La riapparizione di Cosimo Ortesta è l’evento dell’anno, almeno, per la nostra poesia. E che se ne sia fatta carico una piccola realtà come Argolibri (già protagonista di un altro essenziale recupero, quello di Corrado Costa) la dice lunga, per l’ennesima volta, sullo stato della nostra editoria. Il libro impeccabilmente curato dai giovani Galavotti e Morbiato, e da un poeta-critico di lunga fedeltà come Bonito, è anche un gioiello grafico che si deve alle arti di Susanna Doccioli (non si vedeva qualcosa di questo livello dai tempi – 2007-2009 – dell’«Ars poetica» di Luca Sossella, e Alessandra Maiarelli).
Risprofondando nella poesia di Ortesta ci si rende conto di quanto vi conti – vi abbia sempre contato, sin dal principio – l’immagine. Innesco magari infine secretato, nel testo d’arrivo, che a esso conferisce però tanta della sua intensità (un po’ come in uno dei suoi maestri più decisivi, Beckett). Piccola immagine, appunto, suona il titolo di un componimento di Serraglio primaverile, l’ultima raccolta autonoma licenziata dall’autore, nel 1999: titolo che si estende (con sua movenza tipica) a designare una sezione dell’autoantologia del 2006 (opportunamente riproposta dai curatori, con le sue microvarianti e il suo nuovo disegno), La passione della biografia, la quale a sua volta prende il titolo da quello «inevitabile» della vulnerante sezione originaria del primo libro, Il bagno degli occhi (Milano, Guanda, 1980). Così da un lato riconducendone l’ispirazione all’origine lancinante del percorso, in apparenza agli antipodi della “correggesca” dolcezza donatagli dal maestro tardo Bertolucci; e, dall’altro, di questa rietimologizzando l’idillio, di leopardiana memoria, alla sua traumatico-voluttuosa sostanza mortifera (teste Gilberto Lonardi).
Non solo si moltiplicano le ekphrasis esplicite, nel prosieguo della biografia di Ortesta (ché le implicite – come quella dal film omonimo di Ingmar Bergman, in un altro componimento-chiave come Persona – sono acutamente decodificate dai curatori), ma sempre più si mette a fuoco – è il caso di dire – il ruolo essenziale che la logica dell’immagine svolge in questa poesia. Come dicono i versi tradotti da Philippe Jaccottet (i quali come al solito, con Ortesta, dicono più espliciti quello che i versi in proprio censurano accuratamente), «un uomo che invecchia è un uomo pieno di immagini»: immagini incontrate nell’arco di una biografia individuale, che si riflettono nel museo universale dell’iconosfera collettiva cui sempre più facilmente accediamo, e che si accatastano indefinitamente nel ripostiglio della nostra memoria. Facendo di noi quello che siamo: nell’attimo stesso della nostra morte.
Da un lato (e questo Bonito lo metteva in luce già nel suo seminale, pionieristico studio Il gelo e lo sguardo, Clueb 1996) c’è il «progetto», la «nera costanza» di una vocazione percepita come destino, ma alla cui kafkiana condanna si contribuisce col massimo zelo; ed ecco che il titolo – bellissimo – della raccolta-capolavoro, Nel progetto di un freddo perenne, si chiarisce col riferimento alle poesie ispirate alle architetture visionarie di Claude-Nicolas Ledoux (i cinque componimenti – avverte una nota dell’autore – vennero scritti in occasione di un seminario a lui dedicato ad Arc et Senans, organizzato da Bianca Bottero). Dall’altro lato, il senso insieme estatico e torturante dell’immobilità: un titolo esplicito come Stilleben chiarisce la natura “seconda” della «posa» (pittorica o fotografica, in questo caso, non importa) che ricorre in diversi componimenti, a designare il comportamento dell’innommable protagonista «perenne» di questa poesia. Come dice benissimo Bonito, introducendo al volume e riferendosi alla suite che evoca il per antonomasia «tardo» Rembrandt (da una sua acquaforte del 1650 è tratta l’immagine di copertina, una conchiglia monumentale ed enigmatica, che allude all’altra suite capolavoro di Ortesta, Il margine dei fossili): dove «si intravede di sbieco la sovrapposizione fantasmatica del pittore olandese con l’immagine defigurata del poeta – in un fuori scena in cui l’io “non ricordato non dimenticato” fa i conti con l’oscenità di un pronome indicibile e se dicibile ridotto a cosa che muore».
Nell’altra, lunga suite che apre La passione della biografia del 2006, Céleste (desunta dalle memorie di Céleste Albaret, dal 1914 al 1922 governante di Marcel Proust), si legge: «Immobilità e silenzio gli insegnano a lavorare / per un’improbabile vita futura. // “Un morto come me che si appoggia al tuo braccio. / E tu, Céleste, vuoi ancora portarmi?”. / Per rivedere quel lembo di muro giallo / distesa di sabbia dorata quel minuscolo lembo / prezioso, prima di schiantarsi / in un eccesso di confusa tenerezza» (e la nota d’autore ricorda il passo della Prisonnière in cui si descrive la Veduta di Delft di Vermeer, ammirata da Proust al Jeu de Paume nel ’21 e da lui considerato «il più bel quadro del mondo»). Il tema è quello che un altro maestro di Ortesta, Andrea Zanzotto, finì col chiamare – nella sua plaquette postrema pubblicata l’anno prima della morte, nel 2010, e dall’anno scorso compresa nella raccolta delle sue poesie disperse, Erratici – Il Vero Tema: il confronto concreto e schiacciante – dopo tanto in precedenza averla esorcizzata – con la prospettiva immanente e ormai imminente (anche se, nello scrivere quei versi, a quella di Cosimo mancavano ancora quasi quindici anni) della propria morte individuale. Altrove, nella Passione della biografia, si legge questo distico lancinante: «Dimenticava ogni giorno qualcosa della propria lingua / finché rimase muto». Ma è in termini visivi che Ortesta sigla questo silenziarsi definitivo, negli ultimi versi da lui pubblicati: «La vista improvvisamente accecata / la fa ammutolire». Come traduce da Jaccottet, è in «loro», nelle immagini di una vita tutte insieme evocate dalla memoria, che «mi perdo di nuovo, / di nuovo esse mi fanno velo, non ne conosco / più il giusto uso, / quando sempre più lontano / tutto il resto ignoto si ritira, la chiave dorata, / e già la luce viene meno, la luce dei miei occhi…».
Andrea Cortellessa
Cinque poesie per C. N. Ledoux a Arc et Senans
1
una statua d’aria qui
rivolta appena con gli alluci alle tende
ma coi ricci delle tempie
sfiorando muro e tetto
qui s’affaccia o s’inclina
sugli orli del freddo
sul punto di parlare nella trama
serena e tutta stretta
al riparo dal verde lacuna di campagna
ferita acquattata nel fango superbo
2
incisa nella mente
ma calma davanti agli occhi
sale in una gabbia a giorno
la più bella scala a chiocciola del mondo
murata nell’unica parete si apre a celle
di nuovi bianchi ospiti (non uno
invidia più i capitelli, le chiavi delle volte)
… nata di getto su mattoni e pietra lavorata
con poca calce si tiene – e senza vergogna –
fino all’ultimo suo giro
sotto un muro con finestre
3
non più larga di una spanna
verso i bordi del prato sta chinata.
sulla faccia della terra
una nicchia con sagome di legno.
Lenta devastazione in quell’occhio fiammeggia
che sembra di pietra – una via minata
corre (questo deve essere il momento)
da quel foro a una foce
di alghe e nere serpi
dove si addossa fuori l’ora degli insetti –
4
in una conca piatta in mezzo ad alte terre
per un vasto raggio tutt’intorno sfatte
sotto l’ala dell’ampio dorsale di una roccia
dalla gola una lunga casa s’apre –
tuoni e lampi da un dirupo le si addossano
fino alle basse volte
al verdastro tremare della base che si staglia
in frammenti di diaspro
con figure dorate dopo il vento della mezzanotte
5
corre intorno all’atrio respirando calma –
tra nicchie e vele il busto quei giganti
carichi e dolci poi le slacciano
stesa in mezzo a loro o inginocchiata
sempre quaggiù dagli orli dei lastroni alla testata
esce dalla cella su per diversi piani
non sopravvive più lasciata a mezzo della rampa
e se nessuno al bel cratere l’accompagna
torna in camera cieca, rossa di guancia
da La nera costanza, Palermo, Acquario-La nuova Guanda, 1985

Persona
Non colorata né dolorante
la persona amata tacque e ancora
l’altra parlò di un dolore reale
degli animali leggeri
dei sacri animali di coda scura
e in me
in me persona non amata
questo non fu un male.
Può essere stato un lungo mesto bene.
da La nera costanza, cit.; anche in Nel progetto di un freddo perenne, Torino, Einaudi, 1989
Andreino dal Castagno
S’interrompe incerto – ha per centro un terremoto
se nella stanza vede lacrime consumarsi
e non vi splende alcuna fiamma interamente, tranne
una vera ossessione di colore non si sa
in quale parte. Ma rimane sempre più ardente
l’inceppata brama sbrigandosi da debiti e pentimenti
come disperata in una sera con gli amici di ponente
questo miraggio pieno d’incidenti
con ogni felicità gli giunse
a mirabile castigo
gli viziò che cosa
se vendere gli fece vino e legna?
quasi tutto lo scalcinò dal muro
per poterlo mutare nudo senza rispetto alcuno –
ne sentì dolore lontano da ogni letizia
nelle ore destinate al riposo
in camera tornò di notte
mettendo in fretta panni e colori nel cassetto
continuò a suo modo
ma fu rapito da grande pestilenza
da La nera costanza, cit.
Il margine dei fossili
I
le acque provenienti dagli abissi si congiunsero a quelle,
dando luogo a crolli e al conseguente…
inondazioni derivarono e sedimenti
nel ripetersi della sovrapposizione. Non tutte le pietre
ma solo massi spezzati stettero alla base.
II
nell’ardesia si vedevano di frequente
forme di pesci esattamente come fra le mani
bocche si scolpiscono aperte nelle impronte schiacciate
III
è chiaro che i pesci dello stesso stagno
da un’unica massa sono stati schiacciati.
Le impronte dei pesci provengono dunque
da veri pesci.
IV
ossa raggruppate e disposte lungo la roccia
in piccole o grandi nicchie naturali
dal 1923 al 1925, senza mandibole,
numerose fra i crani a m. 1,20 dal suolo
orientate da est a ovest
V
per questa ragione il cranio e le ossa lunghe
sulle alture o su rami non portano
con sé
ogni mutamento di sede
VI
tranquilli nei giorni più frequenti
nella calma che preme al di qua
dei successivi movimenti, quasi incerti
i fossili verso il margine del bosco
meno denso
contro cui deboli perdendosi
gli occhi si rompono
VII
evitando che le ossa
siano dai cani divorate
ricoperte nuovamente di carne
di un giovane orso bruno,
gli si tagliano canini e incisivi
con sega sottile
VIII
è vietato spezzare le ossa
di cui si è mangiata la carne
sgozzata la sera:
bersagliate e legate le vidi
le une accostarsi alle altre
in festa echeggiante.
Su di esse muscoli e fiotti
fiorivano
IX
questi depositi, offerte di primizie
abbattute presso popolazioni artiche
resti di animale
nella limpida traccia del dio caduto
fra il cacciatore e la preda
X
su una placca di ardesia incisa
si distingue avvolto in una pelle
con coda di cavallo e corna
di cervo sulla testa
che finisce a becco
XI
i suoi vicini di parete
sono l’uomo e il rinoceronte:
la testa è priva di lineamenti
ma il ventre
si affaccia a proteggere
da La nera costanza, cit.; anche in Nel progetto di un freddo perenne, cit.
Restare in posa è più forte di lei
fa fatica a pensare che non sarà
così per sempre
– il fondo del suo letto o come
nel fondo del suo letto quelle membra
e la testa più non vede più non ha bisogno
di vedersi –. Un luogo l’attira oscuramente
a poco a poco tra due muri e gli altri
tutt’intorno o come per incanto fuori
alzando gli occhi verso lei
che a testa bassa un altro ne vede
ma come appiattito un inizio di volo
che tiene compagnia prima di spezzarsi
giusto il tempo che si afferri in un’altra direzione
e come lentamente più non si protegge
assai diversamente di nuovo ha bisogno.
Non si muove se vede la sua luce
sempre accesa sotto i colpi della pioggia
da Nel progetto di un freddo perenne, cit.
Piccola immagine che vidi clandestina
da un confine all’altro o cara immagine
pellegrina – che cosa ti scolora
per chi ti spegni?
Da anni in un miraggio
ti allarmi e al male inclini.
da Serraglio primaverile, Roma, Empirìa, 1999; e in La passione della biografia, Roma, Donzelli, 2006
a Attilio Bertolucci
Del Correggio la dolcezza immaginando
la tinta dei contrasti, quasi avorio
nel primo attacco dell’inverno come
se fossero esistite
già nel dolore per la morte
di una bambina
nella voglia improvvisa di parlarne
che non è proprio dolore
e intanto si dirama e non è più
come prima – superstite stupore
pianto tepore della voce sempre uguale
in lei tua sorella maggiore.
da Serraglio primaverile, cit.; e in La passione della biografia, cit.

Rembrandt
I
Troppo occupato per poter viaggiare
dotato di prodigiosa fantasia
sembra che non abbia tuttavia
mai dipinto un vaso di fiori.
Gli interessava la dissezione anatomica
che immancabilmente però
e diversamente dalla scena da lui nel 1632 raffigurata
dallo stomaco iniziava
non dalla mano
II
Non era sempre solo nelle sue passeggiate
in quegli «anni del paesaggio» nei panorami
aperti e ventosi mentre si preparava a quanto
gli era stato serbato:
la morte di Saskia quando Titus
aveva appena un anno –
la cacciata di Geertge in un riformatorio –
Hendrickje fedele domestica e moglie
morta forse di peste –
Intanto sempre più gli piaceva
frequentare basse compagnie
III
Intransigente lo sguardo severa la bocca
nella sua faccia plebea
non si stancava di usare
come modello se stesso
pur di aiutarsi nello studio dell’uomo.
Il nudo e il paesaggio gli insegnarono
il peso dello spazio la continuità
delle forme del corpo
IV
Intimità e quiete
in una «Adorazione dei pastori»
dipinta su tela e in cornice nera
la parte superiore ovale
racchiusa in dorature e fogliame
per le sue ampie e giustapposte pennellate
è deliberatamente destinata
a essere guardata a distanza
V
Ruffo nel 1661 commissionò altri due quadri
e proprio l’anno della morte – nel 1669 –
l’ammiratore siciliano ordinò e ricevette
189 acqueforti dal maestro
sta sul tavolo accanto alla finestra
il bouquet bianco e rosso nella brocca
sopra la leggera tovaglia estiva
non ricordato non dimenticato
da La passione della biografia, cit.
Stilleben
Il suo infantile desiderio
che tutto la neve ricopra
la neve-meraviglia sul pane e la brocca del vino
sui tavoli e le mensole
come se un velo potesse
separarlo dal piccolo regno
la vita silenziosa delle cose
che lo guardano morire.
da La passione della biografia, cit.
La vista improvvisamente accecata
la fa ammutolire – piano e delicatamente anche
le parole si sottraggono lasciando lo spazio oscillare
nella mente e tutt’intorno ai fianchi, alle braccia
per ricomporsi sempre in un solo punto
nella stessa luce del giorno in cui lei se n’era andata
la calma ardente di quando la tenebra discese
e l’aria non era ancora primaverile
da «Poeti e poesia», 2008, 15
Da Philippe Jaccottet
Un uomo che invecchia è un uomo pieno di immagini dure come ferro a trafiggergli la vita, con quei chiodi dentro la gola il suo canto nessuno si aspetti. La luce un tempo nutriva la sua bocca, adesso egli si domina e ragiona. Del dolore, della gioia si può certo ragionare, dimostrare, così pare, quasi facilmente l’inanità dell’uomo. Si può parlare come parlo io adesso in questa stanza non ancora macerie, con queste labbra non ancora cucite dal filo della morte, indefinitamente. Eppure sembra che proprio questa specie di parola, breve o prolissa, autoritaria sempre, cupa, come cieca, manchi ormai il suo oggetto qualsiasi oggetto, girando all’infinito su se stessa, sempre più vuota, mentre più lontano di lei o solo a lei accanto, risiede ciò che essa lungamente ha cercato. Spetta dunque alle parole far sentire ciò che sfugge loro, che viene a mancare, il loro rovescio di cui sono spossessate? In loro mi perdo di nuovo, di nuovo esse mi fanno velo, non ne conosco più il giusto uso, quando sempre più lontano tutto il resto ignoto si ritira, la chiave dorata, e già la luce viene meno, la luce dei miei occhi...
da «Rivista di estetica», 1997, 4

Cosimo Ortesta
Tutte le poesie
a cura di Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito
Argolibri 2022, pp. 353, € 18
In copertina: Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632