Fior de gaggìa
Quanno canto io canto con allegria
E se io dico tutto rovino… ‘sta compagnia
*
Fiore de sabbia
Tu ridi scherzi e fai la santa donna
E ‘nvece ‘n petto schiatti da la rabbia
*
Fiore de menta
Fermète bocca che c’è ‘n innocente
È mejo che nun veda e che nun senta
*
Fior de cucuzza
‘Na donna pe’ ‘sti baffi andava pazza
E adesso che l’ha persi ce va in puzza
*
Fiore de merda
Io me so’ liberata da ‘na corda
Adesso tocca a ‘n’altra a fa la serva
[Mamma Roma]
I. Fior de gaggìa
Non c’è nessuna parodia silenziosa nelle messe in scena sacre della pittura dell’arte italiana del museo mentale di Pasolini. La parodia è altrove, semmai. Nella scelta stessa degli interpreti, nella scelta della faccia, c’è già lo sguardo di un pittore, o di un artista che è stato segnato da altri volti anonimi resi celebri da qualche pala d’altare. Sappiamo grazie ad una scena del Decameron come accadeva la scelta, dell’allievo di Giotto come di Pasolini: un volto incrociato per caso, nella foga di Napoli, al mercato, alla porta di un’osteria a Testaccio, fermato con la cinepresa di quattro dita aperte sopra l’occhio; poi riproposto, in forma di figura dipinta, sulla scena affrescata o in pellicola. Persone qualunque vestite di sacro, come è sempre stato nella storia, da quando un artista ha inventato la caratterizzazione dei volti di quegli attanti, da quando ha deciso di renderli somiglianti a qualcuno di attuale; quando un artista, chissà quanti secoli fa, ha scelto di scavare nell’ovale piatto due zigomi, una strana forma del mento, una luce diversa negli occhi. I ritratti mortuari per primi conservano una fisionomia di impressionante verità, un’impronta vera del volto scomparso: i ritratti del Fayyum; con la differenza che loro non hanno niente di sacro, sono, letteralmente, ritratti. Poi è stato trasposto lo stesso ardore per il volto nelle rappresentazioni sacre, qualche secolo dopo. Per questo non c’è molto di diverso tra l’opera di Pasolini e l’opera di Piero della Francesca, niente di “nuovo” da questo punto di vista. È un gesto antico. Anche nei film di Pasolini i volti ritornano, si ripetono, nelle vesti dell’uno e dell’altro, come i modelli affezionati di un pittore.

La faccia: unico indizio per riconoscere, i morti come i vivi; ed è ancora una volta Maddalena ad addossarsene il peso, su di lei incombe la colpa di questa mancata agnitio, consapevole o no “stai attenta a riconoscere bene i tuoi aggressori, che se poi qualcuno dovesse risultare innocente, vai incontro a dei guai” [Accattone].
Non è Mantegna: è prerinascimentale, è protoprospettico, è quando il piano è solo un davanti e un dietro, un solido pesante e ingombrante, un peso bianco e nero. Non è uno scherzo: è la cosa più sacra che ci sia. Sono corpi privi di ombre – forse poco più di ombre loro stessi. Sembrano pesare, ma come per negazione, come la densità di un buco nero, delle bruciature nella pellicola.

L’eterno paternalismo del Cristo Giudice in mandorla è sostituito dalla Madonna altrettanto severa e giudicante di Silvana Mangano, che è più sfinge che madre; Silvana Mangano è la Madonna – la sua; non è attrice, non c’è finzione, nell’ordine universale del sogno pasoliniano. È uno di quei tanti volti che si appellano direttamente alla sua coscienza, che gli cercano dentro qualcosa che è per lui introvabile, ma gli inchioda nel cuore la domanda “cos’è?”; cosa cercano in me i suoi occhi, cosa vuol dire questo posarsi del suo sguardo su di me, questo premere piano e aderire direttamente a me come in uno specchio. Questi primitivi interrogativi, di un uomo che impara il mondo per la prima volta, sembrano catalizzare l’attenzione di Pasolini sull’opera, su un gesto in essa descritto, su un volto, su un panno. Vediamo, sciolto, attraverso le scene dei suoi film, l’enigma che gli suscitano certi dettagli di altre opere. Si guardano direttamente negli occhi: il Cristo di Mantegna (non morto, ma sognante) e la donna-Giudice regina del suo universo, come un gioco delle parti, il vero Pasolini e la vera Silvana Mangano.

Il sacro non è altro che questo: rappresentazione, ri-presentarsi, in primo luogo, fango, nudo e corpi; figura, sagome umane profilate in un cielo celeste-piatto da scenografo; sogno, un volto del passato che riappare nella madre, nel garzone, nel volto del mercante senza denti dagli zigomi prominenti. È il sacro di Giotto, preraffaellita, degli uomini in strada; è il sacro e il devoto della gente comune, non l’astrusità della lettura evangelica ecclesiastica o patristica. In questo sacro la Madonna è una donna, il bambino è bambino, il pastore è pastore, e siamo tutti noi l’uno o l’altro o tutti questi insieme. Anche Caravaggio pescava le sue Madonne dal Tevere o le incontrava in un postribolo romano. Non vi è nulla di davvero dissacrante; dipende da che punto di vista lo si vede. È in realtà un cristianesimo letterale, originario, non-dogmatico, di Gesù uomo prima che figlio. È una parlata dialettale e una parola familiare, una lingua comune, un’immagine sotto gli occhi di tutti lampante come i fili d’erba di campo “Che ce volete insegnà la Bibbia a noi? La messa va detta cantata.” [Mamma Roma].
II. Fiore de sabbia
Poi c’è Masaccio con la sua massa atavica e presentissima, di un magma strascicato, che avanza nel suo stentoreo eterno incedere; Mantegna ma solo con i suoi scorci, e l’Evangelista, Gesù inchiodato, le Marie, nient’altro che interpreti, che fingono nella loro autenticità. Ma l’unico colore possibile è di Rosso e Pontormo, che emergono dal biancoenero della pellicola e della borgata romana come visioni estatiche.

La corona di spine – antico ricordo di fiori anch’esse – si staglia contro la campagna romana, la Caffarella e contro i nuovi casamenti seriali dei primi anni ’50 costruiti con l’illusione cementizia del boom economico. Poco è cambiato, comunque: nuovi cristi muoiono, dimenticati questa volta, senza nome, schiacciati dal numero e dal peso anonimo della nuova massa operaia, che ha viaggiato dal ventre della campagna per pullulare i nuovi sottoboschi della città. Nuove donne li piangono, inascoltate.

Due braccia emergono dal nulla, e due mani pittoriche incoronano il quartiere Appio, o il Quadraro, o Don Bosco. Incredibile da quelle colate di cemento pensare che il mare non è poi così distante, che il cielo è appena lì sopra, posato, e che intorno non è altro che erba di campo, “Una coltre di primule”[1], e grotte ancora abitate da qualche vagabondo, scavate nel tufo, come all’inizio del tempo; e distese di ruderi malcerti senza amore[2]. Gli stessi campi dove nel Seicento e nel Settecento si raccoglievano, come primizie della terra, stralci di capitelli, di basi, di trabeazioni, frammenti della Roma Antica macinati nella terra, fatti a pezzi dall’indifferenza dei suoi denti; o si scoprivano per sciagura, magari rimettendoci la pelle, corridoi sotterranei di catacombe paleocristiane. Pasolini sa tutto questo, ne ha un’acuminata consapevolezza: della stratificazione del tempo, della sacralità dei prati e del fango che calpesta e delle cave dove va a consumarsi, (in quei monticelli traforati di cave, | dolci Tebaidi dove la natura ignorata | dagli uomini nuovi, festeggia l’aprile[3])e nessuno come lui la coglie.
Come ogni artista che abbia ambientato la sua crocifissione nella sua terra, o nel suo luogo più caro, o nel luogo dei suoi committenti, e che quindi abbia svelato appieno il vero significato di rappresentazione, che è alla radice del sacro, perché esso è irripetibile. Accade una volta, nella storia, per scomparire per sempre; l’uomo ne insegue le tracce, l’artista lo rappresenta. Ogni artista le sue acque, i suoi monti, i suoi casamenti. Il lago di Ginevra di Konrad Witz, lo stretto di Messina di Antonello, il mare di Provenza e il monte Sainte-Victoire di Quarton e poi, secoli dopo, di Cézanne. Gli artisti si accavallano, si susseguono; quelli restano lì, imperterriti, come le case romane. La rappresentazione si incarna nei luoghi, assume forme e topografie determinate e infinite. Ed ecco che anche le borgate trovano il loro posto nella storia del mondo.

“[…] vengono Mamma Roma e suo figlio, | verso la casa nuova, tra ventagli | di case, là dove il sole posa ali | arcaiche: che sfondi, faccia pure | di questi corpi in moto statue | di legno, figure masaccesche | deteriorate, con guance bianche | bianche, e occhiaie nere opache|-occhiaie dei tempi delle primule, | delle ciliegie, delle prime invasioni | barbariche negli «ardenti | solicelli italici»… Sono altari | queste quinte dell’Ina-Casa, | in fuga nella Luce Bullicante, | a Cecafumo. Altari della gloria | popolare. […]”. [23 aprile 1962, Poesie mondane, in Poesia in forma di Rosa, p. 1095.]
Il primo film inizia all’insegna del fiore, – fiori da subito, presagio di morte – fiori che ritornano appuntati ad ogni scena chiave, a puntellare le immagini come chiodi fissi, che bucano il grigio della pellicola con le loro chiazze di bianco, di chiaro, di nulla. Talmente nulla come il cibo che scarseggia; ci si riempie la bocca di petali, per scherzare sulla fame – il fiore si sfibra e i suoi petali si liberano dalla sua morsa costrittiva, rompono lo schema rigido della corolla. Oppure appuntati sui capelli, su un cappello: oggetti di scena. Vecchi trucchi da pittore. Come il solito orecchino col fiocco e la perla, la brocca di vino, il solito tavolaccio di Caravaggio: elementi che tessono una trama; che ritornano, quadro dopo quadro, sempre gli stessi, e percorrono tutta la sua opera come una firma, un ricordo, una piccola ossessione materiale, un’autografia nascosta. C’è un po’ di sé negli oggetti. Che ricordano che è messa in scena, teatro, finzione. È infatti di Maddalena (quale altro nome per lei se non questo), compagna di cella di Elsa Morante, quel gesto del fiore tra i capelli: quasi di repertorio, quel gesto le appartiene nei millenni, così come i capelli lunghi, e forse quello stesso fiore è stato colto dal giardino fiorito del noli me tangere.
Il primo film ha nel fiore la sua struttura: inizia con un mazzo di fiori e finisce così; i primi freschi, belli, potati, preparati forse già per il morto, – gli ultimi solo rimasugli, marciti, buttati su un carretto per nasconderci invano, sepolti da quei gambi secchi, la povera refurtiva galeotta di un prosciutto e di un salame.

III. Fiore de menta
I due animi più diversi tra loro possono trovare un punto di tangenza, una giusta distanza, nelle due rette parallele delle loro vite. Un incrocio comune dove darsi un passaggio. Un folgoratore e un folgorato. Un momento solo nella vita, un punto che la segna tutta: l’incontro del maestro. Uno scisso, l’altro integro, l’intellettuale rigido della pura forma e il poliedrico libero, che pullula di vita le sue immagini e abita le sue forme; l’uomo del “Caravaggio invertito” e quello delle erezioni dell’Ardeatina. Niente più che uno sguardo per indovinare e rispettare col silenzio i comuni e profondi interessi nell’altro, come specchiati in un riflesso, in due temperamenti così diversi. Indovinarne le segrete ragioni, e domandarsi in silenzio il perché di quel piccolo miracolo dell’essersi incontrati a metà strada, all’inizio di tutto; indugiare su di esso a distanza di anni, sui tratti del viso impressi nella forma viva del ricordo, nelle sue pareti a intonaco fresco, tanto da ripetere qualche tratto di quel volto, come un mantra, carboncino su carta – di nuovo, altri segni, altre facce -: tracciare e non descrivere! per rispettare quel silenzio, lasciar fuori le tante parole che avrebbero strabordato dall’orlo, inondato l’auto. È un incontro nella contraddizione, nella contrarietà, in una specie di compromesso che ha luogo nell’Appennino, nell’entroterra centro-italiano di Piero e Masaccio, in una geografia comune di presenze e assenze tracciate in province sconosciute, in itinerari segnati a matita su un taccuino e dedicazioni di chiese sottolineate da un segno tremante, appuntati per non dimenticare.
Gli stessi appunti che, una volta persi, segnarono la fine di un progetto comune: forse per quello sempre atteso, sempre sperato un nuovo incontro, un nuovo dialogo. Eppure non tutto si perde, resta un residuo di quell’incontro, forse, in un lessico comune tessuto in segreto, un linguaggio che ormai suona simile e addita le stesse tracce: in quel comune ricercare la polpa di cose intime, anche nella pellicola pittorica di una parete affrescata, e in quegli scarti linguistici di verità delicate […] che pungono in pelle in pelle[4]. Ed è forse l’allievo, nel suo sviluppo artistico, a far avverare l’auspicio del maestro, all’insaputa di entrambi: di una storia dell’arte senza nomi e senza date, poiché i nomi non contano o si confondono, si sovrappongono (Pontormo, Pasolini, Caravaggio, Masaccio); l’auspicio di rinvenire solo nel segno la concezione, l’origine – ma il nulla è tutto – nessun nome, tutti i nomi; l’auspicio di una figurazione fatta solo di forme e dunque di una compresenza stratigrafica univoca di segni, nomi e storia, in una sola immagine che contenga in sé tutte le altre.

IV. Fior de cucuzza
Secondo film, è già dall’inizio composizione pittorica, non serve arrivare alla notissima fine: la sposa, l’angelo, il bambino. Lo sposo tiene i gigli che campeggiano bianchissimi, già preannunciante del seme e del martirio; la prima scena è già tutta la storia, tutto il film: annunciazione e ultima cena, le scene preveggenti. L’assetto scenico del matrimonio è tuttavia infatti più quello di un’Ultima cena, un po’ Ghirlandaio, con il tavolo a ferro di cavallo, ma qui un solo arco inquadra i due protagonisti.
È così materica la figurazione di Pasolini, non ideale, che non solo egli gli conferisce corpo reale, la incarna come una scena sacra nella pellicola, la veste di carne, di persone reali, come d’altronde facevano già i maestri con la loro pittura, Giotto, Masaccio, Caravaggio. È una metarappresentazione proprio nel senso che egli incarna, rappresentando i suoi drammi sacri, non solo il rimando al dramma sacro, ma il medium preciso di quel rimando. È il rimando a un rimando a un rimando, è il gesto archetipico dell’arte: l’additare, il gesto di trattenere in sé un segno selezionato nell’universo vivente. È la rappresentazione per eccellenza: la rappresentazione di una rappresentazione, un riportarsi al passato tramite diverse “tappe”. E allo stesso tempo c’è la simultaneità del gesto: la parte sacrale, che rimane apparentemente invariata, ma che è soggetta a interpretazioni stratificate, la croce e il Cristo, o la Madonna con il Bambino. “Una forza del passato”[5].
È così materica, appunto, che egli, scavando con utensili di fortuna la verticalità di una parete insieme a qualche allievo, ha rinvenuto la sua propria scoperta figurativa, ed era un affresco in una delle sue chiesette dimenticate nel friulano, riportato in vita con l’uso di cipolle. Questa è la materia della sua figurazione; ed ecco perché non c’è niente di parodistico nelle sue messe in scene di poveri mezzi. Questo è quello che accade anche nelle sue messe in scena: scava fino a trovare la chiave, fino a ridurre all’essenziale ciò che la rappresentazione sacra presenta; l’essenza dei mezzi, l’essenza dei contenuti, per riproporli sotto questa luce nuova, torva e grigia degli anni Sessanta.
Il suo immaginario cinematografico – nel senso di immagini in movimento – è iniziato in quell’aula a Bologna in cui le immagini si muovevano una sull’altra, come già sul tracciato di una pellicola. E il montaggio anche, nella scelta e nell’ordire un prima e un dopo e nella selezione di quelle immagini, operata dal grande regista Roberto Longhi per un pubblico di soli studenti. Non è questo ordire anch’esso, storia della pittura? E la prima lezione di cinema di Pasolini è stata, appunto, quella di uno storico dell’arte, quella della forma (e della massa?), e già dunque sotto il segno del contrasto, della contraddizione, dei fatti di Masolino e di Masaccio, sotto il segno della loro “contrarietà fondamentale”.
Pesantezza e tenerezza – sorelle, vi distingue un identico tratto[6].
Accattone che con le sue spalle strette e la testa incurvata tra di esse, sembra anche lui appena cacciato dal paradiso terrestre: fin dall’inizio perduto, già morto. Il raccoglimento del volto tra le mani, gesto che si ripete nei suoi film come si ripetono i fiori – perché i segni di dolore e vergogna sono racchiusi in un unico gesto? Perché ci si vergogna del dolore? O perché è la vergogna ad addolorarci?

Le sue visioni sono intrise di pittura, che non è mai citazione, davvero; nella loro comune capacità e finzione estrema di creare dal nulla di una totale assenza di profondità una forma profonda che si distingua, una massa, dei corpi con spazio e peso. Di ritagliare in una piattezza priva di volume la fatica corporea di abitare un’esiguità di mondo, di calpestarne una porzione, e poggiare su questa porzione il peso del significato.
V. Fiore de merda
I suoi versi infatti hanno la forza e l’evidenza pittorica di qualche poeta russo, straniero anche il suo il suo sguardo straniato su Roma… di vero vagabondo i suoi passi privi di calcolo per le vie, le ossa più marginali della città. Comune il loro vocabolario descrittivo, di scarti rapidi e visivi, che quasi odorano, vocabolario pungente e contrastato (ombra e oro, gli insetti, il miele, il dolce e il pungente) la radiosa Appia | che formicola di migliaia di insetti; somigliante la loro condanna di esiliati, di guardare la propria stessa città con occhi meravigliati da qualunque superficie, stregati dalla immensa bellezza di una città da cui sono come banditi, ostracizzati. Città da cui ci si aspetta un’apocalisse: città colta “in una sua povera ora nuda, | terrificante come ogni nudità.” Gli insetti, il miele. “Terra incendiata” da un incendio di “ruderi rosa”, e soprattutto “carboni e ossa biancheggianti, impalcature dilavate dall’acqua e poi bruciate | di nuovo dal sole.”[7] Roma anche per Brodskij non sarà che una distesa d’ossa, di vertebre, scarti organici: guscio di cupole, vertebre di campanili[8]. Lo immagino percorrere le strade e le piazze e coglierne gli stessi incendi, le stesse esplosioni, le stesse scarnificazioni. La città come un organismo vivente, un corpo dilaniato dal fuoco, materia in decomposizione, muffa, sterco, viscere, feti, sabbia, sangue. Un ricordo d’un corpo vivo, residuale, colto con una visività lacerante; il Colosseo è come il teschio di Argo; nelle sue occhiaie vuote | nuotano le nuvole, ricordo dell’antico gregge[9]. Testaccio, dolce e infernale allo stesso tempo, con la sua “luce di miele proiettata sulla terra | dall’oltretomba.”[10] (Ha letto molto Mandel’štam.)
Il materiale figurativo dà forma al vissuto, lo anima: la pittura è attiva in maniera viva, dal passato, nel mondo di oggi, come se il suo destino fosse quello di riattualizzarsi, come se ogni estro vivesse in una sconcertante simultaneità; ed è fin dal suo primo Cinquecento il Pontormo, come un moderno lazzaro, a dare forma e colore a certi caseggiati romani nel 1962, gli stessi che incorniciano Mamma Roma: “Il Pontormo con un operatore | meticoloso, ha disposto cantoni | di case giallastre, a tagliare | questa luce friabile e molle | che dal cielo giallo si fa marrone | impolverato d’oro sul mondo cittadino…”[11]. Roma, nata dal pennello dell’artista, ha insita in sé la stessa coscienza manierista della fine.
La città è un colore, è una creazione artistica, ha cangianti capacità cromatiche, le varietà atmosferiche sono demiurghi coscienti “Dipinge l’orizzonte di un turchino | di mare meridiano, questa estrema | ora”[12]; “la pioggia ha verniciato la terra | intorno all’Aniene.”[13] “nel giorno di Roma che si stinge”[14]: una tavolozza di colori posti appositamente da un ingegno esterno; dunque una sorta di finzione inquietante, una rappresentazione anch’essa.
Il regista è presente nel quadro del Pontormo, quanto lo è nella scena a colori de la Ricotta: in quella figura di spalle… E il rapporto tra attori e personaggi è reciproco: i ciociari impersonano il Cristo, il ladrone, etc., ma allo stesso tempo, lo stesso ciociaro o il marchigiano degli anni ’60 è già presente nel Cinquecento di Pontormo.

Infatti, nella descrizione dei due ragazzi “riccioloni e un po’ rosci, hanno l’aria contadina: ma cresciuti in città”[15] che reggono il Cristo, di uno dei quali Pasolini arriva addirittura a indovinarne, dal solo dato fisionomico, l’origine marchigiana: sembrano uscite dalla penna del suo maestro che tirava a indovinare simili suggestioni. Tanto che leggendo alcune descrizioni di Longhi sembra di leggere dei versi o una sceneggiatura di Pasolini. Il lavoro dell’allievo mostra in controluce il pensiero del maestro; il maestro inconsapevole parla con le parole che saranno dell’allievo. Ed ecco che le due figure si incontrano, si associano; e l’uno non sa dell’altro, ma si sono scavati un solco a vicenda nella fronte. Come quando Longhi descrive l’angelo giovane di Francesco del Cossa, o il temperamento degli squarcioneschi; un occhio attento non solo alla regia della scena, alla qualità dell’atmosfera (spesso primaverile), ma agli attanti stessi. Riguardo al primo, si scrive “ma la Madonna è di stirpe casalinga e l’angelo ragazzo ha la sfrontatezza incolpevole d’un bel sergente aviatore”[16]. E, ancora, dei secondi: “quella brigata di disperati vagabondi, figli di sarti di barbieri di calzolai e di contadini che passò per un ventennio nello studio dello Squarcione.”[17] E da queste poche parole è già chiaro come i due guardassero a quei dipinti dalla stessa lente, e li riadattassero all’aviatore, al barbiere o alla comparsa affamata del buon ladrone di turno.

La sua è una scultura di panni – o stracci, per meglio dire – una montagna di stracci che vogliono ricordare, stinti, la vitalità floreale dei colori del Pontormo, che derivano, secondo la descrizione stessa di Pasolini, dal succo vivido di petali di certi fiori di campo: il rosso papavero, la vegetazione subacquea, l’erba medica, la rosa selvatica, la fragola… ogni fiore ha il suo posto nell’economia dei colori che diventano come numeri, assembramento, cifre, segni vegetali. Lui stesso dipingeva con gli stessi metodi di quei pittori, con il succo stesso delle cose.
Dare un nome ai colori, altre cose, non è da tutti: darne un nome e quindi assegnarne o immaginarne un’origine, come i nomi fanno. Immaginare una ditata di bambino[18] sulla genesi di una certa tonalità di rosso sbocciata nella Deposizione di Pontormo, nata da un suo rivolo violento. Una pittura di cose: utensili per rinvenirla, vegetali per farla brillare; le cose povere brillano della ricchezza dello sguardo, uno sguardo che non le nobilita, le sacralizza soltanto: ma come si consacra la crosta di pane o la frutta o la cesta di ricotta o il fiore appena colto nei tabernacoli improvvisati su una strada di Trastevere, con dignità semplice e diretta. La ricchezza è nella stratificazione, nella cosa immagine e nella densità dell’immagine, di intrinseca forma significante. Il punto giallo del fiore in bocca di Andreuccio poco prima di cadere nel baratro di sterco. E le cose sono anche il mezzo: la pittura con le cose, gli strumenti poveri di scena, che riposano insieme al sogno di una cosa di Marx.
Si leggono nella filigrana dei quadri dei suoi film, in controluce, i suoi versi, – la rosa che ancora ritorna, che si sfrangia, i cui petali si perdono con la sola pressione delle dita “o di un rosa di quei fiori che non so come si chiamino, credo rose selvatiche, cresciute rozzamente tra i cespugliacci di primavera, in comuni prati o pascoli o prode di fossi: con le foglie delicate che si staccano appena a toccarle”[19]; forse quegli stessi petali che colorano la deposizione sono quelli che si sfibrano in “una rosa carnale di dolore | con cinque rose incarnate”[20] nella sua poesia visiva in forma di rosa.

Bibliografia
I. Brodskij, Elegie romane, in Poesie, 1972-1985, a cura di G. Buttafava, Adelphi, 1988 [1986].
R. Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, Abscondita, 2014.
R. Longhi, Officina Ferrarese (1934). Seguita dagli ampliamenti 1940 e dai nuovi ampliamenti 1940-55, Sansoni, 1980.
O. Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, 2009.
P.P. Pasolini, Tutte le poesie, Tomo I, a cura di W. Siti, Mondadori, 2009 [2003].
P.P. Pasolini, Sceneggiature (e trascrizioni), in Pier Paolo Pasolini per il cinema, Tomo primo, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, 2001.
[1] 23 aprile 1962, Poesie Mondane, in Poesia in forma di Rosa, p. 1093.
[2] “Un solo rudere, sogno di un arco, | di una volta romana o romanica, |in un prato dove schiumeggia un sole | il cui calore è calmo come un mare: | lì ridotto, il rudere è senza amore.” 10 giugno 1962, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, p. 1098.
[3] 25 aprile 1962, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, p. 1097.
[4] Roberto Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, p. 18.
[5] 10 giugno 1961, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, p. 1099; e in La Ricotta, letta da Orson Welles: “Io sono una forza del Passato.|Solo nella tradizione è il mio amore. |Vengo dairuderi, dalle chiese,|dalle pale d’altare, dai borghi|abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,|dove sono vissuti i fratelli.|Giro per la Tuscolana come un pazzo,|per l’Appia come un cane senza padrone.|O guardo i crepuscoli, le mattine|su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,|come i primi atti della Dopostoria,|cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,|dall’orlo estremo di qualche età|sepolta. Mostruoso è chi è nato |dalle viscere di una donna morta.|E io, feto adulto, mi aggiro|più moderno di ogni moderno|a cercare fratelli che non sono più.
[6] Osip Mandel’štam, marzo 1920, Ottanta poesie, p. 73. “Api mellifere e vespe succhiano la pesante rosa […] |Le pesanti tenere rose si muovono in un lento gorgo;|pesantezza e tenerezza hanno avvinto le rose in un duplice serto!”
[7] 12 giugno 1962, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, p. 1100. (Per la tua gioia accetta questo dono barbarico: |un’arida, dimessa collana di api morte | che hanno trasformato il miele in sole. Osip Mandel’štam, novembre 1920, Ottanta poesie, p. 79.)
[8] Iosif Brodskij, Elegie romane, IX, p. 177.
[9] Iosif Brodskij, Elegie romane, III, p. 171.
[10] 12 giugno 1962, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, p. 1100. (“Per la tua gioia accetta questo dono barbarico: |un’arida, dimessa collana di api morte | che hanno trasformato il miele in sole.”Osip Mandel’štam, novembre 1920, Ottanta poesie, p. 79.)
[11] 12 giugno 1962, Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, p. 1100.
[12] Poesia con letteratura, p. 730.
[13] Poesia con letteratura, p. 729.
[14] Roma 1950. Diario, p. 710.
[15] La Ricotta, in Sceneggiature (e trascrizioni), p. 345.
[16] Roberto Longhi, Officina Ferrarese, p. 31.
[17] Roberto Longhi, Officina Ferrarese, p. 23.
[18] “Se prendete dei papaveri, lasciati nella luce del sole d’un pomeriggio melanconico, […] se li prendente e li pestate: ne viene fuori un succo che si secca subito, annacquatelo un po’, su una tela bianca di bucato, e dite a un bambino di passare un dito umido su quel liquido: al centro della ditata verrà fuori un rosso pallido pallido, quasi rosa, […]; ma agli orli delle ditata si raccoglierà un filo rosso violento e prezioso, appena appena smarrito […]” La ricotta, in Sceneggiature (e trascrizioni), pp. 343-344.
[19] Pier Paolo Pasolini, La Ricotta, in Sceneggiature (e trascrizioni), p. 345.
[20] Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, in Tutte le poesie, Tomo I, p. 1129.