La sorpresa ricominciata del senso. Su Jean-Luc Nancy

È da poco uscito un numero speciale della rivista “Lignes” interamente dedicato a Jean-Luc Nancy. Per gentile concessione del direttore della rivista, Michel Surya, e dell’autore, pubblichiamo un saggio di Jean-Christophe Bailly. Il saggio farà parte anche di un volume di Bailly, in uscita nelle prossime settimane per i tipi delle Editions William Blake & Co.

Appena dopo la scomparsa di Jean-Luc Nancy, dovendo rispondere in tutta fretta alla richiesta di uno scritto in suo omaggio, che ovviamente non potevo rifiutare, sono stato preso dalla vertigine. In effetti, al di là della difficoltà insita in questo tipo di esercizio, avevo davanti a me, ma è un modo di dire perché spesso era piuttosto dietro di me, e a volte anche molto lontano, un orizzonte di libri davvero considerevole. La fortuna che ho avuto, se posso parlare così, è stata di trovarmi in campagna e quindi materialmente lontano da questa riserva di senso. Non potendo compulsarla, ho dovuto accontentarmi della mia memoria e di alcune citazioni presenti in testi che avevo sul computer, cosa che, alla fine, si è rivelata una salvezza. Ma adesso, di fronte ai libri – anche se non li ho tutti, ne ho comunque molti – avverto un imbarazzo che penso proveranno tutti coloro che saranno portati ad avvicinarsi alla sua opera, soprattutto in modo generico, piuttosto che da un’angolazione particolare.

Bisogna dirlo: di fronte a un tale fluire vi è anzitutto gioia, che è tanto più grande in quanto non è affatto come una massa, neanche suddivisa in sezioni più o meno differenziate, che l’opera si presenta. Il suo modo di apparire, da qualsiasi lato la si avvicini, è quello della disseminazione, e a tal punto che si può dire che la disseminazione infinita, che è uno dei suoi schemi più attivi, caratterizza anche la sua modalità operativa fondamentale. Se la quantità (di segni, di pagine, di interventi, di libri e di opuscoli distinti) è un tratto caratteristico dell’opera di Nancy, questa tuttavia non costituisce mai un blocco: non innalzando in sé il minimo monumento, né erigendo sopra o accanto a sé il minimo punto di vista panoramico da cui la si possa contemplare, riassumere e quindi perdere, essa se ne va in pezzi, fedele a se stessa, per sentieri che apre tracciando un varco [en frayant], e non è un caso che la nozione di frayage, che, nell’ordine sensibile, si accosta al campo della pesca, torni così spesso in Jean-Luc Nancy, dove designa una modalità di lettura del mondo che è innanzitutto una scienza intuitiva del kairos, o la strategia rivista senza fine di una presa che è essa stessa sempre-già l’occasione di un rilancio. Ciascuna delle piste così percorse e aperte [frayées] è l’indicazione di un cammino che spetta al lettore percorrere a sua volta sulle orme di una guida insieme concentrata e sorridente. Chiunque abbia seguito alcuni di questi cammini si rende subito conto che non percorrono un territorio noto e predefinito, ma ne circoscrivono un altro, che non si scopre che allargandosi e riempiendosi di stelle, e la cui coerenza è tanto più sorprendente nella misura in cui non dipende da alcun cemento.

Ora, questi sentieri, nella maggior parte dei casi, sono delle piste che inizialmente Nancy ha seguito in quanto era stato invitato a farlo. All’inizio di Signes sensibles, il libro in cui dialoga con Jérôme Lèbre, spiega, ad esempio, che se ha lavorato sul ritratto è stato «per una ragione contingente, venuta da altrove, da qualcun altro»[1] e aggiunge che questo è «di fatto il caso della grande maggioranza dei temi e dei soggetti su cui [ha] lavorato», con l’eccezione, però, di tre aree di problematiche che egli indica e che sono il senso, il cristianesimo e il sesso – alle quali potremmo aggiungere, credo, una quarta area, quella politica, che ruoterebbe intorno alla questione della comunità o della possibilità di un «noi» che ci nominerebbe. Secondo questa descrizione, da un lato, ci sarebbe una sorta di zoccolo continentale che si sposta lui stesso in tre o quattro direzioni e, dall’altro, uno spuntare sempre latente di penisole e d’arcipelaghi. Ma una tale ripartizione tra ciò che dipenderebbe da un fondo concettuale piuttosto centripeto e dalle incursioni intrinsecamente centrifughe non ha che una validità relativa, poiché questo groviglio di concetti, di schemi, di campi di conoscenza e d’esperienze è in permanente divenire, e questo divenire fatto di collisioni, di leitmotiv, di varianti, di riprese, di rimbalzi, lungi dall’interrompersi con ciò che ci priva oggi della sua estensione, è in atto, risvegliato da ogni lettura. Vi è in realtà l’intero lessico del con [avec] che ogni volta viene mobilizzato dal minimo percorso effettuato nell’opera. Il work in progress dell’opera non cessa di lavorare al di là di ciò che sembra chiuderlo, anzi, è tutto il contrario – e ciò che si potrebbe dire di qualsiasi opera che è aperta all’interpretazione prende con l’opera di Jean-Luc Nancy la piega di un singolare ricominciamento, che è ciò che ogni lettura riscopre. In lui c’è infatti sempre stato, ed è stato così fino alla fine, nonostante la stanchezza del corpo e il peso sempre più opprimente dell’epoca, un entusiasmo del pensiero, che è straordinariamente contaminante.

Il «tratto aprente» [trait ouvrant] che traccia il suo cammino – so bene di prendere in prestito questa espressione da Heidegger, o almeno dai suoi traduttori, ma non credo che Jean-Luc me ne avrebbe voluto – tratto aprente che, tracciando il suo percorso, illumina la strada che il lettore deve seguire, è esso stesso il risultato di uno slancio: «filosofare, scriveva Nancy in Un jour les dieux se retirent…, non va senza slancio, nemmeno senza uno slancio violento, che getta in avanti e che anche strappa: che strappa al senso depositato, sedimentato, a metà decomposto e che getta verso del senso possibile, soprattutto non dato, non disponibile, che va spiato, sorpreso nella sua venuta imprevedibile e mai semplice, mai univoca»[2]. Questo modo di venire al senso lasciandolo lui stesso venire anche se non è dato, è esattamente questo il frayage: un lavoro, un’azione esercitata, un’inchiesta e una questua, un progress o un process, ma che non è possibile che in quanto il senso è lui stesso una mozione o un’emozione: «La verità punteggia, il senso concatena»[3], diceva ancora Jean-Luc, e noi dobbiamo intendere questa formula come qualcosa di puramente descrittivo, dove il senso non esiste che in quanto è ciò che concatena e articola dei punti di verità che, invece, sono fissi, anche se è per trasformarsi in punti interrogativi: «La verità diventa un punto di fuga che si anamorfizza in punto interrogativo. La verità diventa: che cos’è la verità?»[4]. Da un punto o da un abisso all’altro, il senso traccia e si traccia, il senso apre [fraye] e fugge, ogni punto può essere inteso (compreso e ricevuto) come una chiamata: alla chiamata la filosofia risponde, e la sua presenza o il suo ruolo non sono altro che la risposta a questa chiamata, che rilancia al di là di sé, in un movimento senza fine: «Può darsi che non si risponda alla chiamata che con la ripetizione della chiamata», viene affermato in Les raisons d’écrire[5], dove questa ripetizione è paragonata alla catena di chiamate (o di responsori!) che percorre le cinta nelle notti di guardia, passando da una sentinella all’altra. Leggendo questa evocazione in un treno che filava nella notte, mi è sembrato che vi si indicasse qualcosa di preciso, che era come il fruscio d’ali della civetta di Minerva, ma soprattutto vi ho sentito un’eco di ciò che attende la sentinella dell’Agamennone di Eschilo quando, nel passo che apre l’Orestea (e che è come il tratto aprente o l’inciso di tutto il teatro occidentale), evoca il lungo silenzio notturno in cui finalmente si manifesterà il segnale che avrà per lei il significato di una liberazione («O dei, liberatemi dalla mia prova, dopo un anno che veglio, a terra, con la testa sui gomiti come un cane nel palazzo degli Atridi, contemplando la processione notturna degli astri»[6]). Ma ciò che attende questa sentinella, al di là dell’annuncio della fine della guerra di Troia e di ciò che essa significa per lei, è innanzitutto la visibilità di questa serie di segnali, è ciò che, attraverso fuochi accesi di tanto in tanto, si è ripercosso di crinale in crinale fino a lei. In altre parole, il puro movimento di un senso che viene – oppure la sua allegoria visibile, con altre parole ancora, la venuta stessa. Quella di questo senso che, come ci dice Jean-Luc Nancy, non si «aggiunge né è supposto aggiungersi ai fatti», ma che è il loro arrivare, il loro venire[7]. Questo perpetuo venire del senso è senza fine ciò che lo libera e lo riconduce. Di chiamata in chiamata, il rimbalzo rilancia completamente la situazione, il che significa che è sempre in cambiamento e che quindi non c’è altra donazione se non quella del senso, proprio perché non è dato ma perché viene. Jean-Luc Nancy, che io sappia, non ha affrontato la questione in questi termini, ma si potrebbe dire che c’è nel modo in cui descrive la venuta una potenza di desostantivazione che lancia la forma infinitiva dei verbi – arrivare, venire, divenire e anche, certo, essere – come ciò che vi sarebbe di più adatto a caratterizzare l’avvenire, preservandolo dal senso depositato nel quale la sorveglianza totemica dei nomi tende a installarlo.

A diverse riprese, e specificamente in À l’écoute, Nancy ha utilizzato il registro sensibile del sonoro per caratterizzare la venuta, visto che con il suono (con ogni evento sonoro) accade in effetti come se in esso si giocasse tutta la distensione che va dal punto al punto di fuga, o dall’apparizione alla scomparsa, o, in altre parole, come se la forma del suono, che è decisamente indecidibile tra il suo invio e la sua ricezione, o tra la sua emissione e il suo ascolto, non fosse nient’altro che un passaggio o un arrivo dilatato. «La presenza sonora arriva»[8], scrive Jean-Luc Nancy, e questo arrivo, che è la sua firma, la caratterizza come una sorta di provenienza in partenza, o come l’esatta sovrapposizione di ciò che si dischiude e di ciò che scompare. Non c’è presenza che non sia in via di sopraggiungere o di andarsene, e questa caratteristica della presenza sonora è la forma sensibile attraverso cui si rivela l’essere del senso. Il senso, che è «direttamente il mondo»[9] [à même le monde], si rivela solo nella misura in cui risuona, e questa risonanza ha sempre la lunghezza estensibile di un passaggio o di un salto che finisce per svanire. Ma prima dello svanire c’è la chiamata e così, senza fine. Il senso così percepito, così compreso, si confonde forzatamente con l’esuberanza, è questa esuberanza con cui il mondo si propaga frammentandosi all’infinito. L’infinito della frammentazione e l’esuberanza del senso sono una sola e stessa cosa, ma ciò che è così strano, in questa descrizione, è la calma con cui Jean-Luc Nancy la raccoglie. Quando evoca «questa frammentazione di senso che è l’esistenza»[10], è come se indicasse, all’interno stesso della dispersione, il segno di una sorta di unità indivisa, di cui il «c’è» [il y a] è il garante: «C’è del c’è – e ciò stesso fa senso, e niente fa senso peraltro»[11] [Il y a de il y a — et cela même fait sens, et rien ne fait sens par ailleurs]. È nell’unanimità del c’è che si libera la singolarità di ogni punta di esistenza, ma questo «c’è» in cui tuttavia tutto rientra o può rientrare non è un contenente e tanto meno un continente: la forma del dispiegamento non è mai quella di un riempimento, e nessun uno, nessun piccolo uno, è sotto la dipendenza o nella nostalgia di un grande Uno che lo avrebbe preceduto. La conseguenza più immediata del c’è è che non c’è precedenza e ancor meno origine: in quello che sarà con nostra tristezza l’ultimo dei suoi libri, in Cruor dunque, Jean-Luc Nancy propone una formula che riassume e incarna questa evasione dalla giurisdizione dell’Uno, e che è stupefacente, eccola: «il bang non è uno»[12] [le bang n’est pas un], e quello di cui per la prima volta è questione, in quel momento, in questo libro che la vicinanza della fine tuttavia limita da un capo all’altro, è una universalità della spinta, è una estensione all’infinito di ogni cominciamento, di ogni tensione di un sé verso sé e verso più di sé, è la perseveranza di ogni cosa nel suo essere. Ed è significativo che allora la cosa e il sé della cosa siano caratterizzati in modo assolutamente concreto, in altri termini da forme dell’uno mutuate da quelli che un tempo venivano chiamati i tre regni, e qui non posso che citare: «Ogni cosa così persevera nel suo essere che lui stesso non è nient’altro che questa perseveranza. Quella di una mica, di una foglia, di un orso»[13]. Ciò che si apre attraverso la mediazione della scelta di questi termini, una scelta che forse è sorprendente ma a colpo sicuro divertente, è la puntualità di ciò che si sottrae a qualsiasi presa generica, è l’esattezza, nella misura in cui fa da contrappunto (in senso quasi musicale) all’esuberanza. Con la scelta di questi tre nomi, quello di un minerale, di un vegetale e di un animale, anche se rimandano, e non è ovviamente un caso, a una certa tradizione romantica (non dimentichiamo mai che è a Jean-Luc e a Lacoue che dobbiamo con L’Absolu littéraire la prima grande opera filosofica importante, in Francia, sul Romanticismo tedesco), non usciamo da questa quotidianità del senso, che, come ci è stato ricordato ne Le Sens du monde, non va pensata come «l’opposto spento del fulgore» ma, al contrario, «come la grandezza della semplicità in cui il senso si eccede»[14].

Siamo qui nel pieno di quella zona di contatto in cui la filosofia si affianca o si congiunge alla poesia, e naturalmente non tanto nelle sue opere quanto secondo la tensione con cui quest’ultima solleva il linguaggio. Se la poesia è davvero «l’azione integrale della disposizione al senso»[15], allora il suo rapporto con la filosofia, che da parte sua è definita come «prassi del senso», non può essere che quello di una prossimità, ma questa prossimità, che niente può né deve sigillare, è quella che deriva dalla frequentazione delle stesse poste in gioco o ancora, più precisamente, anche se si tratta di un termine religioso, della stessa osservanza. Se l’osservanza può essere definita come ciò che non è altro che attenzione verso la venuta, allora credo che si possano discernere delle tecniche di osservanza distinte, che giustamente non possono collaborare, convergere, che restando distinte. Filosofia e poesia o forse più precisamente enunciato filosofico e poema si ascoltano l’un l’altro (l’una e l’altra), ascoltano la modalità con cui l’uno e l’altro si avvicinano al senso e lo configurano. Il senso di cui la filosofia è la prassi è scandito dalla poesia («la poesia è lo scanner del senso» dice Jean-Luc in Calcul du poète[16]), il che significa che il c’è [le il y a] è (deve essere) al tempo stesso pensato in quanto tale e sondato in ogni suo punto. Il c’è è il piano d’immanenza attraverso cui l’essere singolare plurale si realizza. Ma questa realizzazione è l’opposto di un accatastamento e ciò che Jean-Luc Nancy mostra, in La Déclosion, a proposito di un albero[17], vale per ogni cosa. L’albero vi è descritto come una «unità di appartenenza», a sua volta scomposta in uno sfogliare infinito di esistenze simultanee che sono tutte e in ogni momento in relazione le une con le altre. La «potenza di rapporto» che caratterizza il soggetto è l’operatrice assoluta: il mondo non ha luogo che in quanto si dispiega sotto la sua istanza, nell’infinito in atto di un grande gesto di cui non conosciamo né l’origine né la fine. Meglio, non è che liberandosi dalla doppia tutela di un’origine e di una fine che il divenire si sposta verso lui stesso e in questo processo ogni punto, ogni uno, invece di essere concepito e funzionare come un’unità fissa, diventa ciò che «sovverte la chiusura della rete», come se tutto poggiasse in qualche modo sulla qualità dell’individuazione, essendo questa contigua alla potenza di rapporto.

E ciò che è così affascinante qui è che, senza in alcun modo formare un sistema, la sovrapposizione è intera, vale a dire interamente produttrice, tra ciò che possiamo chiamare il versante ontologico del pensiero di Nancy e ciò che in questo stesso pensiero attiene al politico. Che cos’è, infatti, questa «politica del legame infinito» [politique du lien infini] che ha immaginato, se non l’effettuazione umana di questa contiguità tra la singolarità e la potenza di rapporto? Se non la conseguenza, pensabile per una comunità, dell’osservanza comune di ciò che le accade quando capisce che ciò che le accade è ciò che viene liberato in ciascuno dei suoi punti? Il legame infinito, in una tale prospettiva, non è solo quello che riposa sull’esistenza di un’esposizione comune al comune, ma è anche quello che conta sulla differenza di cui ogni forma di esposizione è la prova. Così come nessuna parte dell’albero è riducibile alla sua appartenenza all’unità alla quale si collega, nessun soggetto è assimilabile a una sorta di campione d’umanità che sarebbe in quanto tale scambiabile – e sostituibile – all’infinito. Un pensiero dell’insostituibile è insito nella concezione e nella possibilità di una politica del legame infinito. Ma l’insostituibile non ha luogo se non all’interno della rete non chiusa dove ogni differenza è liberata. La voce, in quanto è contemporaneamente la firma dell’individuo e ciò che lo apre alla possibilità dello scambio, è l’organo di questa differenza. La condivisione delle voci, si può anche intenderla al di là del dialogico come lo spazio di una scena rigiocata senza fine in cui l’intreccio di tutte le voci, ciascuna secondo il proprio timbro, ribalta la possibilità corale e la rinvia alla sua nostalgia dell’Uno. L’ultimo capitolo del libro (troppo poco letto, mi sembra) che Nancy ha scritto su Hegel è dedicato al «Noi», ovvero a questo pronome che incarna contemporaneamente la possibilità del diverso e il rischio di consumarla in un’unità fittizia, ma questo noi, di cui ha ben precisato che con esso ne va di «noi tutti» e non di un sottoinsieme dell’umanità, in ultima analisi lo fonda o lo ancora a una comunità che sarebbe quella dell’inquietudine, quella della non-quiete: «in questa non-quiete che noi siamo»[18], dice, e io vedo in queste pagine magnifiche, dove tra l’altro il vigore di ciò che potrebbe voler dire l’assoluto è totalmente rilanciato, l’ombra o il rimbalzo di ciò che avevamo cercato di rimettere sul tavolo quando abbiamo scritto La Comparution, e questo nel momento in cui quella che è stata chiamata la caduta del comunismo era appena avvenuta, ormai già trent’anni fa.

Avrei voluto parlare dell’idea che stava alla base di questo testo e del modo in cui è stato scritto, innanzitutto perché attraverso questa esperienza mi è stato possibile avvicinare il più possibile la sorridente tenacia e la disarmante calma di Jean-Luc, ma, che si tratti del suo formidabile impegno o della sua generosità, sono qui dei tratti che non posso ricordare che di sfuggita, alla fine di questo tentativo troppo breve e senz’altro troppo sommario di ricapitolazione. Quello che vedo soprattutto è tutto ciò che ad esso manca, tutto ciò che lascia da parte, tutti quei punti che non ho toccato, o che ho toccato solo in parte, per esempio quel lungo e discontinuo colloquiare sull’ateismo, che era il filo conduttore delle nostre conversazioni così spesso vivaci, e che ormai mi mancano così tanto.

[Traduzione di Francesco Deotto]


[1] J.-L. Nancy e J. Lèbre, Signes sensibles, Parigi, Bayard, 2007, p. 7.

[2] Questo testo è stato pubblicato nel 2001 presso William Blake & Cie ed è stato poi ripreso in J.-L. Nancy Demande, Parigi, Galilée, 2015.

[3] J.-L. Nancy, Le Sens du monde, Parigi, Galilée, 1993, p. 29 [Id., Il senso del mondo, trad. di Federico Ferrari, Lanfranchi, Milano, 1997, p. 25].

[4] J.-L. Nancy, Un jour les dieux se retirent…, op. cit., p. 39.

[5] Testo ugualmente ripreso in Demande, op. cit., pp. 45-58.

[6] Eschilo, Agamemmon, in L’Orestie, Parigi, Garnier-Flammarion, 2001, p. 109.

[7] J.-L. Nancy, Demande, op. cit., p. 70.

[8] J.-L. Nancy, À l’écoute, Parigi, Galilée, 2002, p. 34 [Id., All’ascolto, trad. di Enrica Lisciani-Petrini, Milano, Raffaelo Cortina, 2004, p. 24].

[9] J.-L. Nancy, Le Sens du monde, op. cit., p. 31 [tr. it. cit., p. 27].

[10] Ibid., p. 212 [tr. it. cit., p. 172].  

[11] Ibid., p. 92 [tr. it. cit., p. 72].

[12] J.-L. Nancy, Cruor, Parigi, Galilée, 2021, p. 53.

[13] Ibid., p. 53.

[14] J.-L. Nancy, Le Sens du monde, op. cit., p. 36 [tr. it. cit., p. 30].

[15] J.-L. Nancy, Résistance de la poésie, Bordeaux, William Blake & Cie, 1997, p. 12 [Id., La custodia del senso: necessità e resistenza della poesia,trad. di Roberto Maier e Rossella Romano, Bologna, EDB, 2017, p. 25].

[16] Testo ripreso in Demande, op. cit., p. 121.

[17] J.-L. Nancy, La Déclosion, Parigi, Galilée, 2005, p. 111 [Id., La dischiusura: decostruzione del cristianesimo, 1, trad. di Rolando Deval e Antonella Moscati, Napoli, Cronopio, 2007, p. 104].

[18] J.-L. Nancy, Hegel, Parigi, Hachette, 1997, p. 117 [Id., Hegel: l’inquietudine del negativo, trad. di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli, 1998, p. 108]. L’inquietudine è d’altra parte lo schema dominante del libro su Hegel, come viene anche riflettuto in modo eminente dal sottotitolo: L’inquiétude du négatif.

In copertina: Jean-Luc Nancy

(Parigi, 1949) insegna all’École nationale supérieure de la Nature et du Paysage di Blois. Poeta, saggista e autore teatrale, ha pubblicato numerose opere, tra le quali "Le versant animal" (2007), "Le dépaysement" (2011) e "La phrase urbaine" (2013), "L'imagement" (2020). Tra i suoi lavori tradotti in italiano, "L’apostrofe muta. Sui ritratti di Fayum" (Quodlibet 1998 et Doppiozero 2015), "L’instante e la sua ombra" (Bruno Mondadori 2010), "Il partito preso degli animali" (Nottetempo 2015) e "La frase urbana" (Bollati Boringhieri 2016).

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