Il rumore ha vinto ma si è salvato il silenzio. Note sul poeta Alfonso Guida

In un glorioso andare al margine
di me, stamattina, nell’aria tersa,
l’azzurro del cielo è giunto fin qua.
A. G.

Scrivo solo di ciò che attraverso, ciò che mi chiama, scrivo solo di ciò che vedo. Mi vedo chiamare e dopo le parole si riuniscono intorno alle mie mani, compongono ciò che vedo e ciò che sento. La scrittura diventa così il fiato della fatica delle parole, guardandole sulle pagine è come asciugare il sudore dalla loro fronte.

Ho cercato il poeta Alfonso Guida; abita a San Mauro Forte, in Basilicata, nella fascia lucana della regione. Per raggiungere San Mauro Forte ci si inerpica attraverso le Dolomiti Lucane, si ha modo di annusare l’odore dell’aria sciolta nella ciotola dei pascoli. Il magnetismo del mistero di questi luoghi tira verso l’alto, il paese è nato sulle grotte. Gli uomini da secoli custodiscono in grandi botti il vino della loro terra. Sono certo che nelle notti stellate con forza le stelle si staccano dal cielo e scendono a inebriarsi di un’altra luce, terreste, il vino di San Mauro Forte. Salendo dopo al cielo ancora più splendenti.

Alfonso abita in due piccole stanze; un terrazzino che si spalanca su una delle valli della Lucania, non è lontano da una torre, non è lontano da un orologio, non è lontano da un’umile cappella. Quando l’ho incontrato le rondini ci turbinavano intorno, disegnando nello spazio, con le punte affilate delle loro ali, le orbite delle parole che ci scambiavamo. Entrambi stavamo dicendo «presente» alla vita, un sottosuolo da portare alla luce dell’amicizia. Questo mi ha condotto nel nido di parole di Alfonso Guida.

Ho udito la prima volta la sonorità linguistica della poesia di Alfonso leggendo
Conversari, una raccolta-atlante di poesie. Ah… se un direttore di Istituto Italiano di Cultura all’estero leggesse per caso queste righe dovrebbe, per serietà di trasmissione culturale del proprio Paese, far immediatamente tradurre la generosità di questa raccolta. Questa «generosità» è un’eccezione. Si naviga al suo interno, nel suo fiume di righe, disegnando continuamente; e continuamente, in scie differenti, si disegna il proprio ritratto, sempre altro, sempre nelle mani e coi piedi di uno straniero, di nostro fratello. A me sembra che queste parole siano scritte con la stessa cura di un cardiochirurgo che mette in vita di nuovo la corrente delle scie del sangue in un cuore. Le parole di queste poesie mi fanno pensare intensamente al destino dell’uomo.

Il poeta più vicino, anche se non c’è timbro simile alla sonorità della lingua di Alfonso, sento che è Edmond Jabès. Egli stesso costruttore di ospitalità, costruttore di parole-casa. Ma ci si può trasferire dal deserto egiziano-parigino di Jabès, e addentrarsi in quello che per me è l’Armenia italiana, la Basilicata di Alfonso. Si ascolta in questa scrittura lo scricchiolio dei legni di un’Arca, in un momento così ottenebrato per il mondo intero. Con i Conversari si ha la possibilità di scalare costoni di parole, ci accompagna verso l’alto della lingua che cura con generosità l’incontro con il nostro destino. Alfonso non scrive poesie; le parole di Alfonso sono una pozione salutare, sono macinate con mani stratificate di antichità, le erbe salutari di queste parole sono macerate da tutte le mani del mondo. È inutile dirci ancora menzogne, abbiamo bisogno tutti di essere curati dalle mani della poesia. È inutile ostinarsi, dire continuamente le cose di sempre. Veniamo da una catastrofe e qualcuno ha deciso di piombarci in un’altra catastrofe, le parole non possono essere identiche a prima di tutto ciò. Le righe di Alfonso sono il cotone con cui possiamo tessere abiti da indossare per andare incontro all’avvenire, è stoffa forte per affrontare ciò che verrà. Esse nascono da una solitudine ieratica, hanno il profumo arso dei cardi lucani. Sillabano l’inascoltato, il tempo tende verso di esse il suo orecchio volto al futuro. Nei Conversari c’è la forza degli occhi e dei loro delicatissimi muscoli, si percepisce il loro silenzioso spalancarsi come finestre sorprese nel mattino della vita di ogni giorno.

Mi permetto di trascrivere parole che mi scrissi tempo fa: «Voglio ascoltare i miei passi quando suonano su una pietra romanica». Le composizioni di Alfonso suonano con strumenti fatti in pietra romanica, l’inchiostro con cui scrive sa ancora tenere saldo il suono di quelle pietre. Il Romanico, la sola arte dove la violenza del Potere è magnificamente assente, ha la forza di parlarci come un bambino barbuto. Passato e avvenire nello stesso sguardo.

I libri di Alfonso sono tutti vicini, sono uno dentro l’altro e non uno distante dall’altro. Vanno a piedi, a ritmo d’endecasillabi. Ascoltando le sue parole si ha l’incontro con l’intonazione del suono dei propri passi, i passi degli occhi sulla pagina; lo sguardo si fa lumaca, esplora il territorio dell’intonazione della voce, sembra ascoltare lo sguardo tra sé e sé. La parola e lo sguardo si trasformano in esploratori delle geografie dell’intorno, il nostro sguardo lascia la sua impronta nel territorio poetico, si diventa parte della poesia. Uno dopo l’altro i libri di Alfonso hanno avuto la loro pubblicazione, nessun clamore di successo. Il successo fa invecchiare le cose, il successo fa scadere ciò che ancora non è stato fatto, tutto svilisce nella ripetizione compiaciuta dello spirito borghese.

Nei territori di queste pagine siamo in una germinazione fonetica mai appagata, feroce, acuminata. Tutto è appuntito per renderci svegli di fronte all’esercizio e alla riflessione della lettura, della sua conoscenza che sa come riversarsi nel nostro animo. La scrittura di Alfonso cuce il cuore della carne della parola. Mi chiedevo perché questa parola suona? Perché si sente il lavoro dell’ago e del filo, le mani cercano il tessuto lessicale; ecco perché «territorio», campo di germinazione. Ecco il cantiere con l’impalcatura di un tavolo e le malte scelte per intonacare le parole sulla carta. Nessuna occupazione di spazio, solo armonia, sonorità nell’esistere, la musica di ciò che si vorrebbe ascoltare…

La scoperta della cassetta di legno per la frutta colma di disegni e acquerelli, trafelata e dinoccolata tra i pochi mobili e qualche sedia. Le stanzette di Alfonso hanno un arredo sobrio.

Tempo fa scoprii il lavoro di Charlotte Salomon, artista tedesca di origini ebraiche nata a Berlino nel 1917, tra le tante vittime sterminate nei campi di annientamento nazisti, il 10 ottobre 1943, ad Auschwitz. Fu catturata insieme a suo marito la sera del 21 settembre, a Villefranche vicino Nizza. Era incinta di cinque mesi. Prudentemente e saggiamente ebbe il tempo di consegnare al suo medico il suo lavoro, un migliaio e più di tempere su carta. Scene domestiche e di vita quotidiana, un diario che porta il titolo Vita? o Teatro? In queste tempere sono dipinti i suoi giorni.

Ricordo il mio sbalordimento davanti a questo racconto visivo. Con estrema attenzione ammiravo foglio per foglio. Dentro la carica espressiva delle composizioni, preme una drammaticità che racchiude il mistero di consegnare l’umano all’uomo, facendogli indossare gli abiti di un destino senza accorgersene. Figure, colori e parole, un intreccio di corde vocali fatte di gesti. Nelle sue composizioni non c’è nessuna assordante violenza visiva, solo un invito alla comunione dello sguardo con le vicissitudini della vita. Nessun fuoco d’artificio per unirsi alla profondità di un gesto composto dalle mani. Mi bastano le carte di Charlotte Salomon per raccogliermi nel respiro del silenzio.

Le stesse emozioni mi hanno raggiunto sfogliando ed esplorando la cassetta di frutta di disegni di Alfonso. Guardare non è guardare con la cianfrusaglia di conoscenza che abbiamo, obliterata e fatta scadere dalla realtà in cui viviamo. Guardare è guardare esattamente ciò che si guarda, guardare è far parlare gli occhi senza sapere nulla. I disegni di Alfonso si lasciano esplorare, ci chiedono di trasformarci in speleologi, si penetra nei circuiti sanguigni del buio, come calarsi nei canali oculari della vista. Ho pensato subito in corrispondenza a quell’eccezione che è l’ultimo film di Michelangelo Frammartino, Il buco. Allo stesso modo ci si cala nelle carte colorate di Alfonso, scivoliamo con esse negli echi profondi dell’oscurità, per poi salire con gli occhi in superficie. Un’esperienza che si fa cammino luminoso per lo sguardo. Come Charlotte Salomon scriveva i suoi giorni con forme e colori, Alfonso compone poesie e scrive disegni camminando tra buio e luce. La sua è un’impresa fondata sulla generosità che aiuta lo sguardo, l’urgenza di saperci vedenti.

Alfonso è un sismografo di un paesaggio che ha dimora nell’invisibilità e deve assolutamente dimorare nell’invisibile, impronunciabile. Il fare di Alfonso è un continuo e spossante disorientamento. Sì, cecità e mutismo si trasformano in chiarezza di vista, chiarezza di voce. Lavorare è lavorare all’incontrario. Solo coraggio incessante del suono delle parole come indicazione e ricerca di altre orecchie, altri occhi. Il mondo lucano, quello che va a piedi e basta. Il magma del lavoro di Alfonso mi rende lucano, mi rende al mondo.

La voce di Alfonso, un altro capitolo… Ascoltandolo mi chiedo quanta e quale strada ha fatto la grana della sua voce, cosa ha visto. Quella voce è unica, mi ricorda un altro poeta che ammiro, il rumeno-parigino Gherasim Luca. La voce del poeta non articola semplicemente le parole, la voce del poeta ci mostra come vengono tessute le parole; il processo è immediato, la bocca di un poeta è il telaio dove si tesse il timbro della voce. La sua tonalità è il di dietro delle parole, spalle e petto allo stesso tempo. Le parole diventano corpo umano, ascoltando Alfonso cantare le sue poesie si è di fronte alla musica della vita arata con le sue unghie. La sua voce è il panno con cui ci asciughiamo la fronte dopo una sacra fatica fisica. Ricordo l’amata Simone Weil e il suo dirci che la sola spiritualità possibile è nel lavoro fisico.

Ecco una poesia di Alfonso Guida presa dal suo ultimo libro, Il tassidermista:

GIDE

Ieri, sdraiati sotto la grondaia,
bevemmo pioggia. Ieri il grano era ricco e cresceva
sulle porte del paese, un gelsomino, il caprifoglio,
campanelli d’allarme a ogni passo. E le capre
giocavano, impazzite,
con le orecchie lunghe e la razione di cicuta.
«Ma i doni ricevuti, dissero,
noi non li abbiamo comprati».
Ieri, sdraiati sotto la grondaia,
bevemmo pioggia. Ieri il grano era ricco e cresceva.

Sono stato a casa del poeta… mi sento bene.

maggio 2022, Parigi

Tutte le fotografie dei luoghi e dei dipinti di Alfonso Guida sono di Giuseppe Caccavale Studio

(Afragola, 1960) vive tra Parigi e Bari. Insegna Arti Murali, Poetica degli spazi e Disegno all’École Nationale Superieure des Arts Decoratifs di Parigi. È stato uno degli artisti che hanno rappresentato l’Italia alla 56a Biennale d’Arte di Venezia, curata da Vincenzo Trione; ha partecipato alla prima Triennale Internazionale d’Armenia, a cura di Adelina von Furstemberg; le sue ricerche sono state presentate alla Vereniging Voor Het Museum van Hedendaagse Kunst te Gent; alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, a cura di Chiara Bertola, ha presentato il progetto “Resi Conto”; con il compositore Stefano Gervasoni, ha realizzato il “Viale dei Canti” dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Da sempre la cura editoriale delle pubblicazioni delle sue ricerche è parte integrante del lavoro: fra i suoi titoli “Fresques / Affreschi”, su testo di Erri De Luca (Parenthèses, Marseille); “Voce Parla Luce”, su testo di Pier Luigi Tazzi (Musée de Marseille); “Serenella d’Agri”, su testo di Vassilis Vassilikos (L’art et la manière, Castellet); “Armenia”, su testo di Osip Mandel’štam (Parenthèses, Marseille).

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