Open-end. Le figure di Marlene Dumas

11/05/2022

My healed chest wound
Transformed into a gate
Where I receive love from
Where I give love from
And I care for you
Care for you

Bjork – “The Gate”

Il 1° febbraio 1979, Susan Sontag scrive una brevissima nota sul suo diario dopo aver visitato una retrospettiva su René Magritte:

La mostra di Magritte al Beaubourg. L’Empire Des Lumières (1953-54) – attraverso le immagini, ha dato un nome a certe cose che ora tutti vedono: il cielo azzurro, gli alberi scuri, i lampioni accesi.[1]

A volte accade che improvvisamente le cose di fronte ai nostri occhi tornino ad avere peso e sostanza, che si mostrino esattamente per ciò che sono: la meraviglia di vedere il cielo e le sue sfumature, le ombre lunghe e azzurre al tramonto, i colori delle cose cambiare incessantemente e nascondersi a sera, nel buio.

Ci sono momenti che durano un istante in cui anche le forme delle cose, famigliarissime, ci appaiono di nuovo inedite. Capita anche con i volti, con i corpi, con gli occhi, gli sguardi: di colpo il nostro continuo guardare, incessante, frenetico, si ferma e vediamo. È una specie di cattura in cui il nostro sguardo si raccoglie, si concentra, si addensa, si protende, e vediamo. Nessuno può pensare di vedere senza pensare alla cecità.

Di fronte ai quadri di Marlene Dumas accade proprio questo. Davanti ai colori vividi, liquidi che disegnano corpi e volti, davanti alle immagini crude, violente e amorose, mentre sentiamo gli occhi aprirsi, le palpebre sollevarsi, lo sguardo approfondirsi, il colore invadere la pupilla, ci sorprendiamo a porci domande semplici, elementari e essenziali: come è possibile che due segni e una macchia formino un occhio? E com’è possibile che quell’occhio abbia un’espressione così profonda? È dunque questa linea, non un’altra, a fare un volto, questo volto? E come fa questo volto a rendermi così triste?

Marlene Dumas, The White Disease, 1985

Visitando Open-end, la prima grande personale in Italia di Marlene Dumas a Palazzo Grassi, si ha la sensazione di trovarsi di fronte alla pittura e al suo continuo farsi, reinventarsi, alla sua inaudita rinnovata capacità di colpire. Ovunque intorno occhi, corpi, mani, schiene, sguardi, apparizioni di figure che ci dicono dell’amore, della morte, della tenerezza e della rabbia, del lutto, dell’umano.

Marlene Dumas, The Origin of Painting (The Double Room), 2018; Time and Chimera, 2020; The Making of, 2020

Le figure di Dumas sono fatte di colore che ogni volta ha la capacità di formare e disegnare o distruggere e cancellare, nascondere: ad esempio, il trittico The Origin of Painting (The Double Room) / Time and Chimera / The Making of svela il meccanismo stesso della pittura. Nella prima tela una figura femminile, nel dipingerla, incontra un’ombra, un fantasma amorfo, liquido; nella seconda e nella terza tela, la chimera scura ferma con forza la figura e infine la plasma. E così come nelle ombre che dapprima creiamo e che finiscono per modellare la nostra vita, si addensa una moltitudine di spettri – e specchi –, così nelle immagini accade di trovarci di fronte all’interstizio attraverso cui il mondo sommerso, buio, invisto, è capace di fare ritorno e fendere la nostra esistenza personale e collettiva.

Dumas dipinge le forze. C’è una relazione potente che si instaura tra le figure e lo spazio pittorico: le immagini della pittrice hanno un taglio esplicitamente cinematografico, le figure vengono inquadrate, tagliate, zoomate sulla tela che diventa il confine variabile del frame. I formati dei quadri di Dumas sono inusuali, inediti: le figure, siano esse intere, lunghissime, o siano esse confinate in una tela piccolissima, in ogni caso dilagano su tutta la tela. I volti occupano tutto lo spazio pittorico. Pezzi di corpi rimangono fuori dalla tela, vengono tagliati brutalmente. Figure senza sfondo, senza contesto.

Marlene Dumas, Struck, 2017

Eppure sono lì, appaiono come nodi di tempi complessi, non è importante se come spettri da un passato imprecisato o da un futuro ancora da scrivere, ora sono lì, presentissime, violentissime, spesso frontali che ci guardano, ci sfidano.

Si sente, a volte, come i tagli netti dell’immagine rinforzino la relazione con ciò che rimane fuori dall’inquadratura: i fuori campo di Dumas sono vertiginosi, misteriosi, sono vibrazione pura che arriva da un fuori che informa, plasma, ha effetti tangibili su ciò che è in campo. Il fuori campo non viene negato anzi, c’è volontà di affermazione e coesistenza: c’è un mondo non visibile fuori che crea la figura e che si crea attraverso di essa. L’invisibile informa il visibile, l’invisibile è il cuore del visibile.

È tutto un gioco di pressioni, di forze contrarie, di vibrazioni e di spinte. Le figure di Dumas sono spinte e spingono, tirano e sono tirate, si espandono e vengono schiacciate: il mistero che ci consegnano è come sia difficile ma possibile reagire a una pressione – qualsiasi essa sia – e quali conseguenze provochi esercitare una forza di resistenza. Applicare una resistenza a una forza crea spazio e, in quello spazio, le vibrazioni sono fortissime: quando l’immagine si fa simbolo, allora crea spazio, resiste agli urti, la sua comparsa è sempre una ricomparsa e il suo passato non smette di passare in noi. Quando l’immagine è il risultato di questo gioco allora riacquista la capacità di immaginare, di fare mondi e inventare, di farsi avamposto di creazione del possibile.

Le figure di Marlene Dumas sono punti di resistenza, spazi strappati alle forze storiche all’interno dei quali, il tornare non è sinonimo di ripetizione ma di divenire altro, di apertura, di metamorfosi. Gli spazi che si creano opponendo una resistenza, sono spazi di libertà, spazi di creazione, di comunanza e profonda empatia. I soggetti di Marlene Dumas, così come le immagini, hanno la forza di tornare sempre, malgrado tutto, malgrado tentativo di imporre il silenzio, di metterle fuori campo, di nascondimento e esclusione, di chiusura, nonostante siano state a lungo murate nella storia, schiacciate, sfigurate nell’espressione, esse tornano come cura, come farmaco e si donano a noi come liberazione, come aperto, come respiro, come soglie attraverso cui dare amore, ricevere amore.

Marlene Dumas, The Gate, 2001

Marlene Dumas. Open-end
Palazzo Grassi
Punta della Dogana, Venezia
fino all’8 gennaio 2023


[1] S. Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo, Nottetempo, Milano, 2019, p. 546.

In copertina: Marlene Dumas, Canary Death, 2006 (particolare), Pinault Collection, ph. courtesy of Gallery Koyanagi, Tokyo © Marlene Dumas

Guido Mannucci

Nato ad Atri (TE) nel 1988, attualmente lavora e studia a Milano.
Si laurea in Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, si specializza in seguito in Estetica e Teorie dell’Immagine presso l’Università Statale di Milano. È attualmente studente del corso “Visual Studies” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.
È regista teatrale, dramaturg, musicista e sound designer. La sua ricerca nel performativo si concentra sulle modalità di costruzione dell’immagine nell’ambito delle arti performative, sull’interazione transmediale del visivo e sui meccanismi interni alla relazione tra immagine e canone dello sguardo. Nel 2016 è tra i fondatori di Compagnia La Lucina, realtà attiva nelle arti performative, nel teatro e nella danza contemporanea.

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