Mauro Zanchi: Sono molto interessato ad approfondire il processo che definisci “astrazione iperrealista”, l’indagine sulla sostanza della luce che si vede nella quasi totale monocromia. Che importanza ha il gesto nella tua ricerca? Mi riferisco, per esempio, ai movimenti graduali e lentissimi, al procedimento seguito per stendere le campiture di colore e di luce, alle tracce lasciate dalle impronte digitali.
Pieter Vermeersch: Sono sempre stato interessato al complementare e a combinare o collegare elementi, specialmente quando sembrano opposti, per renderli in qualche modo una cosa sola, cancellando la loro definizione binaria. Il termine ossimorico ‘astrazione iperrealista’ può essere letto in questa prospettiva. L’uso della fotografia e l’idea di rappresentazione contro il mondo dell’astrazione è stato un sottofondo fondamentale nel mio lavoro da quando ho iniziato a sviluppare la mia pratica. Fondere questi elementi l’uno nell’altro senza perdere la loro propria esistenza ed essere trattati egualmente è sempre stato un mio interesse. In altre parole, dipingo letteralmente un quadro astratto in modo iperrealistico. È per questo che evito tracce del processo, del lavoro, dell’azione. Li considero e vedo come quadri che evocano lo spazio. Lì l’illusione spaziale fotografica è importante e non può essere influenzata da nessuna pennellata visibile, che potrebbe funzionare come una membrana tra lo spettatore e l’illusione. No, l’impatto deve essere immediato, le braccia devono cadere, come nella musica. Questo per una certa serie di quadri e per le pitture murali. Ma anche il gesto come traccia visibile e lirica ha un posto particolare nel mio lavoro.

Le fotografie con le impronte digitali, per esempio. Queste opere sono il risultato di un bisogno di riportare il mondo spazioso e indefinito a una realtà più concreta e immanente. È il confronto di questa immagine con un momento, di nuovo. L’impronta digitale come il momento in cui si preme il pulsante della macchina fotografica congelando il tempo nella materia. Ho iniziato a fare queste foto quando ho capito che potevo rappresentare l’astrazione nella ricerca del colore giusto su un certo punto dell’immagine. Il risultato è una sorta di costellazione o DNA. Un’altra direzione dove il gesto ha il suo posto si vede nei lavori su pietra di marmo con alcune tracce di pennello dipinte. Questo è il modo opposto di lavorare rispetto alle tele. È liberatorio e dà equilibrio nel modo razionale di dipingere che uso per le tele. In questi lavori su pietra il risultato è una conseguenza di un incidente quasi pittorico. Qui di nuovo si scorge la traccia di un momento che riattiva la dimensione temporale cosmica trovata in queste pietre aggiungendo un nuovo strato, un nuovo momento, un nuovo segno accidentale.

MZ: Nei primi due decenni del XX secolo, l’astrazione è stata considerata come una seconda vista, o meglio, come un’ulteriore possibilità di visione. Dopo un secolo, cosa significa indagare la realtà attraverso un atteggiamento di natura astrattista?
PV: Potremmo dire che Cézanne ha aperto la traiettoria verso l’astrazione lasciando fuori l’identità delle cose, la soggettività delle cose che dipingeva rappresentando una natura più oggettiva delle cose. Penso che questa sia la prima nozione di astrazione, con molti sviluppi e direzioni nei decenni successivi, con il monocromo come punto finale. Ma il finale non è mai definitivo e l’astrazione, come la pittura figurativa, si inventa continuamente. Oggi l’astrazione ha perso la sua autonomia (l’ha mai avuta?) come posizione e come processo di liberazione dalla rappresentazione. Ci siamo liberati e l’astrazione è diventata una delle scelte che un artista ha alla pari con ogni possibile direzione artistica. Tutte queste diverse espressioni artistiche esistono l’una accanto all’altra e in questo periodo storico hanno guadagnato uguale attenzione.
MZ: Nella tua pratica pittorica ci sono anche paralleli o analogie con ciò che riguarda i fenomeni musicali, cioè i passaggi di microintervalli di tono o la risonanza di una serie di “ipertoni” o “armonici” all’interno della stessa nota o accordo?
PV: Sì, ci sono analogie se vuoi, e penso che non sia casuale che la drone music sia qualcosa che amo ascoltare. Le analogie con la drone music ci sono abbastanza, credo, e soprattutto i primi album dei Sunn O))) per esempio. Ha una familiare dimensione spazio temporale espansa e non riesco a liberarmi dell’idea del suono che viene macinato in polvere, come il pigmento roccioso in polvere.

C’è un’altra analogia che voglio menzionare. Parlando in termini di suono, in generale mi piace riferirmi all’eco, un fenomeno sonoro che è legato allo spazio e ai suoi confini fisici, che ci danno la coscienza dello spazio. L’eco potrebbe essere visto come rappresentazione nei dipinti. Come una totale pittura monochrome iniettata di rappresentazione, spazio, eco. Colore che fa eco visivamente.
MZ: Cos’è l’impercettibile, l’insondabile, l’evocativo (spirituale?), nella tua visione o nella tua pratica pittorica?
PV: In un certo senso l’opera rimane sempre nella testa dell’artista, realizzando la propria realtà al di fuori di essa.
MZ: E qual è l’importanza di un senso di lentezza o sospensione nel tempo, sia formalmente sia concettualmente?
PV: Viviamo in una realtà in cui tutto sta accelerando e vorticando intorno a noi, permanentemente, con più fretta e meno tempo. Il tempo in generale, come molte cose nella nostra società, è stato oggetto di divisione come strumento di organizzazione (con un’accelerazione dopo la rivoluzione industriale). È fondamentalmente una continuazione e razionalizzazione dei tempi e dei cambiamenti che stiamo avendo già in natura, attraverso la costellazione interstellare in cui stiamo vivendo.
Ma il tempo incondizionato attraversa tutto in ogni momento. Abbiamo solo messo una griglia su di esso per renderlo funzionale.
Questa divisione analitica è qualcosa che uso per ricreare le immagini. L’ho usata nella miscelazione del colore per produrre i dipinti murali, ma alla fine tutto questo non c’è più. Il risultato finale non dà nemmeno un assaggio del metodo. In realtà è solo un passo per fondere nuovamente, per fare di nuovo il passaggio, per unificare e diventare di nuovo uno. Lì, la narrazione del tempo (organizzazione concreta) è sostituita dalla nozione astratta del tempo. E credo di trovare questo aspetto nelle immagini astratte con cui lavoro, dando un’esperienza alternativa del tempo attraverso la pittura.

MZ: Quando mi sono soffermato a contemplare a lungo le tue opere nella galleria P420, a un certo punto ho avuto la sensazione di percepire qualcos’altro, qualcosa di non detto, che si espande e vibra fuori dalla cornice, dentro il corpo di chi è entrato in empatia con l’opera. Qual è il rapporto tra le caratteristiche cromatiche e armonico-compositive che sono all’interno del perimetro della tela e ciò che sta oltre?
PV: È la stessa cosa, il cromatico è l’armonico-compositivo e viceversa. È una consapevolezza spaziale indefinita attraverso il colore, dove la composizione è colore e la composizione del colore è usata in modo non gerarchico, dove luce e ombra si fondono. La forma è scomparsa o deve ancora arrivare ed è trattenuta solo dalla cornice della tela. Si può vedere come un’architettura. All’origine di un dipinto c’è un pezzo di realtà incorniciato, ma credo che l’unica cosa che sta al di là sia l’esperienza.
MZ: Qual è il rapporto tra l’indagine della visione attraverso la ricognizione fotografica e la tua pittura? Mi spiego meglio. La pittura traduce l’enigma di fondo in alcune fotografie che hanno catturato un’apparizione o una visione estatica, un particolare mistero luminoso, un’alterità interessante che emerge da un’immagine trovata?
PV: Ho iniziato a dipingere le tele dopo aver fotografato la proiezione di colori naturali sui muri delle mie installazioni ‘work in progress’. Il risultato era una sorta di quadro astratto molto colorato. Lì ho avuto l’idea di dipingere le proiezioni nel tentativo di rappresentare il colore, diversamente dalla pittura con il colore. In seguito ho scattato molte fotografie tralasciando i riferimenti spaziali, e per andare ancora oltre ho invertito l’immagine. Fondamentalmente ho utilizzato il suo negativo (nella fotografia analogica). Invertendolo, si è sentito in una sorta di incognita, un’idea tecnica dietro la tenda. Ecco da dove viene il colore. Queste immagini appartengono per me al fuori, una prospettiva possibile ma incerta e non determinata.

MZ: Nel lavoro degli ultimi anni, la tua ricerca è arrivata a mettere in discussione anche lo statuto della pittura, nel suo rapporto con i materiali, la natura e il tempo.
PV: L’idea della materia nella mia pratica ha preso forma intorno al 2012. C’era la necessità di riportare l’estetica effimera alla consapevolezza del qui e ora. Ho iniziato a raschiare alcune parti del dipinto finito quando era ancora bagnato, riportando quell’immagine liquida spaziosa e indefinita a una traccia fisica di un momento. La pittura è tornata a essere pittura in quanto tale, come materia in relazione alla pittura che rappresenta qualcosa. Anche i quadri con le impronte digitali vanno visti in questo sviluppo.
Qualche anno dopo, l’elemento della pietra di marmo ha attirato la mia attenzione. Ha quasi tutto quello su cui stavo già lavorando e ha catturato in un certo senso le mie fascinazioni. È fondamentalmente tempo e spazio cristallizzato, che mostra la sua storia inafferrabile attraverso l’intervento umano.
Ultimamente, attraverso strutture architettoniche spoglie, la materia viene utilizzata in contesti espositivi per confrontarsi e opporsi ai dipinti murali, definire o decomporre lo spazio e far sì che il pubblico guardi e si muova di conseguenza.
MZ: Cosa succede quando gli sfondi monocromatici o i vari strati di smalti colorati sono applicati alla superficie del marmo o del legno fossile rispetto alla pittura su tela?
PV: Il primo sviluppo è stato mettere la materia in relazione con l’illusione pittorica su tela. Una materializzazione della pittura. Dipingere su una lastra di marmo ha più a che fare con il dipingere via qualcosa, con la nozione di smaterializzazione.

MZ: All’interno dei tuoi monocromi con molte sfumature e molte gradazioni di colore puoi trovare un senso di pace e purificarti dalle infinite figurazioni che ci attraversano continuamente ogni giorno. Dov’è il respiro del colore puro?
PV: Evitando e togliendo tutti i riferimenti spaziali in un quadro il risultato è uno spazio fatto di sfumature di colore. Questa è infatti l’importanza del colore nel mio lavoro. È ciò che rimane nel quadro. Diventa la fonte principale. In generale il colore mi attrae perché non è qualcosa che possiamo dire che cosa sia. Possiamo aggiungere molti additivi, ma, quando vogliamo definirlo veramente, i nostri limiti linguistici sono raggiunti. Questo naturalmente si basa sulla percezione empirica. È un po’ in linea con i dipinti murali a gradiente, dove l’apparizione o la scomparsa del colore non ci permette di dire che tipo di colore osserviamo in un certo punto perché è in transizione, e fondamentalmente analogo al tempo. Un’altra qualità che apprezzo nel colore è la sua capacità di avere un impatto diretto. Va dritto ai sensi, un po’ come fa la musica, e ci si può perdere.
MZ: L’astrazione monocromatica e aniconica è una fuga dalla realtà, un altro modo di abitarla, o cos’altro?
PV: La vedo come una meta alternativa, fatta di elementi fondamentali della cosiddetta realtà.

In copertina: Pieter Vermeersch, Untitled, 2020 (detail), courtesy the artist and Galerie Perrotin © Photo Éric Simon