Prende le mosse giovedì alle 10 per proseguire anche venerdì al Teatro Niccolini di Firenze, il primo convegno mai realizzato su Giulio Paolini. Intitolato L’artista ringrazia. Genealogie: le fonti artistiche e letterarie di Giulio Paolini, è curato dalla Fondazione Anna e Giulio Paolini unitamente al Museo Novecento, in occasione della mostra a cura di Bettina Della Casa e Sergio Risaliti, Quando è il presente? (visitabile sino al 7 settembre), e si concentra sulle «fonti» («modelli e trasfigurazioni»: interventi di Flavio Fergonzi, Claudio Zambianchi e Giuliano Sergio), i «compagni di viaggio» («vicende parallele»: con Denis Viva e Roberta Minnucci), i «parenti lontani e vicini» («il tempo dell’arte»: con Lucia Corrain e Francesco Guzzetti) e gli «echi letterari» (interventi di Saretto Cincinelli, Andrea Cortellessa, Fabio Belloni ed Elio Grazioli). Per la cortesia degli organizzatori, si propone qui in forma abbreviata l’intervento di Andrea Cortellessa.

Palomar s’intitola quest’opera di Giulio Paolini, esposta per la prima volta a Torino nella strada dell’artista, Via Po, nel 1998. Ma non è certo l’unico omaggio che Paolini abbia voluto rendere a Italo Calvino. Ricordo fra gli ultimi il collage Ermite à Paris, del 2011-12, tra quelli esposti alla personale londinese di tre anni fa, Sale d’attesa, il cui titolo riprende quello d’un suo racconto autobiografico del ’74, ma nel quale figurativamente si allude a uno dei più noti ritratti fotografici di Calvino, quello di Gianni Giansanti nel quale lo scrittore, così rendendo omaggio insieme a Parmigianino ed Escher, ne tiene in mano uno:


L’ultimo romanzo pubblicato da Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, esce nell’estate del 1979 e dopo una nutrita serie di recensioni, il 28 luglio, su «Tuttolibri» esce un’ampia replica in forma di intervista, col titolo “flaubertiano” Ludmilla sono io e a firma di un insider einaudiano di lunga data come Nico Orengo. L’agnizione di lettura non è messa in bocca all’interessato; il quale però non smentisce l’intervistatore quando afferma che la chiave del romanzo, che tante discussioni stava sollevando, la si poteva trovare «punto per punto» in una sede assai visibile come «l’introduzione a Idem, il libro di Giulio Paolini pubblicato da Einaudi. I segni dell’uno e la scrittura dell’altro hanno molti punti di incontro, e capita spesso di riconoscerli nelle reciproche opere; succede così che Paolini nel libro di Calvino diventi Irnerio, un ragazzo che i libri non li legge, ma li usa per creare libri e sculture».


Importanti sono da un lato il riferimento al testo nel ’75 premesso da Calvino al libro di Paolini, La squadratura – la cui funzione di “cartone” o meglio “disegno” preparatorio, al romanzo uscito quattro anni dopo, da presto s’è fatta comune nella critica sullo scrittore e sull’artista –; e dall’altro la “visita” resa, se così si può dire, da Paolini a Calvino nel corpo stesso del suo romanzo: aspetto, questo secondo e reciproco, che risulta invece assai meno analizzato dell’altro.
Stando ai documenti conservati nell’archivio dell’artista, dei quali con la consueta cortese efficienza mi hanno messo a parte Bettina Della Casa e Maddalena Disch, non esistevano rapporti personali fra lui e lo scrittore prima che Giulio Einaudi, dopo aver visto una personale di Paolini – quella inauguratasi allo Studio Marconi di Milano nel novembre del 1973 –, ebbe l’idea di chiedere a Calvino un testo per il libro che in quell’occasione propose all’artista di realizzare.
All’inizio del ’74 Calvino si mette al lavoro. Il 13 gennaio, scrivendo all’artista, mostra di avere già le idee piuttosto chiare: «ho letto con molto interesse il libro di Celant che è un ottimo libro, veramente raro che una monografia d’arte comunichi un discorso di una tale presa per la sua tenuta intellettuale, il suo rigore, dove tutto è chiaro e necessario» (si tratta del libro pubblicato da Sonnabend, nel ’72, in occasione della personale di New York).


Prosegue Calvino: «la tua posizione si distingue dalle estetiche vitaliste e da quelle concettuali-verbali, così come la tua filosofia nel suo spazio mentale e nelle sue espressioni materiali mi suonano molto congeniali. E lo stesso si dica delle tue scelte letterarie che in qualche caso espliciti […] fin d’ora posso essere sicuro che un dialogo tra noi, […] può riuscire e – almeno a me – essere utile». Venendo al sodo, conclude Calvino: «Quanto a un testo da libro non so proprio ancora dirti se mi verrà da toccare la via, il punto d’incontro tra l’ascetismo assoluto della tua analisi linguistica e le mie esplorazioni delle potenzialità del linguaggio narrativo che partono da un’esperienza di fondo più eclettica come quella della cultura letteraria da cui prendo le mosse. Insomma vedremo. L’importante è che ci teniamo in contatto».
In effetti saranno proprio le potenzialità del linguaggio narrativo, e la sua ecletticità, a venire esplorate da Calvino nel prosieguo del suo dialogo a distanza con Paolini. L’influsso della Squadratura sul romanzo a venire è evidente nelle righe finali, dove lo scrittore evidenzia appunto la molteplicità dell’opera di un artista che realizza di continuo «nuove opere che contengano le precedenti, le unifichino e insieme le confermino come distinte»: cosicché queste opere, «messe una dopo l’altra, raccontano la storia di lui che pensa e realizza quest’opera dopo quell’altra e prima di un’altra ancora».
Dunque è proprio la reciproca messa in serie dell’uno dopo l’altro (e anzi incastrati l’uno dentro l’altro) a far sì che questi addendi – i quali invece, presi ciascuno per sé, non rinviano che a sé stessi – compongano un racconto: come quello che di lì a un paio d’anni metterà in cantiere Calvino. E anzi, aggiunge lo scrittore con un quanto forse di provocazione, un’«autobiografia»: l’unica concessa a chi sia uso cancellare l’io che agisce – lo scrittore dai suoi testi, l’artista dalle sue opere – dagli esiti delle proprie azioni. Un celebre passo di Se una notte d’inverno un viaggiatore – «Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona! […] Se fossi solo una mano, una mano mozza che impugna una penna e scrive… Chi muoverebbe questa mano? La folla anonima? Lo spirito dei tempi? L’inconscio collettivo? Non so» – parafraserà un altrettanto noto passo della Squadratura in cui Calvino attribuisce a Paolini «la grande modestia e la grande ambizione» di «annullare l’io individuale per identificarsi con l’io della pittura d’ogni tempo, l’io collettivo dei grandi pittori del passato, la potenzialità stessa della pittura».
Eppure quest’ambizione all’impersonalità non impedisce allo scrittore che la nutre – né a suo parere, s’è visto, all’artista cui si riferisce – la prassi dell’autobiografia. In questi stessi anni infatti Calvino sta pensando al libro che avrebbe dovuto seguire Palomar, quello che risulterà invece il suo ultimo libro di narrativa. Questo libro direttamente autobiografico doveva intitolarsi Passaggi obbligati e avrebbe raccolto pagine anche remote, risalenti ai primi anni Sessanta. Conclude Calvino La squadratura dicendo delle opere di Paolini che «lo scrittore guardandole già riesce a leggere gli incipit d’innumerevoli volumi, la biblioteca d’apocrifi che vorrebbe scrivere»: è appunto l’annuncio dell’iper-romanzo a venire (il quale fra l’altro recherà a lungo, nelle sue carte, il titolo di lavoro appunto di Incipit). Il rapporto con l’invenzione narrativa risulta ancor più stretto in una redazione alternativa, del testo su Paolini, che consta di quattordici cartelle dattiloscritte e resta tuttora inedita (grazie alla cortesia della dottoressa Eleonora Cardinale, ho potuto appurare per questa occasione che il testo non figura tra le carte di Calvino di recente depositate dai suoi eredi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma); se ne dà notizia nelle note ai «Meridiani» di Calvino. Come annota appunto Bruno Falcetto, se nella Squadratura pubblicata su Idem lo sguardo, com’è del resto naturale data la sede di pubblicazione, si concentra sul modo di lavorare di Paolini, in questa redazione alternativa l’attenzione si concentra piuttosto sui problemi tecnici e i progetti compositivi dello scrittore: in particolare sull’artificio che più visibilmente connoterà la struttura di Se una notte d’inverno un viaggiatore, ossia la successione di incipit di romanzi non proseguiti (e non racconti in sé compiuti). In attesa di poter prendere direttamente visione delle carte relative, pare di capire che – piuttosto di una redazione anteriore scartata dall’autore in favore di un testo più “di servizio” – si tratti di una specie di ibrido saggistico-narrativo col quale Calvino pensava di sviluppare La squadratura, per poi soprassedere dedicandosi a una scrittura più schiettamente (e compiaciutamente) romanzesca.
Come che sia, in queste pagine inedite si legge fra l’altro: «Quello che per il pittore è la squadratura della tela, per lo scrittore è l’incipit, la formula d’apertura che può anche essere anonima, di repertorio, l’alpha di ogni possibile finzione scrittoria, non ancora proprio la finzione ma l’avviso che nella finzione si sta entrando. […] Lo scrittore vorrebbe scrivere un’opera che fosse solo un incipit, la promessa di un tempo di lettura che si stende davanti alla mente, un’attesa che non perda nulla della propria potenzialità realizzandola in un testo ed escludendo tutti gli altri sviluppi in essa impliciti». Alla fine del diario dell’immaginario scrittore Silas Flannery, di cui si sostanzia l’ottavo capitolo del romanzo, si legge questa sua mise en abîme: «M’è venuta l’idea di scrivere un romanzo fatto solo d’inizi di romanzo. Il protagonista potrebb’essere un Lettore che viene continuamente interrotto. Il Lettore acquista il nuovo romanzo A dell’autore Z. Ma è una copia difettosa, e non riesce ad andare oltre l’inizio… Torna in libreria per farsi cambiare il volume… | Potrei scriverlo tutto in seconda persona: tu Lettore… Potrei anche farci entrare una Lettrice, un traduttore falsario, un vecchio scrittore che tiene un diario come questo diario…».
Nel capitolo precedente era stata anche descritta «l’ultima opera dello scultore Irnerio»: «la pagina il cui angolo avevi ripiegato per tenere il segno si stende su una delle basi d’un parallelepipedo compatto, incollato, verniciato con una resina trasparente. Un’ombra bruciaticcia, come di fiamma che si sprigioni dall’interno del libro, ondula la superficie della pagina e vi apre una successione di strati come nella nodosità d’una scorza». Anche previa consultazione del monumentale Catalogo ragionato curato nel 2008 da Maddalena Disch, resta difficile dire di quale opera possa trattarsi; persino l’onniscienza di Della Casa e della stessa Disch – degna del Funes el memorioso di borgesiana memoria – è riuscita a ipotizzare solo opere successive al ’79. Quella che più si avvicina, almeno come data, è una delle nove tele esposte a Berna, nell’80, col titolo Mnemosine; fra le poche di Paolini a presentare in effetti qualche traccia di fiamma, appare comunque piuttosto diversa dalla descrizione di Calvino (difficilmente la superficie percorsa dalla bruciatura può apparire una pagina, men che meno una scorza):

L’ekphrasis del romanzo, in ogni caso, può fungere da epitome ideale dello stile di Paolini. Ma a livello di ideazione concettuale la moltiplicazione degli incipit credo sia stata ispirata a Calvino, invece, da un lavoro preciso dell’artista. Già dal titolo La squadratura richiama com’è ovvio la totemica opera d’esordio di Paolini, Disegno geometrico:

Proprio quest’opera, in quanto «disegno preliminare di qualsiasi disegno» (autodefinizione, questa, che Calvino preleva proprio dalla monografia di Celant da lui tanto pregiata), si configura quale incipit ideale e per così dire assoluto: non solo dell’opera del suo autore (il quale simbolicamente, e a dispetto di juvenilia resi noti après coup, con essa farà iniziare la numerazione del suo Catalogo ragionato), ma dell’atto del dipingere in sé.
Nella Squadratura Paolini viene definito «pittore», in Se una notte un viaggiatore «scultore». Ma alle spalle di entrambi c’è la funzione che più interessa a Calvino, quella del disegnatore. Una volta ha detto Paolini di aver scritto «sul suo documento d’identità la professione di “disegnatore”»: in quanto «a differenza della pittura, della scultura o di altre tecniche […], il disegno lascia trasparire le premesse, il dato iniziale, consentendo così di prefigurare […] il risultato finale». Chi disegna dunque compone sempre una premessa, una prefigurazione, un incipit insomma. Nello stesso ’75 della Squadratura, Calvino dedica un pezzo della sua serie «Palomar» a Michelangelo, iniziandolo con una celebre citazione dai suoi Dialoghi romani con Francisco de Holanda: «Talvolta io penso e immagino che tra gli uomini esiste una sola arte e scienza, e che questa sia il disegnare o dipingere, e che tutte le altre siano sue derivazioni». La stessa frase ripete due anni dopo in un articolo su Saul Steinberg, La penna in prima persona (nell’84 incluso nell’ultimo libro licenziato per le stampe, Collezione di sabbia), che inizia con una ancor più celebre citazione da Guido Cavalcanti, «Noi siàn le triste penne isbigottite, / le cesoiuzze e ’l coltellin dolente…». Questa autoreferenzialità materiale della scrittura è secondo Calvino l’inizio della «poesia moderna», ma anche la sua fine: perché subito dopo, da Petrarca in poi, i poeti non smetteranno di fingere di vivere quanto descrivono «mentre invece sono seduti tranquilli nel loro studio, […] cesellando i loro versi con piena soddisfazione». Alla maniera di Cavalcanti, diciamo, nella Squadratura il maggior elogio fatto a Paolini è quello alla sua letteralità materiale: a quadri cioè che, «in un’epoca in cui l’arte è continuamente tentata d’implicare qualcos’altro oppure il tutto», fanno invece venire «in mente solo la tela, il telaio, il cavalletto, eccetera». Il pennello in prima persona, si può allora parafrasare, è l’invenzione decisiva di Paolini.
Ma l’artista non si è limitato a comporre il disegno preliminare di qualsiasi disegno. Se a questo si fosse fermato, il suo gesto sarebbe stato insieme iniziale e conclusivo e, una volta compiuta l’opera incipitaria, avrebbe potuto definitivamente deporre il pennello (non a caso, rifletterà in seguito Paolini, quel suo quadro per eccellenza «primo» è anche, e sin dall’inizio, il suo «ultimo»). Quello che davvero interessa a Calvino è che Paolini, invece, quel disegno lo ripete: in almeno un’occasione quell’immagine l’ha riprodotta identica, ripetendola quattordici volte. Si tratta dell’opera Un quadro ed è del 1970. Ho detto che l’immagine è identica a quella di cui celebra il decennale, ma è lecito affermarlo solo in senso «retinico», per dirla à la Duchamp: c’è invece una differenza sostanziale, in termini concettuali, ed è l’attribuzione di ciascun addendo a un diverso autore di fantasia – si possono definire «eteronimi», alla maniera di Pessoa – come quelli dai nomi allusivi di «José Alfonso Berkeley» o «Jacques Louis Morel». Ogni “copia” è anche provvista d’un titolo a sua volta apocrifo, parimenti scritto al verso della tela, e più o meno consonante con la provenienza dei rispettivi, ipotetici autori (per esempio l’opera di «Ahmed Barka» s’intitolerebbe «Mercato tunisino»).
Mentre l’“originale” del Disegno geometrico sempre più di rado verrà esposto – come a sottolinearne il valore di fondamento invisibile di tutto quanto è seguito – le “copie” di Un quadro da subito diventano protagoniste delle mostre di Paolini. Fabio Belloni ne ha ricostruito le fortune, sottolineando come proprio a partire da questo gesto di moltiplicazione il Disegno geometrico «assunse il valore col quale ancora oggi si impone nel catalogo dell’artista». Ed è infatti proprio quest’opera “seconda”, e non quella archetipica dalla quale deriva, ad aver dato a Calvino l’idea del suo romanzo. Lo ha suggerito nel 2012 Ilaria Splendorini, che ha fatto pure notare come alla fine della Squadratura, prima di annunciare la sua «biblioteca d’apocrifi», Calvino alluda precisamente alla moltiplicazione del Disegno nelle “copie differenti” di Un quadro: «Le fotografie di questa tela squadrata potranno riempire il catalogo d’una pinacoteca immaginaria, ripetute identiche ogni volta col nome d’un pittore inventato, con titoli di quadri possibili o impossibili che basta aguzzare lo sguardo per vedere».
Le copie sono rese differenti proprio dall’«effetto di apocrifo» conferito dagli eteronimi di fantasia. Tanto è vero che quando nel romanzo di Calvino s’incontrano invece copie davvero identiche (cioè pagine meccanicamente ripetute, per un errore di rilegatura, in una copia fallata capitata fra sue mani), il Lettore «scaglia il libro contro il pavimento», e dalla rabbia lo vorrebbe anzi espellere «dal sistema solare, dalla galassia». Viceversa lo spossessamento dell’io moltiplicato di Paolini si rispecchia nella «biblioteca» degli infra-romanzi rappresentati dagli incipit riportati nell’iper-romanzo di Calvino, e soprattutto nella moltiplicazione dei titoli apocrifi e degli autori di fantasia cui sono più o meno esplicitamente attribuiti, come il già citato «Silas Flannery»: la cui funzione di “specchio interno” all’opera raddoppia la stessa moltiplicazione entro la quale agisce (lo stesso aveva fatto Paolini, nel ’73, con un’opera dal titolo preso da Raymond Roussel, La Doublure, che appunto raddoppiava a specchio i quattordici addendi di Un quadro: ce ne parlerà più avanti, presumo, Elio Grazioli). Una versione ancora più ravvicinata al gesto concettuale di Un quadro viene accennata quando Flannery si mette «a copiare le prime frasi d’un romanzo famoso», e deve resistere alla «tentazione di copiare tutto Delitto e castigo». Alle spalle di entrambi, naturalmente, il Pierre Menard al quale Borges fa ricopiare il Don Chisciotte (e come Borges sia stato assunto a maestro dal pittore, almeno quanto dallo scrittore, ce lo spiegherà fra poco Fabio Belloni).
Fatto sta che anche per la portata del suo influsso a Paolini un posto spettava di diritto, all’interno del romanzo che tanto gli si è ispirato. Una prima, cursoria apparizione di «Irnerio», «giovanotto dinoccolato […] estroverso e ben informato», si ha nel terzo capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Della sua figura viene messo a fuoco, et pour cause, anzitutto lo sguardo dalla «larga pupilla chiara e guizzante»: «occhi a cui nulla sfugge». Al Lettore, pur non conoscendolo ancora, si rivolge in tono confidenziale: gli «basta un’occhiata», appunto, per capire che a sua volta è legato alla sua amica Ludmilla. Già in questo primo flash, Irnerio ci viene presentato con un suo connotato-chiave: è uno che come vedremo i libri li maneggia ma, a differenza dei suoi interlocutori, si guarda bene dal leggerli: «Io non leggo libri! […] Mi sono abituato così bene a non leggere che non leggo neanche quello che mi capita sotto gli occhi per caso». Anche ai libri, per ispirarsene, gli basta un’occhiata: è naturale che al Lettore, suo antipode perfetto nel quale suscita subito una gelosia pungente, appaia come «un barbaro invasore».
Come tale continuerà a manifestarsi nel capitolo del romanzo, il settimo, in cui gioca un ruolo ben più sostanzioso. Il Lettore si trova nell’appartamento di Ludmilla, passa in rassegna le fotografie da lei conservate, ovviamente scruta a lungo i libri riposti sui suoi scaffali, quando all’improvviso sente «una chiave girare nella toppa»; dopo qualche istante vede «un uomo», all’inizio niente più di un’«ombra», che «evoluziona nell’ingresso». Infine «lo riconosce. È Irnerio»: il quale, si capirà in seguito, ha licenza di «andare e venire senza dir nulla» dall’appartamento della Lettrice. A sua volta si mette a «frugare intorno, maneggiare i libri», provocando nel Lettore un’obiezione stizzita: «Credevo che non leggessi mai». A questo punto Irnerio rivela la natura della sua attrazione per i libri, e insieme del suo rapporto con Ludmilla: «Non è per leggere. È per fare. Faccio delle cose coi libri. Degli oggetti. Sì, delle opere: statue, quadri, come li vuoi chiamare. Ho fatto anche un’esposizione. Fisso i libri con delle resine, e restano lì. Chiusi, o aperti, oppure anche gli do delle forme, li scolpisco, gli apro dentro dei buchi. È una bella materia il libro, per lavorarci, ci si può fare tante cose». Ludmilla è la sua consulente in fatto di libri: «Le piacciono, i miei lavori. Mi dà consigli. I critici mi dicono che quel che faccio è importante. Adesso mi mettono tutte le opere in un libro. […] Un libro con le fotografie di tutti i miei libri. Quando questo libro sarà stampato lo userò per farne un’opera, tante opere. Poi me le metteranno in un altro libro, e così via». Dove come si vede nell’iper-romanzo viene attirato non solo l’«invasore» Pittore (o Scultore) ma anche il libro, Idem, che ha segnato il suo incontro con lo Scrittore, cioè il Lettore.
Le evoluzioni di Irnerio, come le chiama il narratore, non si producono mai negli infra-romanzi, bensì come abbiamo visto nei capitoli che li introducono e che altresì vi si introducono: cioè quelle che sono definite le «cornici» del testo. Si può dire che la letteratura italiana nasca già in cornice, dal momento che questo artificio strutturale connota tanto il simbolico esordio della nostra poesia, la Vita nova di Dante, che quello della nostra narrativa, il Decameron di Boccaccio: ogni poesia del primo (il quale d’altronde si mette in scena, nel testo, nelle vesti di un disegnatore), come ogni novella del secondo, è trattata alla stregua di un “quadro” in un’esposizione: dove le rispettive “mostre”, si capisce, sono i testi che le includono. Dopo la storica introduzione al problema da parte di Viktor Šklovskij fu proprio commentando due libri di Calvino, Gli idilli difficili del ’58 e Marcovaldo del ’63, che Maria Corti lo mise a fuoco definitivamente, giusto nel ’75, con un saggio che ha fatto scuola. Tanto che nella già citata intervista a Orengo si riporta l’opinione maliziosa di Edoardo Sanguineti, secondo il quale il romanzo era scritto idealmente per una Lettrice specifica, cioè appunto Maria Corti, e poi si usa con disinvoltura la nozione di «cornice»: dice Calvino che è stato «il divario stilistico tra la cornice e gli incipit […] il problema che gli ha dato maggior lavoro», e aggiunge che «se potesse cercherebbe di trovare delle cornici anche per tutti i suoi racconti precedenti».
Non c’è dubbio che fra gli artisti del suo tempo sia stato proprio Paolini ad aver maggiormente valorizzato la funzione strutturale, ma anche la materiale consistenza, appunto della cornice. Non la menziona Calvino, nella Squadratura, tra le componenti appunto materiali della pittura («la tela, il telaio, il cavalletto, eccetera») sulle quali l’artista ha il merito di concentrarsi, ma nella serie di ekphrasis da lui dedicate ai lavori di Paolini particolare attenzione riserva a quelli in cui, anziché (auto)ritrarre «il pittore che dipinge, o che, peggio ancora, dipinge se stesso», lo si «fotografa mentre solleva la tela, prende a proprio carico il suo peso, si fa supporto lui stesso», «oppure si fotograferà il pittore mentre trasporta la tela su cui è fotografato il pittore che trasporta la tela». Le opere descritte sono quelle ben note del ’65 in cui s’intravede l’artista che cammina appunto per le strade di Torino con una tela in mano; una di queste opere s’intitola Diaframma 8 (alludendo a quello del fotografo, Franco Aschieri, che ha realizzato l’immagine), mentre l’ultima citata da Calvino, di due anni successiva, è D867, nel cui abîme è iscritta appunto Diaframma 8:


In quest’ultimo lavoro davvero l’artista appare come supporto, o se vogliamo cornice, dell’opera che vi è inclusa. Ma è anche – per esempio, otticamente, in Diaframma 8 –il diaframma che, almeno in parte, da quell’opera separa il nostro sguardo. Tale prossemica è più evidente in un lavoro del ’66, Anna-logia:

Ci si ricorda allora di quel passo che citavo prima, di Se una notte d’inverno un viaggiatore, dove il narratore deplora il «mettersi di mezzo», fra il «foglio bianco» e le «parole» e «storie che prendono forma», di «quello scomodo diaframma che è la mia persona». Nel libro introdotto dalla Squadratura, Idem, aveva scritto Paolini: «finora era il linguaggio in se stesso a presumere un’immagine: ora è l’immagine (presunta) che tende ad illustrare l’enigma del linguaggio. Questi quadri sono dunque il diaframma tra il mio lavoro e il mio modo di vederlo». Forse non è un caso allora se uno degli omaggi di Paolini a Calvino, quello col titolo Ultima edizione donato al numero nel ’95 dedicato allo scrittore dalla rivista diretta da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli, «Riga», presenti una delle sue fotografie più note entro il cui diaframma è stata inserita, alla maniera di D867, un’altra e più nota opera di Paolini, Lezione di pittura:

Si sarà però notato come mentre in Calvino il diaframma è l’autore, in Paolini sia l’opera: nel primo caso si tratta, in negativo, dell’ostacolo fra il supporto (il foglio bianco) e l’opera che vi si iscrive (le storie); nel secondo, in positivo o almeno in termini neutri, del tramite tra l’opera(il mio lavoro) e lo sguardo di chi la compone (il mio modo di vederlo). A questo forse alludeva Calvino quando ricordava, dopo i diversi aspetti che a Paolini lo avvicinano, quello che a suo parere da lui lo distingue: «riflettendo alle produzioni del pittore, lo scrittore lo vede ruotare mosse da quell’armonioso meccanismo del pensiero che è la tautologia». Questa «può essere intesa come un gioco di specchi o come la manifestazione più incontrovertibile della verità», ma in entrambi i casi è un incantesimo: «basta entrarci e non si vuole più uscirne». Per aggiungere però che secondo lui «le forme d’inesauribile raggiungimento della verità sono due: la tautologia e l’anfibologia: così pensa lo scrittore, che propende per la seconda».
L’anfibologia è la condizione in cui il senso di un’espressione risulta ambiguo a seconda della posizione, e dunque della reciproca valenza, dei termini che la compongono; caso di scuola è l’antico oracolo latino commentato dal grammatico medievale Alberico delle Tre Fontane, «ibis redibis non morieris in bello»: riportata priva di punteggiatura, e dunque col non riferibile tanto a quanto precede che a quanto segue, la frase può voler dire «andrai, ritornerai, non morirai in guerra» oppure, viceversa, «andrai, non tornerai, morirai in guerra». Più in generale, ha sintetizzato Marco Belpoliti, «la letteratura è sempre ambigua, anfibologica». In un passo della solo abbozzata sesta “lezione americana”, che nelle sue carte reca il titolo Cominciare e finire, Calvino distingue due tipi di finali nelle opere letterarie: in quelle «tradizionali» lo scioglimento dà al testo un senso univoco («l’eroe raggiunge la maturità», del delitto «il colpevole è stato scoperto», ecc.), nelle altre l’esito finale non è altrettanto netto e «il finale veramente importante è quello che come nell’Education sentimentale mette in discussione tutta la narrazione, la gerarchia di valori che presiede al romanzo», e «tutto si sfalda come una montagna di cenere».
Nulla di tutto ciò, in apparenza, in Se una notte d’inverno un viaggiatore: dove lo scioglimento – in clausola al sovrannumerario capitolo undicesimo – è il più scontato e prevedibile. Il settimo e ultimo dei lettori ivi convocati commenta infatti: «anticamente un racconto aveva due modi per finire: passare tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano». Se il libro successivo, Palomar, si concluderà col protagonista che «impara a essere morto», e poi appunto muore, questo romanzo si conclude col Lettore che «fulmineamente decide che vuole sposare Ludmilla». Se però, anziché metterci l’anima in pace col finale “ufficiale” del testo, comunque retrocediamo alla maniera dell’Education sentimentale, cercando di scioglierne a posteriori le aporie interne, ci rendiamo conto che in un libro che si vorrebbe così trasparente – come il vetro della bottiglia in copertina – sono tante le cose che, a guardarle con più attenzione, non tornano così facilmente.
La contrastata storia fra il Lettore e la Lettrice, come in ogni romanzo d’amore che si rispetti, è ostacolata da una serie di attanti che fungono da ostacoli, più o meno espliciti rivali del protagonista. Lui sa bene «che la casa di Ludmilla è aperta agli amici: la chiave è sotto lo zerbino»; tanto che ogni volta che si trova lì gli pare «d’esser sfiorato da ombre senza volto». Quando vi penetra Irnerio è quasi sollevato: lui «almeno è un fantasma conosciuto». Altri deuteragonisti, come il malevolo falsario «Ermes Marana» che non cessa di scompigliare le carte dell’intreccio, sono senz’altro più sfuggenti di lui; fra questi ce n’è uno senza nome, un «partner fantasmatico» che Ludmilla «nella penombra della sua semicoscienza» si foggia leggendo, e il Lettore definisce l’«apocrifo visitatore dei suoi sogni». Il Lettore s’interroga sul «rivale invisibile» che si frappone fra sé, il rivale visibile Marana e appunto la Lettrice: è «la voce silenziosa che le parla attraverso i libri, questo fantasma dai mille volti e senza volto». Non si tratta di un rivale in carne e ossa (si fa per dire), come Marana o Irnerio, ma della «funzione dell’autore» stesso, cioè quello che in narratologia viene definito narratore implicito: è la sua, ovviamente, la voce senza nome che sin dall’inizio ci parla nel testo. È Calvino stesso, insomma, l’innominabile: il diaframma che l’artificio costruttivo di Se una notte d’inverno un viaggiatore ha assottigliato il più possibile, senza però poterne evitare la strutturale, ineludibile maledizione.
Ma se questo enigma pare risolto ne resta un altro: simmetrico e, con ogni probabilità, sottilmente collegato al primo. Che fine ha fatto lo scultore Irnerio? Nella Squadratura, commentando il Giovane che guarda Lorenzo Lotto, s’interroga Calvino sulla “reale” identità di colui che ha composto l’immagine, e si risponde con un enigma ulteriore: «in che misura il quadro rappresenti, anzi “fotografi” l’immagine mentale preesistente, il “fantasma” non potrà mai essere definito». Probabilmente, per scoprire dove s’è cacciato il fantasma conosciuto che è «Irnerio», dobbiamo esondare dalla cornice, dove lo credevamo relegato, per proditoriamente introdurci nel quadro. Da prendere in considerazione, insomma, sono le trame dei dieci infra-romanzi contenuti in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Il maggior indiziato mi pare il terzo (che poi è il mio preferito), il quale reca il titolo Sporgendosi dalla costa scoscesa ed è attribuito allo scrittore «cimmerio» (appartenente cioè a una popolazione scomparsa: due volte fantasma, insomma) «Ukko Athi». È l’infra-romanzo che segue la prima apparizione di Irnerio. Qui un Io narrante inseguito dalla sensazione «che il mondo voglia dirgli qualcosa, mandargli messaggi, avvisi, segnali», e che si aggira nei pressi di un «osservatorio meteorologico», si confronta con una deuteragonista, «la signorina Zwida», che «raccoglie e disegna conchiglie» in una «ricerca della perfezione», una tentazione che l’Io narrante «rifiuta». Come in diversi altri infra-romanzi, evidenti sono le analogie en abîme fra i ruoli attanziali svolti dai personaggi con quelli della cornice: la signorina Zwida è infatti avatar trasparente della Lettrice, come l’anonimo io narrante lo è del Lettore. L’osservatorio meteorologico, invece, evoca quello astronomico che darà il titolo al libro successivo di Calvino, Palomar.
In questa località, pseudoscandinava o pseudopolacca, c’è anche una prigione: la signorina è solita recarvisi nei «giorni di visita e sedersi al tavolo del parlatorio coi suoi fogli da disegno e il carboncino». Anche l’Io narrante si sente prigioniero di qualcosa che non sa definire; sa solo che sta inseguendo «la via d’un’evasione, forse d’una metamorfosi, d’una resurrezione». Il romanzo s’interrompe ex abrupto quando nei pressi dell’osservatorio meteorologico l’Io narrante s’imbatte in «un uomo barbuto, vestito d’una rozza giubba a strisce fradicia di pioggia», che lo «guarda con fermi occhi chiari» e dichiara di essere un «evaso», chiedendogli di trasmettere un messaggio alla signorina Zwida. Forse è lui il prigioniero che lei andava a ritrarre, quando andava in parlatorio col suo blocco da disegno (o forse a lui consegnava carta e carboncino). Allora il narratore «sente subito che nell’ordine perfetto dell’universo s’è aperta una breccia, uno squarcio irreparabile».
Ambigua, o anfibologica, questa catastrofe in clausola: da un lato si è prodotta in effetti l’evasione, in precedenza vagheggiata dal narratore, dallo schema prevedibile simboleggiato dagli «strumenti meteorologici […] in grado di padroneggiare le forze dell’universo e di riconoscervi un ordine», ovviamente corrispondente alla mania tassonomica di Zwida. Ma dall’altro è palpabile l’angoscia provata dal narratore per questo, vagamente pirandelliano, squarcio irreparabile.
Se leggiamo la metafora del metaromanzo come carcere in continuità con l’apologo “carcerario” precedente, il racconto Il conte di Montecristo contenuto in Ti con zero, è evidente il giro di vite pessimistico di un Calvino che non pare credere più alla raggiungibilità di un mondo “fuori”, quello che in un suo saggio ha chiamato il «mondo non scritto»: l’hors-texte che, si direbbe ora con Derrida, n’existe pas. In una redazione alternativa, e assai meno rassicurante di quella prescelta per la stampa, l’ultima cornice e con essa il romanzo si concludeva così:
– E non c’è via d’uscita?
– Se ogni mondo scritto presuppone un mondo non scritto contrapposto e distinto, dal mondo apocrifo dovrà distaccarsi un mondo trasparente e preciso e ben sfaccettato come un cristallo, un cristallo vivente.
– Cominci a vederlo formarsi?
– Io no. Non il minimo accenno.
– Ma speri di vederlo?
– Non tocca a me sperare. Io sono coinvolto nel processo. Forse tutti noi viviamo di vita apocrifa, e resteremo da questa parte per sempre.
Se però il narratore, relegato sul ciglio della costa scoscesa, è coinvolto nel processo e resta dunque prigioniero da questa parte per sempre, diversa dalla sua come abbiamo visto è la sorte di quel fantasma che, alla fine del terzo infra-romanzo, s’è presentato come un evaso. E che, ci ricordiamo adesso, ha gli occhi chiari e si rivolge a chi narra mostrando una confidenza, per lui fastidiosa, con la signorina dalla quale è attratto. Esattamente come s’era presentato al Lettore, nella cornice subito precedente, lo scultore Irnerio. Certo è arbitrario, ce lo ha detto La squadratura, insistere a voler precisare l’identità di un fantasma mentale come quello incontrato sulla costa scoscesa. Ma irresistibile è la tentazione di pensare che Calvino abbia così voluto indicare una via d’uscita, al gemello da lui così diverso: all’artista che gli ha ispirato questa sua favola così ingannevolmente divertente.
Mettendo in fila tutte le “visite” dell’uno nell’opera dell’altro, parrebbe in ogni caso che il vettore dell’influenza, fra Paolini e Calvino, sia a senso unico: sempre e solo, cioè, dal primo al secondo. Eppure in un’intervista del 2002 a Hans-Ulrich Obrist ha affermato Paolini, pur senza entrare nel dettaglio, che fra i pochi scrittori ad averlo influenzato vi sono Borges e appunto Calvino: i quali gli avrebbero mostrato «certe similitudini fra l’arte e la letteratura». Cosicché, alla chiamata ai lavori di questo convegno, me la sono sentita di proporre un accostamento che, nella genealogia in senso stretto di Paolini, in apparenza c’entra poco. Ma s’è visto come una delle lezioni che lo scrittore sostiene di aver appreso dall’artista ci fosse quella di dedurre, dalla successione delle opere una dopo l’altra, un’autobiografia. Di questa presunta lezione, sino a poco tempo fa, difficilmente Paolini avrebbe potuto riconoscere la paternità. Forse oggi però, passato quasi mezzo secolo dalle parole dell’amico, si potrebbe dire più possibilista. In tanti hanno visto, nella successione dei lavori presentati alla mostra in occasione della quale ci siamo dati convegno, Quando è il presente?, una matrice appunto autobiografica in precedenza, per lui, inedita; e, per quel che vale, io sono d’accordo con loro. Ma soprattutto l’incontro stesso al quale siamo convenuti, per un paradosso squisito, si presenta come l’impossibile autobiografia di un lettore che ha letto tutti i libri ma giura, come abbiamo visto, di non leggerne mai neppure uno.
In copertina: Giulio Paolini, Studio per sala d’attesa (Ermite à Paris), 2011-12