‘Tenet’. Futuro e presente in conflitto

16/06/2022

È uscito nella collana «Dell’espressione» di ETS (pp. 140, € 13) Cinema e «parole» di Nunzio La Fauci, linguista imaginifico da poco prodigo figlio di Sicilia. Per chi da sempre viva il cinema come pura fantasmagoria, e ripeta l’adagio hitchcockiano «gli attori sono bestiame» (aggiungendo che le parole da loro pronunciate sono, quando va bene, proficuo mangime), risultano deliziosamente perverse queste analisi di film più o meno canonici come illustrazioni, è il caso di dire, di giochi linguistici. Il che risulta ovviamente appropriato quando il tema sia proprio la comunicazione verbale (o non verbale, come nel caso di Arrival di Denis Villeneuve) ma soprattutto sorprende quando, così facendo, coglie l’anima profonda di un film (è il caso per esempio di Marx può aspettare di Marco Bellocchio). L’effetto è talora di consenso, talaltra di dissenso (esecrabile in particolare l’auctoritas attribuita al disutile Mereghetti, capace di dare filistee due palle e mezzo a Christopher Nolan e populiste quattro a Totò e Peppino), ma non questo conta; è l’originalità dell’analisi a conquistare. Singole osservazioni sono persino rivelatorie, come quella sullo stile (spesso anche fastidiosamente, aggiungo) epigrafico di Nanni Moretti, desunto dalla disciplina professata da suo padre Luigi (che spiavo percorrere pensoso le scale della «Sapienza», ricordo, quando studente ero acritico ammiratore del figlio cineasta). Sostiene La Fauci di non aver selezionato i titoli da analizzare per la loro qualità cinematografica, ma non è un caso, sospetto, che sia Nolan l’unico autore titolare di due capitoli (l’altro è sul sublime Dunkirk). Il fatto che non abbia granché amato il non abbastanza fantasmagorico Tenet non mi impedisce di vedere come sia questo capitolo, et pour cause, il non solo palindromico centro del libro di La Fauci. Per la cortesia dell’autore e dell’editore lo proponiamo qui.

Andrea Cortellessa

Vera Pieroni, rielaborazione grafica da Tenet

Dal principio dell’Evo moderno e per molti secoli, presente e futuro sono parsi muoversi nella stessa direzione. L’armonia non era forse sempre perfetta, ma non c’era presente che non preludesse di buon grado al futuro, che non vi si proiettasse fiducioso. Non c’era futuro che non facesse da orizzonte delle coerenti speranze del presente, che non le benedicesse come fauste. Tra le ideologie moderne c’erano differenze di superficie, ma tutte, liberali o libertarie, come alcune si sono pretese, o totalitarie, come altre si sono annunciate o, sovente, rivelate, condividevano nel loro presente l’idea di un “sol dell’avvenir”.

Da un po’, da quasi mezzo secolo a volere essere prudenti, ma a guardare i primi segni certamente ancora da prima, quella concordia si è spezzata e, dopo una fase iniziale di caute prese di distanza, poi di rivendicazioni e di rimbrotti via via più espliciti fino ai rabbiosi insulti, futuro e presente sono passati alle vie di fatto e si trovano adesso in uno stato di aperta, feroce belligeranza.

C’è un’immagine immediata e loquace dello stato del conflitto. A fare da prosopopea del futuro, eletta alla figura e alla funzione dalla comunicazione globale, è stata negli ultimi anni Greta Thunberg, una giovane svedese, iniziatrice del movimento “Fridays for Future”. Da lei, come da un’invasata vestale, sono venuti anatemi, accompagnati da sguardi di collerica ostilità, se non di odio viscerale nei confronti di coloro che vivono colpevolmente nel tempo corrente.

Costoro sono a loro volta terrorizzati da un futuro che provano a esorcizzare. Ma intrappolati nella gabbia di una temperie da cui non si può ovviamente uscire, si attendono ormai solo devastazioni e morte dal tempo che viene e, come arma estrema, per salvare il mondo ma non se stessi né ovviamente la specie, hanno quasi smesso di procreare: trasparente forma di suicidio dolce e differito, per individui cui non si può fare certo colpa di non avere la tempra di un Catone Uticense.

Il morbo colpisce soprattutto le aree del mondo che dicono di sé stesse di essere le più avvertite, le più consapevoli e che si percepiscono come le più colpevoli, alla luce del loro passato, di una storia incancellabile e inespiabile. È il consueto paradosso della consapevolezza: capita infatti, nei destini tanto individuali, quanto collettivi, che la salvezza consista nel non (pretendere di) sapere, come pare sia in effetti ancora costume in quelle aree del mondo al momento giustamente meno sensibili al senso di colpa, oltre che meno credule agli infausti vaticini.

Nella lotta senza quartiere tra futuro e presente, un osservatore spassionato ha difficoltà a dire chi abbia intrapreso il conflitto, chi sia l’aggressore e chi l’aggredito. Si è d’altra parte coscienti che circola in proposito una facile risposta, che è a ben vedere essa stessa un’arma in uso nel conflitto. Le apparenze dicono infatti di una responsabilità del presente (e di un passato più o meno prossimo). A parte il fatto che non sempre ciò che appare è ciò che è, a indicare le colpe del presente, urlando a piena voce, è tuttavia il futuro, cioè l’altra parte in causa. Sotto tutte le forme e in tutti i campi, ma soprattutto per quanto riguarda l’ambiente, il futuro proclama che è il presente a togliergli lo spazio vitale, a privarlo di ogni possibilità di esistenza, con le sue pratiche, naturalmente eredi delle passate, se possibile ancora più colpevoli. Il presente opera malamente, dice il futuro, e gli procura danni esiziali. Ma non sarà vero, sopra una scala diversa, anche il converso?

Il futuro fiacca in effetti all’estremo la fibra del presente: per esistere, afferma, ha da distruggere quella fibra, a meno che, arrendendosi al futuro, il presente non rinneghi se stesso e si pieghi integralmente a servire il futuro, come mai nella storia umana si è in effetti verificato. Se dunque il presente vince o pare vincere qualche battaglia, è una vittoria di Pirro. L’esito della guerra è già chiaro: vincerà il futuro, che, come capita quasi sempre ai vincitori predestinati, dispone inoltre del vantaggio ideologico di chi presenta la sua violenza come giusta, perché necessitata dal sacrosanto diritto di una difesa.

Che le cose stiano come proclama il futuro è ovviamente lungi dall’essere verificabile. Il futuro si esprime per previsioni, se non per profezie: questa è la sua forza. La civiltà in cui, come si è detto, il conflitto è nella sua fase parossistica, dispone tradizionalmente di un metodo per la verifica dei fatti iscritti nel tempo, ma solo nel tempo passato. È il metodo storico-filologico, peraltro praticato da un numero sempre decrescente e ormai esiguo di cultori e di cultrici, via via più malaccetti perché più estranei all’ideologia del tempo.

Le procedure storico-filologiche sono grosso modo in grado di confermare o di smentire una ricostruzione dei fatti, un loro resoconto, ma sono impotenti con le profezie. Con i mezzi di cui dispone questa civiltà, del futuro non si può fare storia, cioè osservazione, né filologia, cioè accertamento delle testimonianze. Se ne possono fare una scienza divinatoria e priva di storia e un tipo particolare di invenzione detta fantascienza, science fiction. Degno di nota è come la designazione (o la qualificazione) associ l’irrealtà alla scienza, cioè a quanto l’Evo moderno prese a cardine dell’ordine ideologico della sua verità, cioè del suo discorso sulla realtà.

A questo punto è forse opportuno scansare qualche equivoco ed evitare che queste pagine siano sospettate dell’infamia oggi correntemente detta negazionista. Qui non si entra per nulla nel merito delle profezie e delle previsioni con cui, nella presente temperie, il futuro bombarda a tappeto il presente. Non si avrebbero né competenza né autorità per chiamarle in causa sotto i relativi e numerosi rispetti disciplinari. Si dichiara pertanto di tenerle per degne della massima fede, formulate come sono da concordi schiere di valorosi esperti e di valorose esperte. Resta solo un’osservazione sulla quale si vuole richiamare l’attenzione, sul fondamento di una complementare competenza disciplinare. Investe lo statuto enunciativo delle previsioni e delle profezie, discorsivamente intessute di verbi al futuro.

In relazione con i verbi, il futuro viene rozzamente presentato nel suo esclusivo valore temporale dalle grammatiche (scolastiche). Un’analisi solo un po’ più approfondita ne rivela però un più generale valore modale. Al futuro si presenta ciò che non è in atto e la cui realtà non è di conseguenza verificabile. Se così non fosse, sarebbe inspiegabile il comunissimo e nativo “Sarà…” che è certamente capitato a ciascuno di proferire (e più di una volta) come manifestazione di incertezza, se non di perplessità e perfino di scetticismo davanti affermazioni altrui giudicate prive di un’evidenza schiacciante e sospettate d’essere ciarlatanesche.

Il futuro è insomma un modo dell’irrealtà e da tale valore sortisce e si specializza il suo uso temporale. Del resto, chi non ammetterebbe che, anche, se non soprattutto quando esso ha un riferimento temporale, tale riferimento si colloca nell’ipotetico, nell’irreale? Davanti a un “Pagherò”, chi non si sente meno sicuro di quanto lo sarebbe con i soldi in cassa? E quanti “Ti amerò in eterno” alla prova della realtà hanno meritato, meritano e sempre meriteranno pietosi sorrisi?

Ciò che vale il futuro in riferimento al tempo trova d’altra parte una descrizione popolare, ma non per tale ragione imprecisa o volgare, nel ritornello di Que sera sera, canzonetta novecentesca celeberrima. Come usava un tempo, essa prospetta le successive esperienze generazionali in un ordine circolare di ripetizione: “When I was just a little girl… When I grew up and fell in love… Now I have children of my own…”. E trova il suo sigillo e la sua morale in una sentenza: “the future’s not ours, to see”.

“Que sera sera” fu composta per The man who knew too much dell’inglese Alfred Hitchcock, un film del 1956 nel plot del quale essa svolge una funzione di rilievo. Chi ama il cinema serba memoria del film e certamente ricorda come vi si metta in scena una gremita sala da concerto (la Royal Albert Hall di Londra) in uno dei suoi momenti topici e canonicamente hitchcockiani: i prodromi immediati di un attentato di oscura matrice politica e gli inopinati modi con i quali esso fallisce.

Sopra un’affollata sala da concerto si apre Tenet, il film del regista e sceneggiatore inglese Christopher Nolan, che prende a tema il conflitto tra futuro e presente, con grande tempestività e acuta sensibilità per quanto, come si è detto, sta infiammando o, se si vuole, raggelando la temperie. La congiuntura ha portato nelle sale Tenet alla fine dell’estate del 2020 tra grandi attese, accesi dibattiti, giudizi critici diseguali e, per via di tecniche narrative particolarmente stranianti, qualche sconcerto tra il pubblico.

Anche in Tenet l’affollata sala da concerto (il Teatro dell’Opera di Kiev) fa da scenario per un attentato di oscura natura politica. L’attentato si conforma naturalmente ai canoni odierni, non a quelli del dopoguerra secondo-novecentesco. Questi secondi parrebbero oggi bonaccioni e non provocherebbero in chi assiste alla pellicola le emozioni appropriate. Non si tratta pertanto di assassinio singolare, come nel film di Hitchcock, ma di indiscriminata carneficina, volta a coprire (lo s’intende presto) un rapimento mirato. L’attentato, di nuovo, non giunge a compimento. Anche nel congegno narrativo, esso è in effetti il pretesto per presentare e stagliare la figura del personaggio principale, designato come “il Protagonista”.

“Il Protagonista” messo in scena da Nolan è “a man who knows too little”, un uomo che non sa abbastanza. Il film lo ribadisce più volte e lo sancisce ancora quasi sul finire: sa troppo poco di quanto gli accade ma, soprattutto, di quanto gli accadrà, come ogni essere umano del resto. Gli capita inoltre che, a differenza del comune, a determinare ciò che gli accade non sia, come è banale, il passato ma il futuro.

È l’artificio diegetico che fa da cardine al film: il futuro disporrà o, meglio, nella finzione narrativa dispone oggi della tecnologia per invertire la linea del tempo e grazie a essa può intervenire nel presente a deviarne a suo vantaggio il corso. Il futuro si sentirà o, meglio, si sente gravemente danneggiato dal presente. Forte di un’arma siffatta, la sua determinazione è di conseguenza che il presente, con tutta la presente umanità, sia radicalmente distrutto, per farne uno diverso e a lui gradito: un presente funzionale al futuro, in barba al “paradosso del nonno”, la cui più celebre epifania cinematografica, come ognuno sa, si ebbe ora è qualche decennio nel fortunatissimo Back to the future di Robert Zemeckis.

Sul principio, “il Protagonista” di Tenet non sa della diavoleria e la sua conoscenza ne resta scarsa, manchevole, imperfetta anche quando, come nel corso della narrazione, egli ne apprende e la sperimenta. Ma lo fa senza sapere bene cosa sta facendo. Si serve della tecnologia di conversione per modificare un corso delle cose che, dal suo punto di vista e da quello dell’umanità, volge al peggio, ma del modo con cui ne viene fuori resta inconsapevole e più di una volta il film lo vede uscire da situazioni critiche in uno stato di incoscienza.

Si badi bene, a tale imperfezione nel sapere del “Protagonista”, per voce di più personaggi, la narrazione attribuisce la salvezza sua e, si intende, dell’umanità, di cui è appunto il campione. Per sopravvivere, non sapere è meglio di sapere: un (apparente) paradosso, non il solo paradosso di un film d’impianto non soltanto paradossale, ma anche meta-narrativo.

Con enfasi sottile, lo dichiara il nome attribuito al personaggio principale. Si tratta di un’antonomasia costruita a partire dal nome comune protagonista, come s’è appena detto. Tale nome pertiene al lessico, se non alla terminologia che ha per oggetto le opere di invenzione: letteratura, teatro, cinema e così via. Nella lingua comune, lo si sente o lo si vede predicato di chiunque abbia un ruolo rilevante in qualsiasi fatterello della vita quotidiana: “Ieri sono stato protagonista di una piccola, comica disavventura…” si può sentire dire, si ponga, da chi si è infilato senza rendersene conto nella toilette destinata a utenti di sesso diverso dal suo e, con qualche imbarazzo, se n’è dovuto allontanare tra sospettosi improperi. Se ciò accade però è perché, da gran tempo e silenziosamente, protagonista è passato dal regno della fantasia a quello della realtà, per metafora. Del rapporto metaforico non si ha più coscienza e protagonista, nel discorso quotidiano, è un esempio di catacresi come lo è collo quando si parla di una bottiglia o piede quando si parla di un tavolo.

Al di là di sottigliezze alla cui individuazione è utile, se non indispensabile, una dose di pedanteria, è tutt’altro che privo di ragione sistematica che l’idea di una narrazione in cui il tempo, oltre che al modo solito, proceda a ritroso sia venuta a un cineasta. Tra le arti, non da sola, la cinematografica ha una relazione privilegiata con il tempo. I suoi esiti vi sono iscritti e, sviluppandosi, integrano il tempo come mezzo e come valore. La cinematografia ha correlativamente la capacità tecnica (cioè, come vuole l’etimo, artistica) di rallentare o di accelerare il tempo e le due possibilità sono (state) molto sfruttate, com’è appena il caso di dire, nelle sue rappresentazioni creative.

Meno sfruttata forse, il cinema ha anche la capacità, e stavolta quasi certamente da solo, di invertire la direzione del tempo. Diversamente da quanto può fare uno scrittore, a un cineasta basta all’uopo riavvolgere la pellicola. Se c’è dunque un’arte che per la sua costituzione tecnica pare disposta alla creazione di qualcosa che, invertendo la direzione del tempo, corra all’indietro, quest’arte è il cinema. E quanto corre all’indietro è, di nuovo etimologicamente, un palindromo. Tecnicamente, cioè artisticamente, tra cinema e palindromo c’è in via d’ipotesi un rapporto ideale e idealmente si potrebbe pensare come perfetta, sotto certi rispetti, quella pellicola che proiettata in un senso o in quello converso desse luogo alla medesima narrazione. Fantanarrativa.

Difficile dire se Christopher Nolan abbia perseguito o stia perseguendo un siffatto utopistico progetto: Tenet fa di certo parte di una serie della quale ci sono da attendersi altre sortite e, appunto, si vedrà. Non ci sono dubbi invece sul fatto che, concependo e realizzando questo suo film, egli sia stato ispirato e poi mosso da un’idea palindromica.

La circostanza non potrebbe essere in effetti dichiarata in modo più lampante. Anche in funzione della campagna di lancio del film, essa è stata addirittura proclamata con un eccesso di chiarezza che è diventato esibizionismo e che, in relazione al presunto enigma e forse al definitivo mistero che fanno da tema (o forse solo da pretesto?) della narrazione, ha guastato non poco il gioco nei confronti di un pubblico che forse avrebbe amato gli si lasciasse in proposito il piacere della scoperta. I tempi sono però quelli che sono e produzione e regista saranno stati consapevoli che un pubblico siffatto è solo una modestissima minoranza e che ormai il solo modo di comunicare con successo alla maggioranza, avendo così un ritorno economico per i propri sforzi comunicativi, è una platealità incurante di oltrepassare la soglia della volgarità.

Così è un palindromo Tenet, il titolo del film, e la narrazione è disseminata dei segmenti, tutti ovviamente, palindromici di un complessivo palindromo dalla notorietà e dal mistero millenari: il cosiddetto Quadrato del Sator. “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”: Nolan non manca di servirsi di ogni pezzo per gli scopi variamente onomastici di personaggi, di organizzazioni, di imprese presenti nella pellicola. E sono, per figura, palindromici non pochi dettagli, come le pallottole che tornano verso l’arma che le aveva esplose, con esiti naturalmente sempre mortali per chi ne viene inversamente colpito.

Sono concepite allo stesso modo anche intere scene, come il classico inseguimento automobilistico, in cui però l’auto inseguitrice fila a marcia indietro all’invertita velocità del normale procedere, o la lunga battaglia conclusiva, durante la quale tempo narrato e tempo della narrazione coincidono e costruzioni in cui si annidano cecchini vengono colpite e distrutte nel momento in cui esse si ricompongono con i detriti di una loro distruzione precedente e risultata inane dal punto di vista narrativo, per via della conversa direzione dello scorrere degli avvenimenti.

Da spettatore comune, chi scrive non saprebbe dire in qual modo sia materialmente ottenuta la combinazione di elementi che procedono in una direzione ed elementi che procedono nella direzione conversa nelle medesime inquadrature. Alla moderna elaborazione elettronica delle immagini, una combinazione siffatta non avrà certamente posto difficoltà. A una persona di età non più verde, parte di quanto percepisce sullo schermo nelle circostanze ricorda tuttavia quel reverse motion spesso integrato in brevi film comici dei primi decenni del secolo scorso, con i correlati effetti. E suggerisce conseguentemente l’ipotesi che proprio in quelle scene trovi spazio un’ironia compositiva e metalinguistica del regista, con l’allusione a una cinematografia che, pur a un livello elementare di sofisticazione tecnologica, era già capace, come carattere specifico dell’arte, di un così radicale straniamento, per semplice inversione di un’operazione meccanica.

Come scoprirono, pare accidentalmente, già i fratelli Lumière e proprio con il filmato dell’abbattimento di un muro, una volta fissato sopra una pellicola, un evento può in effetti essere osservato e narrato nel suo canonico svolgimento temporale o in direzione opposta. Tenet, pellicola che già nel titolo ha un palindromo, rende omaggio al mirabolante carattere dell’invenzione detta appunto alla sua nascita “chronophotografique”, lo cita e, forse invitando a sorriderne, lo sfrutta ai suoi scopi diegetici.

A Tenet potrebbe d’altra parte accadere di essere in futuro evocato con la semplice menzione di un motto. In proposito, ci sono esempi celeberrimi: “Nobody’s perfect”, “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile…”, “…a lot of talk and a badge!” e così via.

“We live in a twilight world” è la divisa del film di Nolan. Vi ricorre più volte; non si può dire quindi che, se ci sarà, l’effetto non sia stato ricercato. Funge infatti da frase in codice, da segnale per il riconoscimento di chi la proferisce da parte di chi, per ottenere un’agnizione reciproca, ha da farle seguire “…and there are no friends at dusk”. È stato universalmente detto che è farina che il regista ha cavato dal sacco di Walt Whitman, ma la voce non si è accompagnata, come avrebbe dovuto, con l’opportuno ed esplicito riferimento. Agli specialisti il compito di confermare e di precisare. Qui si dedica ancora qualche parola alla questione laterale della sua resa nell’edizione italiana.

In effetti, “Viviamo in un mondo crepuscolare”, che è quanto si è sentito nelle sale dello Stivale e delle isole, non è forse il modo più appropriato a introdurre un orecchio italiano e, di conserva, il relativo occhio nello spirito della pellicola. Meglio avrebbe corrisposto all’originale “Viviamo in un mondo al crepuscolo”.

La denotazione dei due attributi, il semplice crepuscolare e il composto al crepuscolo, non si sovrappone e ancor meno lo fa la loro connotazione. Si lasci pure da parte quel crepuscolare che, in un uso specialistico e ovviamente ignoto ai più, qualifica un indirizzo della poesia italiana del primo Novecento. Anche il crepuscolare che il Grande dizionario italiano dell’uso qualifica come “comune” si dice di quanto è ‘tipico, proprio del crepuscolo’: si ponga, una luce, una nebbia, un cielo crepuscolare.

L’attributo composto al crepuscolo ha un valore diverso, soprattutto quanto a connotazione, come si anticipava. E nel caso specifico contano la connotazione e la combinazione con un mondo a determinare univocamente la scelta e fissare mnemonicamente il nesso.  A riprova di tale fissità, c’è il fatto che il nocciolo dell’originale trova registrazione come tale nell’Oxford English Dictionary, alla voce twilight. “A twilight world” è “a world characterized by uncertainty, obscurity, or decline”.

Il mondo descritto e narrato dal film di Nolan sta certamente sotto il segno dell’incertezza e dell’oscurità, dal momento che è “un mondo al crepuscolo”. E caso mai in proposito sorgessero dubbi, la replica lo precisa inequivocabilmente. In “…and there are no friends at dusk”, c’è una ripresa concettuale di twilight, un aggancio a ciò che vale l’attributo, con una variatio sinonimica nella forma: at dusk.

È in gioco l’asse del tempo, come per tutto il film è lampante e come del resto, forse con qualche ridondanza, hanno mostrato queste pagine. Ma lungo tale asse, è faccenda di declino e di prevedibile prossima fine: circostanze che certo stridono con la superficiale e artificiale possibilità di un palindromo. E ancora: di qual mondo al crepuscolo si tratta? A conferma di una certa sua ambiguità, il film è stato iscritto in diversi generi. Tra questi, in maniera grossolanamente preponderante, il genere fantascientifico, appunto, anche per riferimento ad altre fortunate e celebrate pellicole dello stesso regista. Un criterio contenutistico spingerebbe dunque a dire che il mondo in questione è anch’esso un mondo futuro. Vi si vede crucialmente all’opera una tecnologia che al giorno d’oggi non solo non è disponibile, ma che non si può nemmeno prevedere quando, come e soprattutto se mai lo sarà. Si sa solo che alcune fantasiose persone di scienza l’hanno immaginata.

A ben considerare però, con la sua innegabile salienza nel plot, l’ingrediente avveniristico è inserito in un contesto che di avveniristico non ha nient’altro. Meglio, che non ha niente che lo differenzi dall’oggi. Ogni altra tecnologia presente, come del resto il paesaggio naturale e urbano, l’immagine complessiva dell’ecosistema, la politica, i modi delle relazioni umane, abiti, auto, jet, elicotteri, camion, pale eoliche, piroscafi, motoscafi, bevande, suppellettili, ambienti e tutto il resto che contribuisce a dare un’immagine concreta del mondo della finzione narrativa sono quelli di oggi. E, per effetto dell’abbaglio fantascientifico, tutto ciò può facilmente passare inosservato. 

Invece non dovrebbe, perché si può anzi dire che tutti questi caratteri sono rappresentati nel film con accanito intento realistico. Un realismo certamente algido (e a tratti turistico) o con uno sguardo da lontano (e a tratti antropologico), ma per nulla straniante. Ed è questo che conta. Fuori della circoscritta tecnologia fantastica, il film propone allo spettatore immagini del suo mondo, non di un mondo altro. Non lo porta altrove. Lo immerge in quello che c’è o lo sommerge con quello che c’è. E fa come se nel mondo che c’è s’inserisse inopinatamente un elemento estraneo, tale da provocare una reazione, da rivelare aspetti di norma celati o impercettibili. O troppo evidenti per essere, oltre che percepiti, concettualizzati? E si può escludere a questo punto che l’elemento fantastico valga, in fin dei conti, come figura del discorso?

Con l’eccezione che si è detta e nella funzione di reagente narrativo che si è appena precisata, ciò significa che, in essenza, Tenet non fantastica, ma dichiara e rappresenta e che tempo dell’enunciazione e tempo dell’enunciato vi coincidono. In altre parole, controcorrente rispetto alla ormai prevalente e quasi totalitaria ideologia che ha nel futuro il suo modo, Tenet ha nel presente il suo tempo verbale e nell’indicativo il suo modo, per quanto ciò possa parere a prima vista incredibile, considerato il dibattito che si è scatenato intorno al film.

Ne segue come un corollario che Tenet non parla di qui e di ora per allegoria, come, quando ne parla, di norma fa la cosiddetta fantascienza. Ne parla referenzialmente e propriamente. È opera d’invenzione, quindi si esprime per artificio, soprattutto per artificio di un’enfasi superficiale, come impongono l’arte e il botteghino. È infatti un film spettacolare e ricco di effetti speciali. Il suo tema è però l’attualità in cui si iscrive la sua enunciazione e, senza infingimenti di sorta, il mondo al crepuscolo di cui parla la sua divisa è questo, è il presente. E il futuro che, per artifizio narrativo, si propone di annientarlo è ciò che, in questo presente, si presenta come futuro.

Alla Götterdämmerung, al crepuscolo degli dei, era inevitabile che si aggiungesse prima o poi una Menschendämmerung, un crepuscolo di quell’essere umano di cui l’Evo moderno aveva celebrato il trionfo, facendone “il Protagonista”.

Che il mondo umano e presente sia al crepuscolo non è ovviamente il solo Nolan a pensarlo. Si potrebbe dire anzi che, in modo consapevole o no, si tratta di un sentimento se non universale, largamente comune. Perlomeno nella civiltà in cui si inscrive Tenet, come opera di invenzione, non c’è essere umano in questo momento che non senta di partecipare all’agonia di un mondo. Al massimo, ci sono differenze di opinioni quanto a quale fase di tale agonia si sia frattanto giunti.

E contro questo mondo presente al crepuscolo, contro questo mondo al tramonto al quale fanno crudamente difetto gli amici, com’è appena il caso si dica, maramaldeggia devastante un futuro che dice non solo come andrà, ma anche come le cose avrebbero dovuto procedere per garbargli. Con questo film, Nolan si proclama amico di questo “mondo al tramonto”, controcorrente. E alle rovine che vi porta un futuro ideologico, presuntuoso e saccente, un futuro che sa come andrà a finire e che di conseguenza minaccia, la sua fantasia cinematografica contrappone “il Protagonista”, ancora una volta. A combattere quel futuro, mette in altre parole “a man who knows too little” e che proprio nella sua insipienza trova la salvezza per sé, per l’umanità presente e per un bambino, come dice l’ultima scena di Tenet. E rappresenta così cosa, in ogni presente, è l’autentico futuro umano, come gradevolmente ammonisce “Que sera sera”.

Nunzio La Fauci
Cinema e “parole”
Edizioni ETS, collana “Dell’espressione”
pp. 140, € 13

In copertina: John David Washington e Robert Pattinson in una scena di Tenet, di Christopher Nolan, 2020

Nunzio La Fauci

Siciliano, venuto al mondo intorno alla metà del Secolo breve, tra studio, ricerca e insegnamento ha fatto esperienza di più di una mezza dozzina di università, in Italia e all’estero. Si è occupato di qualche aspetto, di qualche fenomeno, di qualche vicenda dell’espressione umana, secondo l’estro. Ne sono fin qui scaturite un paio di centinaia di pubblicazioni.

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