Vivian Maier, non per la fama

La fama può manifestarsi in modi e momenti diversi. Dall’anonimato alle prime voci su un artista emergente, dall’esplosione di un fenomeno alla sua caduta rovinosa, da un lento apprendistato fino al consolidamento del successo. La varietà più rara, la più arbitraria, è la fama postuma. Certo è la meno desiderata, e spesso causa grande frustrazione. Pensiamo a uno dei casi più celebri: in tutta la sua vita, Vincent Van Gogh ha venduto solo un quadro, Il vigneto rosso presso Arles, ad Anna Boch che con tutta probabilità voleva solo aiutare l’artista perennemente al verde.

Eppure la fama postuma può avere dei vantaggi. L’artista avrà prodotto un’opera autentica perché non sarà stata condizionata dalle esigenze del mercato, non avrà dovuto corrispondere alle aspettative dei curatori, della critica e del pubblico. Nessuna ambizione a premi e riconoscimenti e quindi nessuna esperienza di biasimo o di delusione. Nessun giudizio. Aggiungerei nessuna invadenza, nessuna ansia, nessuna dipendenza dallo status e dal potere. Una vita emancipata, e un talento libero che nell’isolamento ha saputo sostenere sé stesso. La situazione ideale per un outsider.

Autoritratto, 1955

È questo il caso di Vivian Maier, scoperta dal ventiseienne John Maloof nel 2007, quando durante un’asta ormai passata alla storia, acquista in blocco il contenuto di un box espropriato. In quegli scatoloni trova un gran numero di negativi, li fa stampare e inizia a metterli in circolazione. È solo l’inizio di questa storia. L’interesse verso Vivian Maier cresce e la ricostruzione del suo archivio diventa un progetto strutturato, ma quasi nulla si sa di lei e il mistero non fa che aumentarne il fascino. La sua popolarità scoppia, trasformandola in un’improbabile icona pop; infagottata nel suo cappotto oversize, con la Rolleiflex appesa al collo, le stringate da uomo e sulla testa un cappello a tesa larga portato con disinvoltura, ben calcato sopra i capelli impiastricciati di vaselina.

La sua biografia sembra scritta da un autore di bestseller, di quelli che chiudono ogni capitolo con un colpo di scena. Un’esistenza carica di suggestioni, una famiglia le cui bizzarre vicende sintetizzano l’eccezionalità e la drammaticità del sogno americano. Un’avventura che aspettava solo di essere raccontata. Marks racconta di essersi ritrovata nell’orbita di Vivian Maier e che, come è accaduto ad altri entrati in contatto con la sua opera, anche il suo coinvolgimento è stato piuttosto fortuito: «per trent’anni ho lavorato come dirigente d’azienda, e il mio campo d’azione includeva ricerche e analisi volte a comprendere i desideri, le motivazioni e i comportamenti della gente comune. Per me nessun dettaglio è irrilevante, nessuna domanda deve restare senza risposta. La mia più grande passione è risolvere i misteri quotidiani – più intricati sono, meglio è». La scrittrice presenta il suo lavoro di ricerca come un atto dovuto, nato dalla curiosità e portato avanti con perseveranza: allo scopo di restituire Vivian alla Storia, dopo che su di lei sono state lette tante storie.

5 maggio, 1955, New York, NY

Vivian Maier viene al mondo nel 1926, a New York. Suo padre è Charles Maier, un americano di origine austriaca, e sua madre è Marie Jaussaud, francese, ma nessuno dei due si occuperà granché della sua vita dopo avergliela data. Imparerà presto a badare a sé stessa, però quel vuoto rimarrà incolmabile. L’assenza dei genitori e la famigliarità con il disturbo mentale – che Marks analizza nei dettagli – diventano un capitolo fondamentale di questo racconto e l’infanzia il filtro necessario attraverso cui guardare al suo talento. Ma da sola Vivian non ha solo costruito le basi per la sua indipendenza, ha anche coltivato la passione per la fotografia costruendo da sé il suo percorso formativo. Da autodidatta, senza mai smettere di osservare il mondo intorno a lei ed esercitarsi nello scatto, frequenta studi fotografici e collabora con fotografi professionisti.

Uno degli aspetti più interessanti che Marks approfondisce nel libro è che Maier conosce molto bene la fotografia. Il capitale culturale gestito da Vivian Maier è impressionante ed è chiaro che vede l’opera dei grandi interpreti contemporanei e la studia con attenzione. Non è un’amatrice naïf, il valore tecnico delle sue fotografie è duplice: c’è la perfezione dell’immagine e la perfezione nell’immagine. Guardando le sue fotografie pensiamo talvolta a Robert Frank, per le sue scene di gruppo che rappresentano l’America come melting pot in tutte le sue contraddizioni. Ci sono ritratti che ricordano Diane Arbus, ma anche Richard Avedon e autoritratti che ricordano Kertész. Poi Maier decide di trasformarsi in Cartier-Bresson e di seguire la poetica dell’istante decisivo; almeno finché, di notte, non decide di essere Brassaï. Se poi c’è un incidente o magari un omicidio, ecco che diventa una fotoreporter d’assalto e allora le sue foto si fanno esplicite e quasi sinistre come quelle di Weegee. Veste tutti questi panni, eppure è sempre lei e i suoi panni sono sempre gli stessi.

Autoritratto, 1955

«Molti credevano che il suo guardaroba fosse composto da capi trovati nelle botteghe dell’usato o tramite l’Esercito della Salvezza, ma niente potrebbe essere più lontano dalla realtà: gli abiti di Vivian, sempre attenta alle migliori marche sulla piazza, venivano da Marshall Field’s, da Saks e dalle boutique di Fifth Avenue. I suoi trench erano London Fog, i cappelli fatti a mano da Parisians, e alcuni dei suoi maglioni erano in puro cashmere. Il suo abbigliamento viene spesso descritto come spento e banale, ma spesso sotto il suo cappotto grigio si nascondevano bluse di seta con ruche e camicie Liberty of London». Nascosta sotto un’apparenza da molti definita come “sgradevole” e dietro i suoi modi bruschi, si cela un mondo interiore che si esprime anche nell’abbigliamento. Al netto delle sue stravaganze, Vivian Maier è una donna di gusto e la sua eleganza intellettuale si rivela anche negli abiti che indossa.

26 settembre 1956, New York, NY

Ma l’ambito in cui riesce a sfogare tutte le sue emozioni ovviamente è la fotografia. Lì – scrive Ann Marks – racconta l’intimità che non riesce a tollerare per sé stessa. Con una sola indispensabile eccezione: i Gensburg, la famiglia di Chicago che diventa la sua, quando nel ’56 la assume come bambinaia per seguire i piccoli John, Lane e Matthew. Saranno infatti i tre fratelli, ormai adulti, a farle da garanti per l’appartamento a Roger Park: quando ormai la sua sindrome da accumulo la rende la più indesiderabile delle inquiline. Ma i ragazzi Gensburg, i suoi ragazzi, si prenderanno cura anche della sua ultima dimora: quando la tata muore viene cremata, e le sue ceneri vengono disperse nella riserva dove una volta andavano insieme a raccogliere le fragoline di bosco. Vivian Maier ha vissuto la vita che voleva. Dopo tanti estenuanti trasferimenti, è tornata a casa.

Ann Marks
Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera
traduzione di Chiara Baffa
Utet, 2022, pp. 384, €32

In copertina: Vivian Maier, Untitled, Chicago, IL, 1974 ©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY

È dottoressa di ricerca in Studi Comparati. La sua inclinazione per la forma breve l’ha portata ad approfondire la scrittura saggistica, studiando soprattutto letteratura italiana contemporanea, critica letteraria ed estetica della letteratura. Sempre in cerca di analogie e contatti tra diverse discipline, coltiva numerosi interessi con attenzione particolare alla fotografia e alla storia della moda. Collabora con “Alias”.

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