C’era la guerra, proprio la guerra più vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano più vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose.
Mario Rigoni Stern
Quando Carlo arriva, sto perdendo tempo a rimirare lo scaffale davanti ai miei occhi, carico di bottiglie di vino che disegnano la mappatura del nebbiolo. Carlo indossa una giacca impermeabile, con cappuccio sulla testa. Come si scopre, si illuminano i suoi occhi color nocciola, magnetici e vivaci. Alza le sopracciglia folte e fa un ampio sorriso. Si accomoda e comincia a raccontarmi delle ultime dolorose urgenze familiari e dell’ultima intervista che deve rilasciare, che gli sta imponendo una ricerca non facile di materiali. Un po’ distratto dal cellulare e da altri pensieri, piano piano si scalda davanti al piatto. Ci hanno messo fretta. Non possiamo andare oltre un’ora nell’occupare il posto e questo non aiuta. Ma una certa urgenza di confrontarci anima la nostra conversazione. Carlo mi ha cercato a lungo e forse anche osservato da lontano prima di decidersi. Non so bene su cosa, ma sento l’urgenza.
Il titolo Bellum, oltre ad essere profetico di questi tempi, richiama una significativa ambivalenza della lingua latina: bellum come sostantivo significa guerra, ma come aggettivo significa elegante, carino, leggiadro. Può essere attraente la guerra? Come tutte le cose umane, dentro di sé reca un’ambiguità che è magnetica e allo stesso tempo respingente.
Il progetto di Carlo è puntualizzato nella sua dichiarazione: “Il conflitto ancestrale tra uomo e natura e tra uomo e uomo; l’uso della natura come difesa dall’altro uomo e parimenti la difesa dell’uomo dalla natura”.

La relazione luce/spazio/tempo è il centro della ricerca di Valsecchi, il quale realizza i suoi scatti avvalendosi della fotografia analogica e del banco ottico. Prima di arrivare allo scatto effettivo, passano mesi, anche anni. L’immagine è nella sua testa e solo quando viene trovata nella realtà, si compie con l’azione dello scatto, che a volte non fa nemmeno lui, ma affida agli assistenti.
I preparativi sono una parte fondamentale della sua pratica, che si immerge completamente nello spazio che vuole indagare, facendo numerosi sopralluoghi, parlando con le persone che li vivono e realizzando una sorta di sketch-book attraverso foto digitali dal suo cellulare, note audio e appunti. “Che posto è? Cosa fanno lì gli uomini? Cosa c’è sotto?” domande per approfondire. La prima impressione fisica che il luogo imprime nel suo corpo e nei suoi occhi rimane decisiva sul resto delle scelte. Di fatto sono spazi dechirichiani quelli che ama di più: per questo motivo abita in periferia a Milano, perché quando rientra di notte ha bisogno di vedere le architetture vuote e surreali, senza corpi umani, per avere uno sguardo d’insieme. Dell’uomo cerca il guscio, le tracce, gli impatti sulla natura.
Solo dopo questa immersione, Valsecchi riemerge e disegna il suo storyboard. A seguire, avvengono dei veri e propri appostamenti, come quelli di un cacciatore, a tutte le ore del giorno, della notte, per trovare la luce… quella luce esatta e non un’altra. Aspetta anche la stagione giusta, pur di trovare quella luce. La luce è materia, che si può toccare. Carlo vorrebbe dominare la luce di Piero della Francesca, quella particolare tonalità e temperatura che cinquecento anni prima un pittore ha inventato per ritrarre l’universalità, l’ordine, l’equilibrio, la sospensione, senza sapere di aver inventato qualcosa che non c’è in natura, ma che solo l’artificio di un neon può riprodurre.

Lo scatto, come si diceva, non è la componente decisiva. È solo l’atto formale, ma tutto è stato già scritto, definito prima nei minimi particolari. Quindi Valsecchi non percorre la via dell’abbondanza, non scatta per nulla. I suoi archivi sono sempre un 10% al massimo in più degli scatti selezionati per chiudere il lavoro.
L’artista combatte fra la sua vorace curiosità e la consapevolezza di non poter raggiungere la fotografia definitiva, quella che esaurirà la sua ricerca intorno a luce/spazio/tempo. Ogni foto è infatti numerata in progressione e costituisce solo un tassello di quella immagine universale, fatta di tutte le altre, che risolverà la relazione triadica luce/spazio/tempo. L’artista sa che non la realizzerà mai, perché la vita è fatta così, in quanto dà una sola ottica alla volta.
Bellum arriva per la necessità di indagare il lato oscuro dell’umanità, l’orrore, la brutalità, l’alienazione animale che nella guerra si esprime alla massima potenza. Forse anche attraverso quella particolare ossessione di Valsecchi per le fabbriche. In particolare, l’industria della guerra ha completamente cambiato le regole dei conflitti, amplificandone l’impatto e deresponsabilizzando l’uomo: dal corpo a corpo, alla mitragliatrice e fucili a ripetizione in un rapporto uno a molti, fino alla guerra di aviazione, che nemmeno vede cosa succede al suolo. La Prima Guerra Mondiale rappresenta il momento della svolta fra la guerra ancestrale e quella moderna. Il vero obiettivo di ricerca di Valsecchi non è quindi il fatto storico, bensì l’orrore innato e convivente nell’uomo del male assoluto. L’evento storico, fra i più cruenti dell’epoca moderna, rimane lo sfondo simbolico, la “sottile linea rossa” che stimola la ricerca.

Ogni anno l’artista rilegge Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ossessionato dal viaggio di Marlowe nell’oscurità umana, così genialmente trasposto nel film Apocalypse now di Francis Ford Coppola, che non a caso ha scelto lo sfondo di una guerra, quella del Vietnam. Carlo cita anche altri registi come Christopher Nolan e Terrence Malick. Un’immagine in particolare: Joker e Batman che si fronteggiano: “Io esisto perché tu possa esistere”. Il male e il bene in simbiosi. Freud stesso l’aveva individuato come principio fondativo dell’essere umano: Eros e Thanatos indissolubili.
Altri riferimenti vanno alla letteratura, in particolare a Henri Barbusse e al suo romanzo autobiografico Il fuoco, dove racconta la vita al fronte nella sua spietatezza disumanizzata e orrore. L’autore introdurrà dopo dieci anni il portfolio Der Krieg di Otto Dix, con il racconto visivo terribile dell’artista tedesco: i due accumunati dalla vita del fronte, fratelli nell’arte, seppur schierati in due eserciti nemici.
Un altro accenno: They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani, il documentario prodotto e diretto da Peter Jackson (regista più noto per la trilogia del Signore degli Anelli), che ha unito filmati originali, restaurati e a colori, a registrazioni sonore dell’epoca e alle voci dei veterani inglesi.
Nel frattempo, siamo scesi nella cantina di mattoni rossi del ristorante che ci ospitava, con le volte a botte che infondono calore e discrezione, intorno a un tavolo rotondo, uno di fronte all’altra. Le mani di Carlo si specchiano nella superficie del tavolo, lunghe, sottili. Vorrei fotografarle, ma mi vergogno a chiederglielo. So che non ama essere ritratto.
Sulla destra porta due fili d’oro, intorno all’anulare e il mignolo, fuma con la sigaretta elettronica, volge le spalle e si mette di traverso sulla sedia girevole. Quando le domande si fanno più intense, si raddrizza e mi guarda dritto negli occhi. Le sopracciglia tradiscono certe emozioni che la voce esperta cerca di tenere a bada. Ha un che di austro-ungarico nel suo piglio. Saranno le origini friulane…

Il viaggio conradiano di Carlo Valsecchi è cominciato a Reggio Emilia tre anni fa, quando Luigi Maramotti gli ha commissionato un progetto fotografico che indagasse la natura e il male. Il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto è la prima tappa, dove sono raccolti i cimeli della Prima guerra mondiale con cui l’artista comincia a prendere confidenza. I luoghi della campagna fotografica vanno dal Veneto al Trentino Alto Adige. Il Friuli rimane per ultimo perché è casa. Caporetto rappresenta i fine settimana a metà Anni Settanta con le mamme che sconfinavano in Jugoslavia per fare benzina a poco prezzo e acquistare i succhi di frutta austriaci nel tetrapak, portando poi i figli sui prati su cui stendere il plaid e fare un pic-nic. Le trincee erano le grotte segrete e magiche dove rincorrersi, giocare a nascondino, coprirsi di polvere nera e sbucciarsi le ginocchia. Perché, come dice il soldato in chiusura del film di Ermanno Olmi: “Torneranno i prati”.
La natura diventa complice della caccia all’immagine, ma anche si trasforma in spietata nemica quando si manifesta, offuscando la vista, congelando, confondendo.
Una notte, a diciotto gradi sottozero, e 1800 metri di altitudine, Carlo cerca la luce unica, quella della luna piena attraverso il bosco. Pur nella situazione ottimale, non si vede nulla attraverso la macchina fotografica: un obiettivo si è congelato, facendo una patina di brina sull’ottica. Il panico: una corsa in auto con riscaldamento al massimo per far sciogliere il ghiaccio e asciugare il vetro. Ma la foto è salva: #01129, Rovereto, Trento, IT., 2020.
Raggiungere alcuni luoghi non è banale: come la risalita del fiume di Marlowe, Carlo ascende i monti tramite le piste militari a cui si può accedere previ permessi specifici della forestale e un accompagnamento esperto. La guida esiste davvero, Filippo Menegatti, un novello Virgilio attraverso l’inferno delle trincee, esperto oltre che di monti, anche di storia. Gli sbarramenti si alzano, nascondendo il lucchetto e la macchina può transitare percorrendo carrabili a strapiombo sui versanti della montagna. Scivolare è facilissimo. In inverno, è una certezza. Così la paura amplifica i sensi come accadeva ai soldati nella neve. Il banco ottico è uno strumento molto delicato che, come un cannone o una mitraglia, ha bisogno di un piazzamento preciso. C’è qualcosa di diabolicamente simile agli appostamenti di caccia agli animali selvatici, ma soprattutto quelli in cerca di nemici.

Cosa rimane di quell’orrore? Cumuli di pietre all’ombra di un pino per celebrare un caduto (#01155, Fogliano di Redipuglia, Gorizia, IT., 2021). Fortini di cemento, cunicoli, legni anneriti e marci, terra…terra nera che viene rigirata e pettinata ogni anno, sotterrando, o dissotterrando bossoli di fucili schnappel. Se si scende a un metro di profondità, bisogna usare un metal detector. Ermanno Olmi nel 1970 aveva raccontato la storia dei Recuperanti, uomini che si guadagnavano da vivere recuperando i metalli della prima guerra mondiale, che avevano dato morte… rimettendo a rischio la propria vita. Un paradosso! Oggi si fanno le vacanze, in quei luoghi.
Il tempo è la terza componente della ricerca di Carlo, forse la più difficile da rendere visivamente. Eppure, la sua presenza è tangibile: sospensione, immobilità, still life… che dall’inglese nella traduzione letterale rende bene l’idea – vita ferma –, ma in italiano è più evocativa: natura morta.
Quale natura è morta in queste immagini? La Natura vince sempre sull’uomo, va per la sua strada, evolve, ricicla, rovescia, scrolla, divora: nella sua spietata economia generale, trova il suo equilibrio, fine a se stesso. Nessun determinismo, nessuna antropizzazione: Carlo cerca il punto in cui la Natura sta sopra alle cose umane, dove non ha senso parlare di bene e male o di perdita dell’equilibrio, perché quei concetti appartengono all’uomo. Mi cita il terremoto del Friuli del 1976. Era piccolo, ma ricorda le parole dei grandi, rispetto all’imprevedibilità del fenomeno, che poteva tornare da un momento all’altro.
“Cos’hai imparato davvero, Carlo?”, chiedo più allusiva: “L’orrore è sempre in agguato. L’equilibrio è instabile, precario. La velocità con cui può riproporsi è imponderabile. Rimane la speranza, quella che i prati tornino a fiorire, che le nuove generazioni capiscano come contenere l’ira della guerra, la brutalità, per non cedere al male, al buio della mente”. Per questa ragione documenta anche la tempesta di Vaia del 2018, nella quale la natura ha distrutto quanto l’uomo aveva ripristinato come risarcimento della guerra: alberi distrutti dagli uomini durante la guerra, nuovamente piantati, per poi rimanere distrutti dalla furia della natura. Così, monconi legnosi dissotterrati lasciati sui prati richiamano i monconi umani caduti nelle battaglie. Atroce analogia, quanto vera.

Nello stile di Carlo Valsecchi traspare una certa umiltà di sguardo: la cimosa evidenziata in ogni fotografia sottolinea il limite che l’artista si impone, la sua firma. Oltre a quello sguardo, a quella finestra non può andare. La sua è una porzione di verità, una proposta di riflessione che lascia pacata ai suoi estimatori, un calore speciale che scioglie ogni durezza.
Carlo Valsecchi. Bellum
Collezione Maramotti, Reggio Emilia
fino al 31 luglio 2022
In copertina: Carlo Valsecchi, # 01153 Roana, Vicenza, IT. 2021, 2021 C-Print, plexiglass con dibond, 50 x 60 cm ©Carlo Valsecchi