardie anglosassoni – ma anche della critica anarchica di Colin Ward e di Ivan Illich, delle potentissime teorie foucaultiane, delle utopie realizzabili di Yona Friedman, del Corpo senza Organi di Deleuze e Guattari – per fare a pezzi le conquiste politiche dell’urbanistica democratica e la cultura del welfare abitativo, e diventare nuovamente padroni delle città.

Da parte degli intellettuali l’attacco al razionalismo e al centralismo era condotto integralmente sul piano della libertà, mentre lasciava in ombra, come se non avesse nessun rilievo, quello che era lo scopo politico della pianificazione urbana secondo i socialisti, e cioè l’uscita dal sistema della competizione. Le loro fascinose teorie sono invece servite ad Hayek e ai suoi seguaci proprio a riportare il regime dei suoli e lo sviluppo urbano e territoriale al dominio della “mano invisibile” del mercato.
Napoli assomiglia oggi al set di un film di Tarantino, in una delle sue classiche scene di stallo alla messicana: nessuno può muovere un passo perché tutti sono reciprocamente sotto tiro, e nessuno è innocente. Non si può dire, infatti, che lo stesso piano regolatore sia scevro da difetti. La cosa più grave è che le sue previsioni hanno assecondato e benedetto la conversione al turismo della città, o quantomeno della sua parte centrale e costiera, una scelta che già negli anni novanta veniva riconosciuta come nefasta a Venezia o Firenze, ma anche a Napoli dalle migliaia di famiglie operaie coinvolte e da una sinistra che fu chiamata conservatrice. Certo, la deindustrializzazione non ha riguardato solamente Napoli, ma qui dal 1971 al 2001 il comparto industriale ha perso il 62% dei lavoratori, a fronte di un calo in Italia del 5%. L’urbanistica non può, da sola, contrastare una politica economica di grande scala, ma le sue scelte possono favorirla o ostacolarla. Senza dubbio la fortissima cultura ambientalista che aveva sempre permeato l’urbanistica riformista di Vezio De Lucia, le storiche battaglie condotte insieme ad Antonio Cederna e Antonio Iannello sono state determinanti per la chiusura dell’acciaieria e per la successiva decisione di spostare qualsiasi altra attività produttiva a Napoli Est o in aree interne meno pregiate. Nel 1995 l’inclusione del centro storico di Napoli nel patrimonio unesco ha fatto il resto, reinserendo la città a pieno titolo tra le tappe imperdibili del Grand Tour contemporaneo.
Ormai sappiamo in modo inequivocabile che il turismo è un’industria più pesante delle acciaierie, che innesca processi molecolari e quasi irreversibili di trasformazione urbana sostituendo le abitazioni con b&b, i negozi di quartiere con pizzerie e bar, il lavoro salariato con un precariato selvaggio, e alimentando la gentrificazione e l’espulsione degli abitanti poveri dal centro. Il turismo tende inoltre al monopolio – è incompatibile con altre forme di sviluppo economico e colonizza ogni forma di produzione culturale, subordinandola all’attrattività – e rafforza la rendita. Ed è un’economia fragilissima, esposta a crisi imprevedibili.
Napoli ci è dentro fino al collo, ma la testa è ancora fuori dall’acqua. Il suo centro storico, che aveva resistito allo spopolamento persino dopo il terremoto, si sta gentrificando velocemente con Airbnb e le altre piattaforme e catene legate al turismo. Ma lo stallo alla messicana ha tenuto ancora lontane le società finanziarie texane, emiratine o cinesi che stanno comprando pezzo dopo pezzo Venezia, Firenze, Roma, Milano, Londra, Parigi, Berlino, Barcellona, Atene, Lisbona.
L’urbanistica della tutela e della pianificazione pubblica, fino a pochissimo tempo fa caduta in disgrazia, comincia a essere studiata e considerata con altri occhi, mentre si moltiplicano i movimenti e gli studi internazionali che contestano l’egemonia della rendita e della competizione globale tra le città.

Naturalmente i grandi processi storici in atto non inducono all’ottimismo: la ricchezza globale continua a concentrarsi a ritmi sempre più sfrenati e il real estate continua ad assumere un ruolo sempre più centrale nell’economia e non vede l’ora di approdare nuovamente a Napoli. Ma la tenuta ideologica della crescita urbana infinita e del turismo come risorsa illimitata comincia a mostrare delle crepe sempre più imponenti, il che rende possibile una rilettura radicale dell’ultimo periodo.
Chi ha seguito i flussi, chi ha conquistato le prede migliori vive oggi una popolarità straordinaria, ma ha attivato una macchina della crescita che non è più in grado di dominare. La proprietà dei suoli, degli edifici, delle società e delle fondazioni private che esercitano potere decisionale sulla città appartiene a entità poco conosciute e scarsamente controllabili, che esautorano le autorità pubbliche e gli organi elettivi.
Il non fare, lungi dal somigliare a una lunga malattia simile alla morte, ha salvato per qualche anno Napoli da questa violenza strutturale. Ha tenuto in vita per lei la possibilità di un’alternativa, che potrebbe essere anche l’inizio di un nuovo modello meno demenziale e disuguale di sviluppo. La temporanea impotenza dei redditieri potrebbe tradursi nel progetto di un rinnovamento urbano impostato sul pubblico invece che sul privato, sulla manutenzione ordinaria e straordinaria di quel grandissimo patrimonio di case popolari, parchi e infrastrutture che la città ha ereditato dagli anni keynesiani invece che sulla costruzione di case di lusso e alberghi e su un rivoluzionario potenziamento delle attività produttive e agricole in grado di ridimensionare la dipendenza da un’economia fragile come quella turistica.

Il lungo abbandono che la Napoli più interna, meno ricca e spettacolare ha subito in questi decenni ha prodotto buche nelle strade ed eroso le architetture, ma ha prodotto anche un Terzo paesaggio – nel senso definito da Gilles Clément – di notevole estensione: ettari di piante e boschi interi hanno popolato valloni, pianure, dirupi. L’area ex Italsider, naturalmente, ma anche l’immenso territorio sovrastato dai piloni della tangenziale, e molti dei parchi chiusi al pubblico, come il Falcone e Borsellino di Pianura o la collina del Parco Troisi a San Giovanni a Teduccio sono invasi da una vegetazione rigogliosa che non va rasa al suolo, ma gestita e resa accessibile con interventi minimali. Come sostiene Antonio di Gennaro, agronomo, uno dei più acuti interpreti del territorio campano nella sua complessità, da qui potrebbe partire un vero grande progetto di forestazione urbana, impostato sulla cura e l’accessibilità di questi “parchi involontari” e non sulla messa a dimora spettacolarizzata di alberelli in mezzo al cemento.
Bagnoli potrebbe diventare per Napoli quello che l’ex aeroporto di Tempelhof è stato per Berlino: un’enorme area pubblica accessibile subito, senza la mediazione di bonifiche superflue, appalti, concorsi, lavori, sviluppatori, banche, fondi stranieri, comunicatori. Potrebbe persino diventare un paradigma di azione diretta e sostenibile da applicare non solo a tutte le altre aree naturalizzate, ma anche ai quartieri di edilizia pubblica. Invece di subordinare l’iniziativa a grandi episodi una tantum di rigenerazione urbana, si possono progettare interventi continui nel tempo di ristrutturazione leggera, di adeguamento degli spazi pubblici e delle attrezzature, di efficientamento energetico, evitando l’imbarazzante pratica della tabula rasa, dell’abbattere e ricostruire.
Napoli potrebbe liberarsi del pittoresco e cercare di fermare l’emorragia di abitanti che stanno scappando a gambe levate da una città dove possono lavorare solo come camerieri o affittacamere. Potrebbe attirarli per mezzo di una gamma di nuovi desideri meno banali di un’apericena di lusso sul mare.
È una possibilità remota, ma è ancora concepibile grazie alla lunga deviazione dal corso degli eventi. In genere gli ibernati, nei film di fantascienza, si trovano coinvolti in una grande quantità di disavventure in contesti distopici – forse non troppo lontani da quelli catturati dallo sguardo di Giovanna – ma alle volte riescono a cambiare il corso della storia.
In copertina: particolare di uno scatto di Giovanna Silva