Uno sguardo gentile. Su Joachim Trier

03/06/2022

Joachim Trier è danese, con un nome fin troppo assonante al suo più famoso conterraneo. Il suo cinema, però, ha ben poco in comune con quello di Lars von Trier. Il regista della “trilogia di Oslo” è un autore, allo stesso tempo, più leggero e più profondo. In tutti i film che ha sceneggiato, oltre che diretto, si ha la sensazione di scorgere uno sguardo tanto preciso sulla contemporaneità quanto capace di sospendere il giudizio sui suoi protagonisti. Manca la crudeltà di von Trier, come anche lo sguardo, a volte, moralistico del maestro di entrambi, Bergman. Trier racconta, tesse una trama di senso che non necessariamente si chiude, si condensa in un messaggio, in una tesi. Segue i suoi personaggi; cerca di entrare nella loro psicologia. A volte si arrende e lascia lo spettatore davanti all’impossibilità di comprenderli: loro stessi non arrivano a capirsi davvero. È un cinema dell’approssimazione; si avvicina sempre più, per cerchi concentrici al nucleo, al mistero dell’individuo. Lo spettatore si addentra nella trama del racconto, senza forse mai davvero immedesimarsi, fino a quando il personaggio, la sua instabilità, le sue indecisioni e debolezze si sono trasferite dentro di lui. Non è più l’autore a svelare che “Madame Bovary, c’est moi !”, ma è ognuno di noi a identificarsi, senza un vero processo di empatia o con un’empatia che dovremmo definire “empatia della distanza”, con la fragilità dell’esistenza, delle esistenze che ci scorrono davanti agli occhi.

Anders Danielsen Lie in Oslo, August, 31st (2011)

Trier, come dice un suo personaggio, non cerca di essere poetico e, proprio per questo, riesce ad ottenere storie e immagini che lo sono profondamente. Nulla di più poetico e toccante della scena in cui Anders, protagonista tossicodipendente di Oslo, August 31st, risponde alle domande per un colloquio di lavoro presso la redazione di una rivista. Guardando i volti e le poche parole scambiate tra i due attori, si percorre tutta l’oscillazione di un mondo, anzi, di mondi che confliggono tra loro, senza riuscire davvero a comunicare. Il regista danese, ormai trapiantato in Norvegia, riesce a far risuonare in un unico racconto più tempi, più sguardi, più livelli.

Dall’analisi psicologica di una generazione, instabile e disorientata, che si trasforma con il passare degli anni (il primo “episodio” della trilogia è del 2006 e l’ultimo del 2021) fino alle contraddizioni della società di oggi e di una certa intellighenzia al di fuori del tempo (toccante è la riflessione sul senso della scrittura e sulle sue perversioni in Reprise, dove un ritratto di Bataille appare, come santino ateologico, nello studio dello “sconfitto” Philipp, mentre la figura dell’invisibile Blanchot e del suo omologo norvegese, il personaggio di Sten Egil Dahl, traccia la via dell’amico Erik, alla ricerca dell’assoluto letterario al prezzo di perdere il contatto con la vita – non lontana da questa riflessione sul rapporto tra vita e opera è la sceneggiatura di Oslo, ispirata a Fuoco fatuo di Drieu la Rochelle, da cui Trier sembra ereditare una sorta di “delicatezza”, che lo spinge ad osservare l’esistenza da una certa distanza, quasi distacco, non giudicante ma che gli impedisce di essere davvero e completamente presente).  

Reprise (2006)

Non c’è alcuna sbavatura, i testi delle sue sceneggiature sono perfetti e Trier riesce sempre a farli recitare agli attori, ai suoi attori, con una precisione impressionante. Meritato è, probabilmente, il premio come migliore attrice, di Cannes 2021, per Renate Reinsve ma, sicuramente, superlative sono tutte le interpretazioni di Anders Danielsen Lie, attore tra i più straordinari degli ultimi anni. Tutti i suoi attori recitano in modo eccellente, proprio perché Trier li porta al limite delle loro possibilità, sottraendoli tanto a una recitazione eccessivamente “naturale” quanto ai vezzi virtuosistici dell’attore blasonato.

Isabelle Huppert e Jesse Eisenberg in Louder Than Bombs (2015)

A riprova, interessante è constatare come nel suo film più internazionale, Louder Than Bombs, con i, seppur bravi, Isabelle Huppert e Gabriel Byrne, la personalità, per lo più fossilizzata, del divo prevalga sul personaggio, dando a volte un’idea di eccessiva affettazione. Anders Danielsen Lie sia in Reprise sia in Oslo come anche, per finire, in La persona peggiore del mondo riesce, invece, sempre a passare da un lato all’altro della personalità lacerata del protagonista, con tratti di virtuosismo impressionanti. Nella sua recitazione l’ascissa della finzione tende a zero sfiorando la vita, senza aver mai la pretesa di averla afferrata (il peccato capitale, quest’ultimo, di tutto il cinema pseudo neorealista o documentarista degli ultimi decenni). C’è nel suo sguardo, nel repentino passaggio dalla gioia all’abulia, dalla concentrazione estatica alla disperazione senza via d’uscita un indizio capace di incarnare un’epoca. Credo non sia affatto fuori luogo paragonare Danielsen Lie a quel che fu Max von Sydow per Bergman o Marcello Mastroianni per Fellini e per un’intera generazione.

Renate Reinsve e Anders Danielsen Lie in La persona peggiore del mondo (2021)

Trier, attraverso tutti i suoi film, da Pietà (1999), passando per il sorprendente e anomalo Thelma (2017), fino alla trilogia, mostra che il cinema è ancora in grado di narrare il proprio tempo e di farlo attraverso i volti, gli sguardi, i silenzi e le immagini.

Thelma (2017)

Il cinema è l’antidoto allo spettacolo; è lo spazio visivo in cui l’immagine genera ancora e per sempre visioni, aiutandoci a vedere quel che l’eccesso di esposizione e di immagini della contemporaneità rende invisibile: il nostro sguardo, la nostra capacità di guardarci, senza filtri, senza fughe nell’immaginario, senza condanne, senza crudeltà. Trier ci guarda e ci invita a guardarci. Non commenta. Non aggiunge. Non trae conclusioni. Ma lo fa con una tenerezza e una delicatezza infinita. È uno sguardo gentile, il suo. E non è davvero poco.

Eili Harboe e Joachim Trier sul set di Thelma

In copertina: una scena di Oslo, August 31st (2011), di Joachim Trier

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell’arte” (Sossella, 2021), “L’antinomia critica” (Sossella, 2023) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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