Esporre l’assenza. Freud Museum, Vienna

30/05/2022

È uscito Torna diverso. Una galleria di musei di Stefania Zuliani (pp. 96, € 16). Il volume inaugura la nuova collana “I limoni”, diretta da Pietro Gaglianò per Gli Ori: progetto editoriale dedicato alla critica d’arte contemporanea e ai suoi attraversamenti di altri ambiti disciplinari e dei campi degli studi sociali. Per la cortesia dell’editore e dell’autrice, ne proponiamo un capitolo.

“Era molto importante per la storia della psicoanalisi mantenere vivo in ogni singolo dettaglio il luogo in cui essa era nata, per fare in modo ‘di poter costruire un museo quando la tempesta di questi anni sarà terminata’”[1]. Pur nella concitazione di giorni davvero minacciosi – era il maggio 1938, l’Anshluss qualche settimana prima aveva segnato una svolta fatale nella politica del Terzo Reich e nel destino degli ebrei europei – Edmund Engelman non aveva avuto alcun dubbio riguardo alla necessità di garantire un futuro alle stanze ancora per poco abitate da Sigmund Freud al 19 di Berggasse, Vienna. Ingegnere ebreo che aveva per necessità fatto della fotografia il suo mestiere, Engelman su invito di August Aichhorn, studioso di psicoanalisi e sodale di Freud, aveva quindi deciso di assumersi la responsabilità (e il rischio) di documentare minuziosamente il contenuto dei due appartamenti che occupavano l’intero primo piano – il cosiddetto “mezzanino” – dell’edificio tardo ottocentesco in cui dal 1891 viveva e lavorava il professore. Si trattava di un palazzo abbastanza elegante affacciato su una via ai bordi del centro storico di Vienna, una costruzione possente ma tutto sommato anonima sul cui massiccio portone era stata da poco collocata una croce uncinata. Un presagio di imminente sciagura che non scoraggiò il giovane fotografo dal portare a termine la sua missione. Engelman esplorò quindi con il suo obiettivo gli ambienti meno privati dell’appartamento numero 5, che era da sempre il confortevole spazio di vita della numerosa famiglia Freud, una dimora arredata con solido gusto borghese, mobili pesanti, tappeti, dipinti e molte fotografie di figli, parenti e nipoti alle pareti, soffermandosi soprattutto sull’appartamento numero 6, che ospitava lo studio, già mitico, di Freud il quale in quelle stanze stipate di antichità e di libri dal 1908 accoglieva i pazienti, lavorava alle sue ricerche, riceveva amici e allievi[2]. Nel corso di quattro lunghe e pazienti sedute clandestine, Engelman scattò oltre cento foto realizzando con maniacale e persino ossessiva precisione[3] quelli che erano consapevoli ritratti di un paesaggio domestico e di una civiltà sull’orlo del baratro, fermati in immagine perché non se ne perdesse memoria, per accertarne l’esistenza ormai purtroppo compromessa. A colpire oggi di quelle fotografie realizzate lentamente in un calibrato, paradossalmente caldo bianco e nero (il flash era un rischio che non si poteva certo correre), è il silenzio profondo eppure senza polvere in cui sono immersi gli arredi, la sospensione in cui si disegnano, sottili, i fiori che spuntano dai vasi, le impronte dei corpi ancora leggibili sui cuscini di quel lettino sul quale l’Uomo dei topi, l’Uomo dei lupi, Dora e tutti i pazienti che hanno contribuito a costruire con i loro sogni e i loro gesti l’architettura teorica freudiana si erano negli anni sdraiati per affidarsi alla “terapia della parola”, per affrontare quel doloroso lavoro di scavo, di analisi terminabile e interminabile che Freud guidava e, insieme, seguiva, invisibile, dalla sua austera poltrona, di cui pure le fotografie di Engelman mostrano il desolato vuoto. È stato anche grazie a quei provvidenziali scatti, oggetto di tanti studi, analisi, letture, che l’allestimento dello studio di Vienna ha potuto riprodursi fedelmente nella nuova dimora londinese di Freud, in quella casa luminosa e circondata dal verde dove lo studioso sarebbe morto nel 1939, soltanto un anno dopo il suo trasferimento.

Anna Freud, che aveva seguito le orme del padre nello studio e nella pratica della psicoanalisi e che per tutta la vita avrebbe abitato la casa di Maresfield Garderns, volle conservare come cristallizzate quelle stanze in cui il padre aveva continuato anche nei suoi ultimi giorni a lavorare e studiare, dove si era intrattenuto con gli amici e dove aveva infine conosciuto Salvador Dalí, suo fanatico ammiratore – “ringrazio ancora una volta Sigmund Freud e proclamo più forte che mai le sue grandi verità”[4] scriveva in Diario di un genio l’artista, che invano aveva più volte tentato di essere ricevuto nello studio di Berggasse per confrontarsi con l’ispiratore, sicuramente involontario, del suo metodo “paranoico-critico”.[5] L’incontro, che avvenne solo poche settimane dopo l’arrivo del professore a Londra, fu reso possibile dalle convinte perorazioni dell’amico scrittore Stefan Zweig, le cui parole appassionate riuscirono a vincere la diffidenza di Freud, il quale aveva sempre rifiutato il ruolo di maestro attribuitogli dai surrealisti, “puri folli, o diciamo puri al 95 per cento, come l’alcool”[6]. E c’è da chiedersi quanto male avrebbe pensato lo studioso delle cento opere surrealiste raccolte nella sua casa di Vienna nel maggio 2022 per una mostra dedicata ai rapporti fra surrealismo e psicoanalisi, Freud che in fatto di arte e di letteratura rimase per tutta la vita ancorato, lo ha ricordato Gombrich e soprattutto lo attestano i suoi scritti,[7] ad un gusto decisamente conservatore, guardando alle opere d’arte e letterarie “con gli occhi di Goethe e Schopenhauer”[8].

Il colloquio con Dalí, di cui l’artista ha dato conto nel testo, magnificamente delirante, della sua Vita segreta[9]  e che è stato raccontato in mostre importanti ed anche in un divertente cortometraggio,[10] se non convertì all’arte d’avanguardia Freud certamente fu fruttuoso, se non altro per quel ritratto, oggi esposto al primo piano della casa londinese, in cui Dalí aveva fermato con rapide linee a spirale la testa a “forma di lumaca” del professore. Si tratta di una imprevista e persino incongrua addizione alla collezione freudiana che nella casa a Maresfield Gardners aveva subito trovato un museale, definitivo assetto. Giunti da Vienna senza quasi danni, i tanti reperti egiziani, cinesi e greci nella nuova dimora si mostravano infatti – è stato Freud stesso a notarlo  – in maniera persino più impressionante che a Berggasse ma c’era però una differenza molto significativa: “una collezione alla quale nulla si aggiunge in realtà è morta”[11].

Nel denso saggio che ha dedicato a Freud collezionista di antichità e di atti incongrui (“Freud è un collezionista di peti e di smorfie, un archeologo della spazzatura ante litteram così come è un collezionista del consunto, e ancora prezioso, residuo della civiltà occidentale”)[12], John Forrester non ha mancato di evidenziare come lo studioso, accompagnato per tutta la vita dal “desiderio di essere un archeologo della mente”, abbia in realtà dato inizio alla sua collezione archeologica soltanto all’indomani della morte del padre. Un evento determinante nell’elaborazione dell’Interpretazione dei sogni che sta quindi all’origine anche alla passione collezionistica di questo “insanabile distruttore di illusioni”[13], la cui raccolta di antichi reperti, certamente non scelti per ragioni d’investimento o di semplice accumulo, era sempre stata esposta negli spazi del lavoro e della cura, cioè nella parte “pubblica” della sua casa. Questo secondo Forrester confermerebbe che il Kunstwollen collezionistico dello studioso era orientato non alla idiosincratica soddisfazione di un desiderio intimo ma alla volontà di “camminare attraverso il Museo della storia e della cultura. I collezionisti sono spesso estremamente riservati, soprattutto quanto collezionano strani oggetti come i sogni. Al contrario, tutte le collezioni di Freud furono permeate da un ideale pubblico e illuministico”[14]. Di fatto, le numerosissime antichità che lo studioso aveva messo insieme nel corso degli anni (alla sua scomparsa l’inventario della collezione comprendeva circa 3000 oggetti) non vanno quindi lette come un aspetto privato della vita dello studioso, come l’esito di una coltivata curiosità dilettantesca, esse sono al contrario profondamente legate alla teoria e alla pratica della psicoanalisi, “as a symbol, as a pedagogique device, as seductive gadget”[15].

Quello che Freud aveva allestito con cura nel suo studio e sulla sua scrivania era dunque un indispensabile e per nulla innocente teatro dell’antico, un compendio della sua visione della civiltà del quale egli costantemente ridisegnava le geometrie durante le lunghe conversazioni con gli allievi – ricorda Hann Sachs che “Freud aveva l’abitudine di prendere questo o quell’altro pezzo della collezione dal suo posto e di esaminarlo con la vista e col tatto mentre parlava”[16] – e, soprattutto, era un dispositivo di riflessione che agiva come catalizzatore di immagini e pensieri anche nel corso delle sedute. Sdraiati sul lettino, i pazienti non potevano sfuggire alla presenza dell’antico: alzando lo sguardo potevano vedere il ritratto proveniente da un sarcofago egizio di età romana di un uomo adulto con gli occhi bene aperti sul mondo; più in là sulla stessa parete, quasi ad angolo, la riproduzione del celebre bassorilievo della Gradiva, oggetto del racconto di Wilhelm Jensen e della successiva riflessione di Freud, mentre stipati in vetrine e sistemati in ogni ripiano piccole sculture, oggetti votivi, ceramiche evocavano mondi lontanissimi ancora presenti. A questo proposito, tra le tante testimonianze dei pazienti che in quelle stanze cercavano guarigione o almeno comprensione e tregua, quella della poetessa americana Hilda Doolittle è fra le più taglienti: nelle pagine del suo diario si legge lo sconcerto e persino la delusione provati al cospetto di quella moltitudine di reperti da cui Freud sembrava spuntare come “una sfinge”, e l’impressione era quella di trovarsi di fronte ad un conservatore di museo piuttosto che a un medico dell’anima[17].

Che la collezione avesse un ruolo cruciale nell’esperienza intellettuale e nella pratica terapeutica dello studioso è del resto confermato da quanto fu intenso ed anche oneroso l’impegno prodigato da Freud per ottenere la possibilità di portare con sé l’intera raccolta di antichità, rinunciando invece a spostare a Londra tutta la ricchissima biblioteca. Non stupisce, quindi, che Anna abbia voluto non soltanto mantenere integra la collezione paterna ma anche lasciarne intatta la collocazione all’interno delle stanze londinesi, facendone eterno monumento e laico sacrario. Joanne Morra, autrice del recente volume Inside the Freud Museums, ha sottolineato come la dimora di Londra si possa considerare a tutti gli effetti un museo commemorativo, un vero e proprio cenotafio, un architettonico memoriale della vita e della morte di Freud interamente consacrato ad una “narrativa agiografica”[18]. La ricostruzione, complici le foto di Engelman, e l’immediata e scrupolosa musealizzazione dello studio e della sala di consultazione di Freud nella casa a Maresfield Gardens, aperta al pubblico nel 1986, a quattro anni, quindi, dalla morte di Anna, ha avuto in effetti la capacità di creare un monumento a un tempo teatrale e straniante. Quegli ambienti, rimasti immobili negli anni, funzionano oggi come una vertiginosa  time capsule e l’illusione che creano è quella di una presenza solo momentaneamente interrotta, “quasi Freud avesse appena lasciato la sua stanza per farvi presto ritorno”[19]. A garantire questo effetto è innanzitutto il celebre lettino, feticcio e fondamento del setting psicoanalitico: “La presenza chiave nel Museo Freud di Londra è il lettino: quell’autentico lettino sul quale quelle donne, quegli uomini si sdraiarono a Berggasse 19”. Simmetricamente, precisa Morra, “l’assenza chiave a Vienna è quello stesso lettino”[20].

Insomma, mentre il museo londinese è il luogo della celebrazione della personalità di Sigmund e di Anna Freud, il monumento in cui tutto è rimasto come un tempo, dove le migliaia di reperti si mostrano al visitatore come attonite divinità, non sempre benevoli e comunque misteriose, feticci di un culto laico eppure potente, il museo di Vienna si offre piuttosto come un meno rassicurante e quindi più vitale “conceptual museum”, uno spazio vuoto in cui è possibile fare esperienza del trauma, di un’assenza incolmabile e per questo attiva. Già le vicende che hanno progressivamente condotto all’apertura del museo a Berggasse testimoniano della natura inquieta, impossibile da pacificare, di questo sito di memoria e di rimozione, luogo di eroiche, modernissime avventure intellettuali e scena di un crimine definitivo: “Auschwitz – ha scritto Adorno – ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura”[21].

Il primo momento del progressivo riconoscimento – una ricostruzione – di questo difficile lieu de mémoire[22] fu la collocazione nel 1953 di una semplice targa (“Dal 1891 al 1938 in questa casa visse e lavorò il Professor Sigmund Freud, creatore e fondatore della psicoanalisi”) accanto al portone d’ingresso del palazzo, dove la svastica non c’era più ma l’ombra del recente passato era ancora visibile e preoccupante. Qualche anno più tardi, nel 1968, anno di nascita della società freudiana di Vienna, venne acquistato l’appartamento numero 6, quello che aveva un tempo ospitato lo studio di Freud, che fu aperto al pubblico come museo nel 1971 in coincidenza con il Congresso Psicanalitico Internazionale cui partecipò anche Anna Freud, che in quella occasione fece per la prima volta ritorno in Austria dopo la fuga del 1938. L’allestimento di quelle stanze spoglie, imbiancate da poco, prevedeva l’utilizzo degli ingrandimenti delle fotografie di Engelman e l’esposizione di qualche memorabilia e di un piccolissimo campione della collezione di antichità provenienti da Londra, oltre ad una serie di materiali d’archivio, documenti e libri, prime edizioni delle opere di Freud e copie autografe che nel corso degli anni aumentarono grazie a successive donazioni. Joanne Morra ha evidenziato come l’acquisizione dell’appartamento e la successiva inaugurazione del museo avvengano negli anni dell’affermazione internazionale dell’arte concettuale, di cui il display documentaristico e fotografico del neonato museo sembra in effetti proporre scelte formali e modalità di comunicazione.[23] Nel 1969 era stato tra l’altro pubblicato il seminale saggio Art after philophy di Joseph Kosuth, un artista che avrà un ruolo determinante nella stagione successiva del museo, in cui l’ampliamento degli spazi – nel 1986 verrà acquisito anche l’appartamento n. 5 – porterà ad un’ulteriore riflessione su come interpretare e rendere efficace l’apparente vuoto che ora si dilatava per tutto il piano rendendo ancora più sconcertante e, per alcuni, deludente la visita a quello che non tutti erano disposti a riconoscere come un museo[24]. In realtà, il motivo del disagio ed anche del disappunto che il museo talvolta suscitava era causato non dall’assenza di contenuti o, peggio, dalla loro simulazione (Forrester ha parlato addirittura di un museo falso, di uno “screen museum”, a proposito delle stanze viennesi) ma dall’intensità con cui il vuoto, autentico contenuto del museo, risuonava tra le pareti nude, scuotendo le coscienze e contraddicendo le attese. Insomma, ma alla fine cosa c’era da vedere? A questa tendenziosa domanda il museo rispondeva “illuminando il momento della sparizione e diventando il segnale di un altrove”[25]. Perché il Freud Museum di Vienna non è un museo del trauma, come può esserlo il JüdischesMuseum progettato da Libeskind a Berlino, un museo che molti, tra l’altro, avrebbero preferito rimanesse un involucro vuoto per non disturbare con la presenza delle collezioni e dei minuti racconti la potenza evocativa dell’architettura.

Il Freud Museum di Vienna è, radicalmente, “il luogo del trauma”[26]. Un trauma a cui l’arte – un’arte concettuale e, secondo la felice definizione di Morra, “site-responsive”[27] – reagisce. Lo ha fatto innanzitutto Kosuth che, in dialogo con la direttrice del museo Ingrid Scholz-Strasser e con il gallerista e curatore Peter Pakesch, nel 1989 fece dell’appartamento di recente acquisito il luogo di esposizione e, soprattutto, di relazione della neonata collezione di arte concettuale del Freud Museum. Zero&Not dello stesso Kosuth, un wallpaper che copriva le pareti interne dell’appartamento, e le sei opere selezionate nella produzione di John Baldessari, Pier Paolo Calzolari, George Herold, Jenny Holzer, Iliya Kabakov e Franz West abitarono quindi il vuoto apparente delle stanze, ne interrogarono il passato, quello illustre e quello indicibile (dopo la partenza di Freud, il mezzanino divenne residenza coatta e transitoria per numerose famiglie di ebrei destinati ai campi di sterminio) facendo i conti con la memoria e con la rimozione di cui quel luogo è stato testimone e protagonista[28]. La collezione, che si è poi incrementata con la donazione nel 1997 di lavori di Clegg & Guttmann, Jessica Diamond, Marc Goethals, Sherrie Levine, Haim Steinbach e Heimo Zobernig, oggi è in parte diventata una mostra permanente, Hidden Thoughts of a Visual Nature, allestita nelle stanze al piano rialzato in cui Freud ebbe dal 1896 e fino al 1908 il suo studio. Dal 2002 il museo ha inoltre proposto una serie di personali (A view from outside era il titolo del progetto) visibili attraverso la vetrina del negozio che si trova accanto al portone d’ingresso del palazzo di Berggasse 19. Gli orientamenti curatoriali delle mostre temporanee confermano sostanzialmente l’attenzione del Freud Museum per quella che Menna ha definito la linea analitica dell’arte moderna, una direzione che non è stata abbandonata neppure nel nuovo allestimento del museo, riaperto dopo quasi due anni di chiusura nel 2020. L’intervento, che ha restituito più decisamente l’aspetto originale delle stanze, scoprendo anche frammenti delle antiche tappezzerie ed eliminando buona parte degli interventi successivi alla partenza di Freud, non ha infatti sconfessato il carattere concettuale di questo museo, il cui vuoto è ancora una ferita, per nulla risolta attraverso tecnologici surrogati di presenza. Nessuna soluzione compensativa, nessuna realtà aumentata: Monika Pessler e Daniela Finzi, rispettivamente direttrice e responsabile della ricerca del museo, hanno preferito lasciare che le domande e gli spettri del passato avessero agio di muoversi tra le mura disadorne.

“Chi sono i fantasmi che abitano queste stanze […], e cosa significano per noi?”[29] è questa la domanda con cui la scrittrice Siri Hustvedt apre la premessa al volume pubblicato in occasione della riapertura del museo. Una domanda a cui il Freud Museum ha provato a risponde attraverso una scrittura museografica aperta in cui il visitatore viene accolto ma non guidato. La visita, lasciata libera da percorsi obbligati, è un’esperienza di scoperta che all’elemento di documentazione, certamente dominante, coniuga la costante percezione (emozione) di una mancanza definitiva, di un desiderio che non può che restare inappagato, di una ferita, privata e collettiva, che trova parola nel racconto anche di ciò che in quelle stanze è accaduto dopo l’esilio, comunque privilegiato, di Freud, del destino infausto che toccò anche alle sorelle dello studioso, che proprio da quegli appartamenti passarono, come tante altre famiglie ebree, prima della deportazione. Senza eccessi didascalici, la funzione delle singole stanze è chiarita attraverso informazioni ed elementi visivi posti sulle pareti mentre teche leggere presentano i materiali della collezione – libri, documenti, qualche oggetto memorabile (gli occhiali, la valigia, la scatola delle lettere di Freud) – seguendo semplici linee narrative: la formazione, i viaggi, l’interpretazione dei sogni, gli allievi, la passione per l’antico, il rapporto con la religione. Nella grande stanza da cui manca il cruciale lettino, una lacuna che “rappresenta il lato oscuro della storia”[30], una piccola vetrina ospita le antichità che Anna Freud volle a suo tempo donare, un richiamo ed un’evocazione in grado di attivare l’immaginazione, di suggerire visioni e pensieri nel visitatore che si muove con devozione, comunque commossa, alla ricerca di quello che non può più esserci. Ma, va detto con chiarezza, non è la nostalgia o il rimpianto, l’elegia la chiave scelta dalle curatrici del nuovo allestimento del museo: a guidare il progetto, che ha soprattutto l’obiettivo di indagare l’eredità della lezione freudiana e di porre attenzione all’attualità degli studi psicoanalitici (al piano nobile archivio e biblioteca alimentano le attività di ricerca e di divulgazione) è la lucida, ferma certezza che “qui è accaduto […] ma che niente è rimasto[31]. Un’assenza che non si può, che non si deve cancellare perché è proprio in quell’assenza “untimeliness”[32] che il Freud Museum si riconosce e si propone oggi come esemplare spazio di cura, prima ancora che di esposizione. Con la consapevolezza, che è purtroppo un’urgenza, che “we must care for our ghosts”[33].

Stefania Zuliani
Torna diverso. Una galleria di musei
Gli Ori, 2022
pp. 96, € 16

In copertina: lo studio di Freud, 1938, foto di Edmund Engelmann


[1] E. Engelman, Ricordi, in Berggasse 19. Lo studio e la casa di Sigmund Freud. Vienna 1938, traduzione italiana Abscondita, Milano 2010, p. 14.

[2] Particolarmente utile per ricostruire da una prospettiva “interna” le vicende del gruppo di amici e allievi che frequentavano casa Freud il testo, sicuramente devoto, di Hanns Sachs, Freud Master and Friend [1944], traduzione italiana Freud maestro e amico, Astrolabio, Roma 1973.

[3] A. Werner, Edward Engelman: Photographer of Sigmund Freud’s Home and Offices” in “International Journal of Psychoanalysis”, 83, 2002, pp. 445-451.

[4] S. Dalí, Journal d’un Génie [1964], traduzione italiana Diario di un genio, SE, Milano 1996, p. 51.

[5] D. Ades, Dali, Freud and the Metamorphosis of Narcissus, cat. della mostra, 3 October 2018- 24 Febraury 2019, Freud Museum, London 2018, pp. 13-31.

[6] La citazione è tratta dalla lettera che Freud scrisse a Zweig il 20 luglio 1938 dopo la visita di í, “giovane spagnolo con i suoi occhi evidentemente sinceri e fanatici e la sua innegabile maestria tecnica” ripresa in E. H. Gombrich, Freud’s Aesthetics [1966], traduzione italiana Freud e la psicologia dell’arte, Einaudi, Torino 1967, p. 25.

[7] Gli scritti sull’arte e sulla letteratura di Freud sono stati raccolti in traduzione italiana nel volume S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Una riflessione sull’estetica freudiana è stata proposta da S.Kofman, L’enfance de l’art. Une interprétation de l’esthétique freudienne, Galilée, Paris 1985. Sulla collezione di antichità di Freud e sulle opere d’arte che hanno trovato spazio nelle scritture freudiane cfr. Y.le Pichon, R. Harari, Le musée retrouvé de Sigmund Freud, prefazione di A. Green, Stock, Paris 1991.

[8] E. H. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte, cit., p. 13.

[9] S. Dalí, The secret life of Salvador Dalí, traduzione italiana di I. Brin, Vita segreta di Dalí, Abscondita, Milano 2006, pp. 34-35.

[10] The death of Dalí è il titolo del cortometraggio diretto nel 2005 da Delaney Bishop. Più di recente, l’incontro Dalí-Freud ha trovato occasione di analisi nella mostra Dalí-Freud. An obsession, inaugurata al Belvedere di Vienna nel gennaio del 2022 (catalogo Buchhandlung Walther & Franz König).

[11] Così scriveva Freud in una lettera all’amica Jeanne Lampt de Groot cit. in J. Forrester, ‘Mille e tre’: Freud and Collecting, in The Culture of collecting, a cura di J. Elsner e R. Cardinal, Reaktion Books, London 1997, p. 227.

[12]  J. Forrester, ‘Mille e tre’: Freud and Collecting, cit., p. 238.

[13] S. Zweig, Freud [1931], traduzione italiana di L. Mazzucchetti, Castelvecchi, Roma 2015, p. 98.

[14] Ivi, p. 241.

[15] Ivi, p. 243.

[16] H. Sachs, Freud maestro e amico, cit., p. 62.

[17] Y. Le Pichon, R. Harari, Le musée retrouvé de Sigmund Freud, cit., p. 13.

[18] J. Morra, Inside the Freud Museums. History, Memory and Site-Responsive Art, I.B. Tauris, London-New York, 2018, p. 20.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 7.

[21] T. W. Adorno, Metaphysik: Begriff und Probleme [1965], traduzione italiana Metafisica, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2006, p.330.

[22] “Les ‘lieux de mémoire’ sont des éléments matériels ou idéels qui jouent un rôle dans la constitution de l’identité collective en étant parfois instrumentalisées par différents acteurs aux mémoires concurrentes”. La definizione è di Pierre Nora, curatore dell’opera in tre tomi Les lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1984-1992.

[23] Cfr. J. Morra, Inside the Freud Museums, cit. pp. 237ss.

[24] Morra ricorda le difficoltà incontrate da Lydia Marinelli, che dal 1992 ha lavorato al Museo Freud di Vienna occupandosi dal 2004 al 2008 del Dipartimento ricerca, a far accettare che l’istituzione potesse essere un museo pur essendo (apparentemente) priva di una collezione da esporre. Ivi, pp. 241.

[25] L. Martinelli, “Body Missing” at Berggasse 19, in “America Images”. 66/2 (2009), p. 165.

[26] J. Morra, Inside the Freud Museums, cit., p. 243.

[27] Sulla definizione di “site-responsive art”, che differisce da quella di “site specific art” anche per il suo carattere impermanente, cfr. ivi, p. 14.

[28] Una descrizione molto puntuale dell’allestimento viene proposta ivi, pp. 246-250.

[29] S. Hustvedt, Foreword, in Freud Bergasse 19. The Origin of Psychoanalysis, Hatje Cantz, Berlin, 2020, p. 7.

[30] M. Pessler, The Origin of Psychoanalysis, in Freud Bergasse 19. The Origin of Psychoanalysis,cit. p. 13.

[31] H. Czech, Architectural Concept and Exhibition Design, in Freud Bergasse 19. The Origin of Psychoanalysis, pp. 20-21.

[32] D. Finzi, Exhibiting Freud. Reflections on the New Permanent Exhibition at the Sigmund Freud Museum, in Freud Bergasse 19. The Origin of Psychoanalysis, p. 30

[33] S. Hustvedt, Foreword, cit., p. 9.

Stefania Zuliani

(1968) è docente di Teoria della critica d’arte e di Teoria del museo e delle esposizioni in età contemporanea all’Università di Salerno. Da sempre attenta al contributo che le scritture dei poeti e degli artisti offrono al dibattito critico contemporaneo, negli ultimi decenni ha orientato la sua riflessione all’analisi delle dinamiche che caratterizzano il Global Art World occupandosi in particolare delle relazioni che legano la produzione artistica e critica alla forma-museo e al sistema espositivo. Su questi temi ha pubblicato numerosi saggi e volumi e organizzato convegni e seminari internazionali. Giornalisti pubblicista e critico d’arte, ha curato mostre e cataloghi. Dal 2018 fa parte del comitato scientifico della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma.

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