È uscito per Italo Svevo (pp. 144, € 20) Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia, interventi di sedici autori italiani (Gherardo Bortolotti, Emmanuela Carbé, Tommaso Di Dio, Giorgio Falco, Carmen Gallo, Helena Janeczek, Guido Mazzoni, Giulio Mozzi, Gianluca Nativo, Davide Orecchio, Francesco Pecoraro, Tommaso Pincio, Laura Pugno, Sabrina Ragucci, Alessandra Sarchi ed Emanuele Trevi) che commentano la propria presenza su Instagram. Il libro è ideato e curato da Maria Teresa Carbone, che ha anticipato alcune di queste conversazioni nei mesi scorsi su «Le parole e le cose2». Per la cortesia dell’editore e della curatrice proponiamo qui la postfazione di Andrea Cortellessa. Il libro verrà presentato dalla curatrice insieme a Janeczek, Mazzoni, Pugno e Cortellessa al Salone del Libro di Torino (allo stand della regione Friuli Venezia Giulia, sabato 21 alle 20) e insieme a Mazzoni, Orecchio, Pecoraro, Pincio e Pugno alla Casa delle Letterature di Roma (martedì 24 alle 18).
La poésie doit être faite par tous. Non par un.
Lautréamont
Se gli uomini riuscissero a convincersi che l’arte
è una precisa conoscenza anticipata di come affrontare
le conseguenze psichiche e sociali della prossima
tecnologia, non diventerebbero forse tutti artisti?
O non comincerebbero forse a tradurre con cura
le nuove forme d’arte in carte di navigazione sociale?
McLuhan
Un fotografo che non sa leggere le proprie immagini
non è forse meno di un analfabeta?
Benjamin
A meno di un secolo dalla sua invenzione, diceva Walter Benjamin che la fotografia era penetrata in «tutti gli aspetti dell’attività umana». Eppure, sino a qualche anno fa, chi ne ha scritto la storia ha privilegiato solo alcuni di questi aspetti: segnatamente quelli artistici. Tanta tecnologia passata sotto i ponti, invece, vediamo come l’intera nostra esistenza ne risulti sempre più condizionata. Sempre più da quando – con l’introduzione della portatile Kodak, da parte di George Eastman, nel 1888; della fototessera di Carquerot e Guillaumot, nel 1889; della Polaroid da parte di Edwin Land nel 1947; della macchina digitale con Akio Morita nel 1981 – l’“uomo della strada” s’è fatto, da mero consumatore di immagini, prosumer a pieno titolo. Per Roland Barthes (nella Camera chiara, 1980) «l’età della fotografia» corrisponde «all’irruzione del privato nel pubblico», ossia alla «pubblicità del privato». Oggi è evidente a tutti come la fotografia sia «una modalità di accesso percettivo» e un «luogo di costituzione dell’io» (Francesco Parisi in Filosofia della fotografia, 2013), ma già nel ’96 Rosalind Krauss aveva potuto parlare del «fotografico», in termini antropologici prima che tecnici, come di «una sorta di griglia o di filtro per mezzo del quale si possano organizzare i dati di un altro campo che si trova, rispetto a essa, in posizione seconda».
Da una decina d’anni a questa parte (il lancio di Instagram, da parte di Kevin Systrom e Mike Krieger, risale al 6 ottobre 2010; l’acquisizione e il rilancio da parte di Facebook al 2012), però, alle dinamiche del fotografico un giro di vite sorprendente ha impresso l’incontro di tecniche di ripresa fotografica sempre più “leggere” e semplici da usare, come quelle ormai piuttosto evolute integrate nei cellulari, con mezzi di comunicazione a loro volta dis-intermedianti quali sono (o si presentano) i social network, che sempre i telefoni portatili impiegano come supporti privilegiati (così consentendo, a differenza di precedenti pratiche di “condivisione” delle immagini, di gestire su un unico dispositivo l’intero processo: dalla ripresa alla post-produzione sino all’“impaginazione” e alla “pubblicazione”). Cosicché i fenomeni antropologici del fotografico e del regime social si presentano oggi pienamente integrati: al punto che l’uno appare inconcepibile senza l’altro.
Il tono lievemente ironico col quale Guido Mazzoni dice che non essere stati iscritti nell’ultimo decennio a Facebook (condizione che condivido) equivale a non aver usato la televisione negli anni Ottanta, cioè all’aver «perso il contatto con la realtà», non fa velo alla desolante esattezza dell’osservazione. Sebbene si possa dire con Guy Debord che lo «spettacolare», appunto dagli anni Ottanta in poi, si sia «integrato» a ogni aspetto della vita sociale, non c’è dubbio che con l’azione capillare dei social media soprattutto il «fotografico», oggi, sia incistato nel quotidiano di ciascuno di noi. Il dispositivo fotografico, come in prospettiva altre tecnologie «indossabili» (per dirla col Pietro Montani dell’Immaginazione intermediale), ha infatti il vantaggio di una spiccata, quasi perturbante “portabilità” («ciò che per Walker Evans era un problema […] per il possessore di uno smartphone è una cosa relativamente semplice»: ancora Mazzoni), e così la fotografia pare essere «diventata qualcosa di irrinunciabile, una sorta di diritto della persona, di tutte le persone» (Tommaso Pincio). Al contempo, l’esibizione promozionale che sui social s’è preso a fare dei propri talenti, veri o supposti (quella che Vanni Codeluppi ha definito «vetrinizzazione sociale»), s’è fatta sempre più sofisticata sul piano della comunicazione. E fra gli altri hanno preso a praticarla anche gli artisti: fra i quali quelli che con la fotografia, in passato, avevano intrattenuto rapporti obliqui, controversi, per non dire proprio conflittuali. Parlo ovviamente degli scrittori.

Sicché questo libro di Maria Teresa Carbone, evolutosi nel tempo in parallelo all’evoluzione (o involuzione, come sostiene più d’un interpellato) del social network che descrive – Instagram, appunto –, può essere usato in almeno due modi diversi: da un lato come chiave d’accesso laterale, ma in diversi casi tutt’altro che accessoria, all’opera di alcuni dei nostri migliori scrittori in versi e in prosa; dall’altro come indagine-campione sull’uso social e sociale, e sul suo grado di consapevolezza, da parte appunto degli scrittori: cioè individui considerati, in genere, particolarmente avvertiti delle condizioni di vita associata condivise coi propri concittadini.
L’evoluzione anzitutto quantitativa del linguaggio fotografico, incoraggiata dall’uso generalizzato di social media votati alla condivisione di immagini, ha fatto parlare Joan Fontcuberta di una «condizione postfotografica» (La furia delle immagini, 2016). L’homo photographicus, come lo chiama il fotografo e teorico catalano, vive una mutazione radicale dello statuto delle immagini: da segni permanenti (anche perché fisicamente stampati su supporti cartacei), che fissavano in un’icona materiale il vissuto per definizione sfuggente degli esseri umani, a «identità versatili, malleabili e volubili», “liquide” nel senso che a questo termine-ombrello ha dato Zygmunt Bauman: infinitamente trascorrenti, infatti, sulle onde social. Fontcuberta ricorda come proprio Bauman si fosse stupito, nelle sue ricerche giovanili sulla rivoluzione industriale, di non averne trovato traccia nella stampa e nella letteratura fino almeno al 1875, cioè circa un secolo dopo il suo inizio: «per noi è ovvio che si trovassero nel cuore di una rivoluzione, per loro no». Lo stesso succede con la rivoluzione in corso oggi: le “testimonianze in negativo”, che per così dire qui recano i nostri migliori scrittori, proprio questo ci dicono.
Infatti la fotografia, per la maggior parte degli scrittori che la praticano come del resto per gli altri esseri umani, non solo non è (più) un’arte ma non si può (più) neppure definire una lettura della realtà, una sua prensione cognitiva. È tutt’al più un «archivio» (Alessandra Sarchi), uno «strumento di memoria» (Helena Janeczek), un «taccuino» (Gianluca Nativo), un «appunto» (Francesco Pecoraro, Tommaso Pincio), un’«annotazione» (Emmanuela Carbè): che in quanto tale può o meno, poi, svilupparsi in qualcos’altro. È insomma una parte della vita (o, diciamo, una sua particolare declinazione); alla lettera, una tranche de vie.

D’altra parte per uno scrittore «la vita» è sempre, insieme, sé stessa e il suo doppio: cioè quella sua messa in forma (o messa in scena) che, quasi subito o molto più tardi, sarà la sua opera. Ne sono consapevoli soprattutto i poeti, i quali sanno bene come la vida per i provenzali – coloro cioè che hanno inventato la poesia, per come s’è praticata da allora sino a oggi – sia materiale di fabbricazione prezioso, che allora come oggi non ci si perita di “usare” con un’attitudine auto-predatoria che, a chi poeta non è, può apparire cinica. Anche in questo senso la fotografia risulta preliminare alla scrittura (lo fanno capire Pincio e Laura Pugno quando ne parlano rispettivamente come di «una psiche» estroflessa e prostetica – in outsourcing, diciamo – e di una «continuazione», o viceversa «precursione», della scrittura «con altri mezzi»). Come dice Tommaso Di Dio, «c’è un’archeologia dello sguardo che è già fotografia», dal momento che la poesia non è «solo questione di scrittura, ma di visione». Anche se poi questi stessi autori sanno pure che una cosa è l’icastica “interna” alla scrittura (o il materiale iconografico che la scrittura precede con funzione documentaria, come ricordano Pincio e Davide Orecchio: cioè rispettivamente un critico d’arte e uno storiografo di formazione), e cosa ben diversa la convocazione materiale dell’immagine nel testo (perché in genere, invece, «le due cose viaggiano abbastanza parallele»: Carmen Gallo).
La quantità delle immagini, il loro «continuo accumulo» (quella sgomentevole Photography in abundance di Erich Kessels che risale al 2011 e Fontcuberta mette in copertina al suo libro) e «l’epoca della compressione», da cui si dichiara affascinato un autore certo non sospettabile di corrività come Gherardo Bortolotti, sono connessi alla loro bassa risoluzione. L’immagine «lo fi» e non gerarchizzata è già «prosa in prosa», come Bortolotti e altri autori chiamano la propria scrittura non esitando a definirla, pure, «postpoesia»: che è sin troppo facile postillare alla poesia stia come la postfotografia alla fotografia.
Quella della bassa risoluzione di gran parte delle immagini postate sui social è già stata usata come metafora (da Massimo Mantellini in un pamphlet del 2018) dei rapporti approssimativi che gli utenti intrattengono non solo coi loro «amici», o «followers», ma con la realtà tutta fuori dagli schermi. La bassa risoluzione connota in effetti più in generale la realtà sociale che il combinato disposto del fotografico e del regime social registra, e insieme concorre a produrre. Quello venuto meno è ogni principio di selezione, e anzi proprio di individuazione: dopo tante profezie ai tempi della vague post-strutturalista, solo oggi pare venuto il tempo della «morte dell’autore» (un anonimato di ritorno che, secondo Di Dio, ci riporta in «una grotta di Lascaux virtuale»). È singolare che, fra autori che così spesso convocano nei propri testi letterari un “io” fittizio, o comunque “adattato” alle esigenze retoriche della scrittura, i soli Orecchio e Pincio ricordino come quello “vetrinizzato” sulla bacheca virtuale dei social sia un manufatto «autofinzionale», «un fantasma del proprio corpo e un veicolo di trasformazione identitaria» o, per dirla con la sintesi di Pincio, un «tentativo di alterità». Di converso, però, questo stesso post-individuo – nella fattispecie Bortolotti – non si perita di enfatizzare la propria «soggettività», finendo addirittura per indulgere a «un’esplorazione del sentimentale».
Questo appena fotografato, è il caso di dire, è il paradosso della «cultura del narcisismo» diagnosticata da Christopher Lasch già negli anni Settanta: che considera «il mondo uno specchio» ma in quello specchio riflette un io “senza qualità”, cioè senza quei tratti distintivi che la cultura moderna invece enfatizzava. L’«io minimo» del narcisista di massa postmoderno, al contrario, è «un io sempre più svuotato di qualsiasi contenuto» (così Lasch nella Cultura dell’egoismo, una conversazione dell’86 con Cornelius Castoriadis), che si limita a «mettere in atto un’opera di seduzione per ottenere attenzione consenso o indulgenza su cui puntellare il suo vacillante senso di identità». Paiono scritte oggi queste parole datate 1979: «le macchine fotografiche e gli strumenti di registrazione […] danno a gran parte della vita moderna l’apparenza di un’immensa camera dell’eco, di una sala degli specchi». Quella in cui soggiorna chi pensa di fare qualcosa di originale, poniamo, “postando” le fotine dei battiscopa o dei gatti di casa, anziché quelle del marciapiede scatarrato, per dare il senso del «pittoresco in negativo» (Bortolotti) delle periferie residenziali, cui è tanto affezionato, anche quando queste siano interdette in regime di lockdown.

Il narcisista post-individuale coltiva la superstizione per cui, anche se non indulge alla pratica del selfie, «ogni foto pubblicata diventerà comunque un autoritratto, qualunque sia il soggetto dell’immagine». Questo è infatti «il primo comandamento del social», scandisce Pincio col più soave e spietato dei sorrisi: «non produrrai altre immagini all’infuori di te». Sarchi è l’unica a esplicitare quanto forse anche altri pensano, e cioè come «il mito dell’espressivismo individuale attinga a risultati grotteschi sui social»; ma questo grottesco si deve proprio alla riflessione scarsa, o nulla, che su questi media si fa sul paradosso di un narcisismo ossessivo associato a una bassa risoluzione, etica e cognitiva, di coloro che ne sono affetti.
In un articolo straordinariamente penetrante che risale addirittura al 1941, Valore dell’attimo, Guido Piovene faceva notare quanto «la scoperta della fotografia […] avesse mutato profondamente il costume degli uomini», fra l’altro per la scala diversa degli oggetti che ammette alla loro attenzione. Mentre in passato la «pittura […] non poteva rivolgersi che ad avvenimenti importanti», la fotografia coglie nella loro essenza «il piccolo, il normale, quello che dura un soffio, l’aspetto secondario, l’espressione consueta, tutto ciò che fa parte del regno dell’intimità e costituisce la vera storia della vita umana». Proprio questa “democratizzazione” del tempo e dello spazio, cioè della vita, nella scoperta della dimensione che molto tempo dopo, ricorda Bortolotti, Georges Perec definirà «infraordinario» («l’assolutamente insignificante» che, stando a Pecoraro, produce «un’estetica nell’anestetica»), è uno dei tratti più spiccati di quella che chiamiamo modernità.
Se però la fotografia ha non solo registrato questa “democratizzazione degli oggetti”, ma in qualche modo l’ha anche sollecitata, si può dire che di contro la post-fotografia incoraggi oggi una “democratizzazione” dei suoi soggetti: Bortolotti è il più lucido ad avvertire come in questo contesto «perda completamente di senso» il «concetto di selezione», non solo di quanto si guarda ma di chi guarda («sono così tante le persone legittimate a produrre contenuti online che la figura dell’autore ne esce svuotata»). Il che, della complessa Bildung dell’artista moderno, pare rappresentare la pietra tombale definitiva. «Un tempo per pubblicare un libro c’era un investimento notevole», fa notare ancora Bortolotti, mentre oggi dalla “scrittura” alla “pubblicazione” passa il tempo di un clic: con tutte le conseguenze del caso. Certo in sé questo è «un grande fenomeno democratico»: che però contribuisce pure a «vaporizzare quell’elemento a vario titolo elitario che è necessario alle democrazie per non diventare populiste e alla cultura per non ridursi a opinione» (Mazzoni).
Il paradosso dell’esibizionismo cui il social medium incoraggia un individuo che, a ben vedere, quello stesso medium desoggettiva, fa della fotografia in questo regime, dice Sabrina Ragucci, qualcosa di simile a «un monitoraggio di sorveglianza»: con lo speciale (e spietato) surplus di efficienza che tale sorveglianza ora, a differenza che in passato, viene esercitata dagli stessi individui che nella propria smania di esibirsi sono ora sorvegliati da loro stessi. Il Panottico non è più al Centro, non è più in Alto: è diffuso, capillare, impercepito in quanto totalizzante. Non c’è più un Grande Fratello, perché siamo divenuti tutti volenterosi Piccoli Fratelli di noi stessi. Il che significa pure che non c’è più un Grande Schermo che possiamo provare a squarciare, come faceva Don Chisciotte con quello del cinema nel lancinante (e squisitamente moderno) frammento di Orson Welles. Dovremmo capire piuttosto, ora, come squarciare quello schermo minuscolo che siamo divenuti noi per noi stessi. Vaste programme, o invece minimo: comunque inesauribile, forse.

Proprio il rifiuto di una critica del medium, da parte dei pochi che anche solo la concepiscano considerata «moralistica» (così, papale papale, Bortolotti), è segno dell’eclisse definitiva di una delle stimmate più caratteristiche della modernità. Se Benjamin poteva dire che la fotografia d’avanguardia aveva «liberato il campo per lo sguardo politicamente educato», la postfotografia di quasi un secolo dopo pare annunciare un tempo in cui tale educazione venga definitivamente consegnata al dimenticatoio. Con l’eccezione drastica di Ragucci (forse non a caso l’unica “professionista” che confessi la sua alienazione, dichiarando che «spesso odia la fotografia, quanto Andre Agassi il tennis»), e quelle più tenui di Janeczek, Sarchi e Mazzoni, colpisce come in particolare paia inconcepibile, ad autori tutt’altro che alieni a farla in altre sedi, una critica politica – marxista o post-tale – dei sistemi di produzione sottesi alle pratiche sociali che li coinvolgono, per lo più tacitamente accettati come “naturali” (l’ambiente social come “seconda natura” che non può essere messa in discussione, come l’acqua per i pesci nel celebre apologo di David Foster Wallace: impercepita appunto in quanto pervasiva, come gli «iperoggetti» di cui parla Timothy Morton).
Chi pure segnali la condizione ossimorica del regime social – realizzazione effettiva, a buoni settant’anni dalla sua formulazione, del concetto sociologico di «folla solitaria» –, come fa Di Dio nel rilevare come «fra i contatti non vi siano relazioni personali», lo fa per apprezzarla: così dando voce a quello che una volta Franco Arminio – prima di passare all’incasso dei suoi effetti demagogici e autopromozionali – aveva chiamato «autismo corale». Si sarà capito da un pezzo che, per quel che vale, sono d’accordo con Ragucci quando sentenzia che «Instagram è un social/virtuale, quindi è il male»; e col suo corollario sull’anti-immediatezza della «differita» che è «il senso della fotografia, della scrittura». Colpisce però che sia l’unica, qui, a dire una cosa del genere. Probabilmente dipende dal fatto che, proprio perché unica fotografa a non potersi dire dilettante, s’è formata in regime analogico: «mi sono adeguata al destino di vivere tra due epoche. O meglio, nella reale e definitiva fine di un’epoca». Per anagrafe, in verità, lo stesso è successo a Francesco Pecoraro il quale tematizza spesso, in sede letteraria, questa sua residualità; ma per quanto riguarda la fotografia esclude che le immagini prese a quel tempo abbiano «alcun significato».
Ancor più fa specie che buona parte dei nostri migliori autori in versi e in prosa, di norma consapevoli in misura parossistica di ogni aspetto della propria scrittura (l’«awareness» di cui parla Pugno), si astengano rigorosamente, invece, da una valutazione critica dei risultati espressivi delle pratiche fotografiche, altrui e proprie. È sintomatico che quello fra loro che con ogni probabilità è il più consapevole in assoluto, Giulio Mozzi, sia da un lato l’unico a dirsi titolare di un corpus fototestuale in proprio (diverso il caso del ticket composto da Ragucci e Giorgio Falco, il quale proprio alla maieutica di Mozzi deve il proprio esordio letterario; dei propri passati exploits fototestuali Emanuele Trevi, qui, fa quasi un’abiura), e dall’altro che per pubblicarlo abbia dovuto costruirsi un eteronimo, una personalità autoriale alternativa cui ha dato nome «Carlo Dalcielo». Per un Mazzoni che deliberatamente adibisce Instagram ad «allentare il controllo nevrotico che l’amor proprio esercita sulla scrittura» (il che spiega perché si dica convinto che la sua scrittura e la sua fotografia «si parlino molto», ma di non «voler sapere che cosa si dicono»), a prevalere di contro è una trasandatezza calcolata, certo, ma non sino a farsi vero e proprio deskilling. Sino al candore disarmato col quale Carbè confessa che a piacerle, della fotografia on line, è proprio il «fare qualcosa di cui non capisce nulla».
L’altra agudeza di Mazzoni, sulla «guerra fredda» sempre latente tra parola e immagine, fa pensare alla celebre quanto discussa dicotomia mcluhaniana tra media «freddi», appunto, e «caldi». Secondo Understanding media (1964), i primi sono meno “definiti”, nel senso che trasmettono un numero minore di informazioni, e proprio per questo richiedono, per essere decodificati, una maggiore “attività” da parte del fruitore. La fotografia, insieme alla radio e al cinema, era considerata un medium “caldo”: ma perché McLuhan si riferiva alle modalità di produzione e riproduzione delle immagini in auge quando scriveva, cioè nei primi anni Sessanta (le obiezioni da allora poste al suo modello spesso non tengono conto dell’evoluzione tecnica dei media, da quando li ha descritti; non può non colpire per esempio che considerasse “fredda” la televisione: quella che baluginava in bianco e nero, si capisce, nei tinelli di allora). Volendo applicare questa dicotomia al panorama mediale presente, la fotografia che circola sui social è viceversa “a bassa definizione” e dunque “fredda”; e infatti è esaltata dalle pratiche euforicamente “attive” degli utenti dei social, che spesso la “condividono” prima ancora di averla “letta” davvero. Ma proprio questo richiederebbe loro, in effetti, una maggiore competenza mediale; al contrario gli utenti di Instagram – o almeno il campione qui rappresentato – paiono compiacersi precisamente della loro incompetenza.

Viene così da pensare che l’eclisse della soggettività autoriale sia legata a filo doppio alla fine della riflessione sul mezzo impiegato, cioè in definitiva della sua stessa artisticità. Già nel 1965 Pierre Bourdieu poteva tirare le fila di un’ampia ricerca sociologica definendo la fotografia Un’arte media, e parafrasando sarcastico quanto diceva Hegel della filosofia: «nessun’altra arte, nessun’altra scienza è esposta a così supremo disprezzo che chiunque presume di possederla d’un tratto». Ricorre in effetti la confessione e anzi la rivendicazione, da parte di chi fotografa, di non pensare al proprio come a un gesto artistico («non mi considero un autore»: Mazzoni; «non mi considero affatto un fotografo»: Bortolotti e Pincio a una voce). Ma questa eclisse della soggettività deriva in primo luogo proprio dalla sospensione dello sguardo (cioè della presa in esame critica dell’esistente) al quale induce, paradossalmente, un medium visivo come la fotografia. Sia pure entrambi ascrivendolo al proprio passato, un tale accecamento da saturazione visiva viene confessato tanto da Bortolotti («capitava che a volte non guardassi neanche cosa inquadravo») che da Pecoraro («finivo per vedere le cose solo attraverso il mirino della fotografia»): così ripetendo un paradosso già tanto tempo fa enunciato da Calvino (La follia del mirino) e da Piovene (Il vizio fotografico).
Proprio quest’ultimo, che come abbiamo visto aveva celebrato il «valore dell’attimo» fissato dalla fotografia, già nel 1965 se la prendeva invece con il «fotografare anonimo, infinito, nevrotico ed insensibile» del suo tempo, «questa specie di benda volontaria sugli occhi che impedisce di guardare il mondo». Ma già negli anni Venti Siegfried Kracauer aveva messo in guardia dalla «marea di foto che spazza via gli argini della memoria», e sul fenomeno per cui «nelle riviste illustrate il pubblico vede il mondo, ma proprio tali riviste gli impediscono di vederlo»: così prefigurando il cortocircuito dello «scambio simbolico», fra realtà e sua riproduzione, abbondantemente illustrato in clima postmodernista da Jean Baudrillard negli anni Novanta.
Ardue, si capisce, le conclusioni. Alla fine della propria autointervista dice Carbone di non poter prevedere in che modo «la pratica della scrittura risentirà della pervasività delle immagini», avvertendo come sia «difficilissimo descrivere un fenomeno in corso, soprattutto quando se ne è parte». Ma non meno difficile risulta descrivere lo stesso fenomeno quando, come me, non s’intenda farne parte. Unendo pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, così conclude Fontcuberta La furia delle immagini: «è chiaro che abbiamo perso la sovranità sulle immagini, e vogliamo recuperarla». Col primo lemma di questa frase scommetto che converrebbero tutti gli scrittori interpellati; mi chiedo quanti di loro sottoscriverebbero il secondo.
Che ci faccio qui? Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia
a cura di Maria Teresa Carbone
con una postfazione di Andrea Cortellessa
Italo Svevo, 2022
pp. 144, € 20
In copertina: uno scatto di Guido Mazzoni