Una Biennale sotto la duplice, sinistra insegna della pandemia e della guerra in Europa – il padiglione russo chiuso e vuoto come segno inequivocabile del ritorno della Storia, i lutti, la paranoia, l’anomia degli scorsi due anni ancora ben vivi nella memoria. A contrasto, l’esposizione internazionale curata da Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, si presenta come un’indagine intorno a un tema-feticcio del decennio prima – la politica e l’estetica dell’identità –, oggi fatalmente eclissato dall’irruzione di eventi cataclismatici che trasformano in forme impreviste e violente le relazioni tra individui e comunità, tra narrazione e verità, tra umanità e natura. Dalla sfasatura tra progetto e attualità vien fuori un’edizione in cui l’arte risulta troppo spesso afona, evasiva, senza mordente, costretta com’è a farsi esempio pedagogico e pratica virtuosa.
Il caso più emblematico è in questo senso il padiglione americano e l’installazione Sovereignty di Simone Leigh, Leone d’oro 2022, i cui motivi-guida – una denuncia della perdurante logica coloniale, del razzismo e dei suoi meccanismi di esclusione, la rivendicazione della blackness come matrice culturale alternativa – sono annunciati sin dall’esterno, dissimulato da una copertura posticcia di legno e paglia, polemica allusione ai famigerati padiglioni “africani” dell’Exposition Coloniale di Parigi del 1931. Ma la scenografia e soprattutto le ieratiche, massicce sculture in bronzo di Leigh, con la loro trama di riferimenti iconografici, storici, antropologici, con tutto il loro goodwill politico, risultano inerti, artisticamente reazionarie, affette come sono da un monumentalismo pompier del tutto privo di forza di scandalo. Le grandi figure applicano i precetti senza tempo di un naturalismo dubbio e subito consumabile, una fuga in un passato consolatorio e inoffensivo. Sono gesti di compiaciuta, narcisistica autorappresentazione.
Introdotta da un’altra figura monumentale di Leigh e dal grande Elefante a grandezza naturale di Katharina Fritsch – allusione, suppongo, alla dualità alternativa donna/animale su cui vorrebbe riflettere la mostra – la Biennale 2022 esibisce il suo debito nei confronti di una proteiforme theory in cui si combinano e si saldano teorie dell’identità, studi postcoloniali, decostruzionismo storico, attivismo ecc. Tendenze che sembrano oggi monopolizzare in senso “presentista”, specie nel mondo anglofono, tanto la discussione in ambiti un tempo detti umanistici, quanto, e in modi ben più radicalmente influenti in senso politico e sociale, la sfera dei social media, il cui nuovo potere di condizionamento conformista è il vero convitato di pietra di una manifestazione sempre attenta a mai convocare la violenza, l’insanabile contraddittorietà dei conflitti reali.

La contestazione dello spazio maschile dell’arte condotta in maniera eclatante da Alemani dovrebbe innescare non solo un benefico allargamento del canone a figure di artiste sinora poco considerate ma soprattutto un’ambiziosa riscrittura in chiave identitaria delle possibilità e dei limiti delle pratiche di creazione, una loro purificazione e “moralizzazione” dopo il tramonto, vero o presunto, del monopolio dell’artista-demiurgo. Obiettivo verso cui confluiscono dunque la richiesta, confusa ma certo indifferibile in epoca di global art, di abbandonare i vecchi paradigmi “eurocentrici”, gli imperativi della correttezza politica e della rappresentazione delle minoranze – con i loro inesorabili corollari di censura, autocensura e furore iconoclasta –, e l’esigenza, insieme ingenua e aggressiva, di reintegrare un “senso” (o un’“origine”) a esperienze artistiche oggi minacciate (e sedotte) dall’inflazione della creatività generica. Istanze queste peraltro convergenti, ed è un tratto paradossale, con gli infallibili meccanismi di valorizzazione di un sistema dell’arte centrato sul dominio di poche, grandi gallerie e istituzioni pubbliche e private, tutte operanti nel mondo “occidentale” a trazione americana.

Proprio su “Antinomie”, Carlo Falciani e Laura Lombardi hanno illustrato con acutezza qualche mese fa i limiti di questa visione, in cui la critica foucaultiana all’istituzione e al linguaggio degenera in iperbolica e sommaria liquidazione di ogni complessità, di ogni spazio di autonomia e invenzione per l’arte (si veda in questo senso la sintomatica e arroventata polemica contro ogni forma di “appropriazione”). Ne sono tratti ricorrenti la riduzione manichea della vicenda culturale dell’Occidente a millenario progetto di dominio e disumanizzazione, la moralistica superficialità e la mancanza di pertinenza storica dei giudizi, e in particolare la coriacea indifferenza a ciò che l’opera d’arte specificamente fa in quanto esperienza individuale e collettiva. In particolare, la contrapposizione tra un elemento negativo, di volta in volta identificato con l’Europa, con il Rinascimento, con il razionalismo illuminista, il patriarcato (o tout-court col “maschio bianco”), e le culture “altre” – identificate in chiave vittimaria e in un’ottica solo superficialmente decoloniale – non solo finisce per oscurare quanto la modernità occidentale ha elaborato a carissimo prezzo per riconoscere la propria terribile ambivalenza e la violenza mortifera intimamente connessa al proprio progetto, ma finisce per negare proprio al soggetto colonizzato la sua autonoma capacità di rielaborazione, di resistenza e di infiltrazione nei confronti della cultura dominante. La possibilità insomma di contribuire a un futuro che non consista in una riverniciatura dello stesso paradigma anarco-liberista che proprio il mondo dell’arte incarna con infallibile dedizione.

Da mesi la macchina dell’iperinformazione rilancia numeri e “contenuti” della mostra veneziana: la schiacciante prevalenza di artiste, le personalità dimenticate o rimosse, gli obbligatori grandi Temi e Interrogativi. Al critico spetta però un compito diverso, riflettere non solo su ciò che c’è, ma anche su ciò non c’è o non è immediatamente visibile. Come un aspetto di solito trascurato, benché di tutta evidenza: i cartelli e le didascalie, i “testi di sala”, fondamentali per orientare la disposizione mentale e percettiva con cui il visitatore percorre lo spazio di un’esposizione. A partire dal testo di apertura, dove si parla di strategie di “re-incanto”, di “un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi”, di “comunione con il non-umano”, fino alle frasi colte nei cartelli posti accanto alle opere, dove il più legnoso gergo accademico incontra il tono suadente dei professionisti del copywriting culturale. Il risultato sembra generato da un bot addestrato a ripetere i luoghi comuni e le parole chiave della theory, in un’incessante riproposizione di concetti che poco o nulla dicono delle singole opere. Un effetto reso ancora più irritante dalle pessime traduzioni italiane delle didascalie originali inglesi, a riprova di quanto difficoltoso sia trasporre in una lingua e in un contesto culturale diversi espressioni e parole d’ordine che agiscono più come segnali di appartenenza comunitaria che come indispensabile servizio agli spettatori. Come tiranniche guide turistiche, le didascalie appaiono insomma alla costante ricerca di una quadratura ideologica, di un disciplinamento retorico il cui effetto è sottrarre alle opere capacità di produrre vera sorpresa, vera, problematica rivelazione.

Per molti versi la Biennale 2022 ricalca il modello dell’edizione curata da Massimiliano Gioni nel 2013, la prima (dopo quella del centenario curata nel 1995 da Jean Clair) a proporre un modello di mostra enciclopedica arricchita dalla presenza di outsiders e personalità meno note del passato. La traccia più evidente di questa influenza sono le cinque Capsule dedicate a campionature sin troppo concise di figure femminili, da personalità marginali (la musa surrealista Nadja; la medium Eusapia Palladino – la cui sorprendente inclusione è interamente effetto delle straordinarie performance che le aveva dedicato Chiara Fumai), o poco note, come l’interessante Kiki Kogelnik, con le sue figure evocanti radiografie o schemi meccanici di automi), sino ad artiste di ampia notorietà, ad esempio Florence Henri, Maya Deren, Carol Rama, Rebecca Horn. Con tutto il loro fascino, le Capsule appaiono però in sostanza gallerie di “casi” singolari, privi di contesto e spesso di difficile decifrazione.

A fronte del dispiego di un vasto apparato di persuasione, le scelte di Cecilia Alemani nella mostra appaiono d’altro canto caute e conservatrici, come testimoniano le pochissime opere di soggetto potenzialmente controverso: dominano il lirismo, l’autobiografia, un certo gusto primitivista, così come la pittura, il disegno, la figura antropomorfa; ampio spazio è dato alla manualità, a tecniche e tradizioni “minori”, al bricolage, a forme di escapismo e di introversione soft. Non molte sono le opere in dissonanza con questo clima. Alcune prendono spunto da tematiche “di attualità”, come la violenza nel contesto familiare. Con esiti molto diversi: il bel lavoro video di Diego Marcon The Parents’ Room è immerso in un’atmosfera disturbante e insieme emotivamente straniata. Le fattezze dei quattro protagonisti sono nascoste da maschere di lattice che danno loro l’aspetto di figure artificiali, immerse in un freddo e monocromo aldilà solo in apparenza placato. Il canto del Padre assassino, della Madre e dei Figli morti, una nenia dalle cadenze agghiaccianti, è una delle poche cose da ricordare di questa Biennale. Il video di Janis Rafa, Lacerate (2020), presentato esplicitamente come riflessione intorno alla violenza maschile, è al contrario un lavoro dalla confezione sontuosa e sovraccarica. I suoi riferimenti alla storia della pittura barocca (l’iconografia sanguinolenta di Giuditta e Oloferne, le nature morte, i tableaux di soggetto venatorio) e al cinema (Tarkovskij anzitutto), le sue metafore animali (la cacciagione, i cani famelici), danno però la sensazione di trovarsi di fronte più che altro a un raffinato e autoconsapevole esercizio di stile. Ben più intenso e viscerale l’approccio di Paula Rego, artista di grande personalità e lunga vicenda creativa scomparsa a 87 anni all’inizio di giugno. I suoi quadri e soprattutto i retablos con figure tridimensionali e parti dipinte restituiscono lo scenario familiare come teatro fantasmatico e convulso in cui si combinano desiderio, perversione, potere, sopruso.

Altri lavori si presentano privi di una cauzione tematica così precisa, ad esempio la suggestiva coreografia di Alexandra Pirici Encyclopedia of Relations (2022), con le improvvisazioni di gruppo e il canto a mezza voce dei performers; l’installazione Untitled di Robert Grovesnor, con i suoi sottili esercizi di dissociazione tra oggetto e funzione; la videoinstallazione di Ali Cherri Of Men and Gods and Mud (2022), con la sua vicenda di fatica e resistenza. Molto più spesso i lavori esposti riecheggiano tradizioni folcloriche e popolari, ovvero rivisitano certi stilemi della pittura postmodernista e soprattutto motivi dell’immaginario surrealista, specie nelle sue manifestazioni pittoriche più “magiche”, trasognate e facilmente replicabili. Con risultati di rado degni di nota tranne alcune eccezioni, ad esempio i dipinti di Cecilia Vicuña, le carte di Sandra Vásquez de la Horra o le intricate visioni biomorfiche di Emma Talbot.

Se sin dal titolo di questa Biennale, tratto da un libro di Leonora Carrington, il surrealismo viene rivendicato come punto di riferimento, esso è però depurato di ciò che Georges Bataille avrebbe chiamato la “parte maledetta” – quanto cioè supera il limite della ragione discorsiva, l’informe, l’eccesso, il negativo – e che costituisce il fondamento del suo attacco al logocentrismo della tradizione occidentale. Una rimozione necessaria, data la sua incompatibilità con la pedagogia etica richiesta a un’arte cui si attribuisce il compito di “rappresentare” i molti volti del soggetto atomizzato dell’epoca neoliberale, l’Io perfettamente autonomo in cui si realizza, come ha notato su “doppiozero” Rocco Ronchi, l’utopia di una riduzione integrale dell’esistenza associata alla forma del contratto e del mercato.

La Biennale di Cecilia Alemani normalizza in definitiva la facile tentazione a ridurre l’esperienza artistica a strumento di superficiale, edificante riparazione, di conferma narcisistica e di nominale redistribuzione del potere, funzioni del tutto omogenee alla riproduzione del sistema cui in apparenza si vorrebbe opporre. Ma in fondo a ogni ortopedia identitaria si intravede la paura che l’opera d’arte non sia davvero un’“espressione”, un meccanico rispecchiamento di un’identità ideale, ma piuttosto il suo vero specchio, che faccia emergere cioè quanto resta occluso allo sguardo dello stesso artista, ciò che non si può far vedere. È un atteggiamento in cui traspare una fondamentale diffidenza nella specifica capacità dell’arte di penetrare la scorza dell’identità – il processo di disappropriazione, di inappartenenza, per usare termini cari a Giorgio Agamben – grazie alla quale l’opera si pone come evento che resiste appunto all’espressione per mostrare invece gli slittamenti e l’intima fissurazione del soggetto per far emergere quanto di ambivalente, di inammissibile, vi è in noi stessi e nel mondo, di far intravedere ciò che rimane precluso e continua a far male.
The Milk of Dreams / Il latte dei sogni. Biennale Arte 2022
a cura di Cecilia Alemani
Venezia, 23 aprile-27 novembre 2022
In copertina: Katharina Fritsch, Elephant, 1987